Feb 22 3:17 pm
Were the costs of Greek adjustment unavoidable, regardless of the currency? Could they have been much less, even given the euro? This paper says no; Simon Wren-Lewis is aghast, and rightly so. How can alleged experts have learned so little from so much terrible experience?
I’d like to focus in on one point in particular, which I’m not sure is completely clear in Simon’s argument. We’re all agreed that Greece needed to reduce its wages and other costs relative to those of the euro area core. This could have happened quickly, with no need for high unemployment, if Greece had had an independent currency to devalue — as happened in Iceland. Given membership in the euro area, however, Greece had to go through a period of relatively high unemployment depressing wage growth.
There was, however, a question of how fast this had to happen. Think of this schematic picture:
We can think of Greece needing to move wages toward a sustainable path that is itself rising over time thanks to inflation in the rest of the euro area (and of course it’s crucial that this inflation be fast enough). Even given this need, however, there’s the question of how fast; here Plan A is a cold turkey, very high unemployment and deflation route, while Plan B is one in which unemployment need only be high enough to keep wages from rising.
Clearly Plan A involves front-loading the pain. But is the total pain — as measured, say, in point-years of excess unemployment — the same in the two cases?
If the Phillips curve were linear, so that an additional point of unemployment always reduces wage inflation by the same amount, the answer would be yes. But we have overwhelming evidence at this point that the Phillips curve is NOT linear, that it gets very flat at low inflation because of downward nominal wage rigidity.
What this means is that Plan A doesn’t just front-load the pain; it produces a lot more total pain, even though it takes place over a shorter period, because you’re trying to break through strong inhibitions against actual wage cuts as opposed to mere wage restraint.
So Greece could have avoided the bulk of its nightmare if it had had its own currency; but it could have had a much less terrible nightmare even given the euro if austerity had been less extreme and adjustment slower.
L’austerità ed i costi della svalutazione interna
I costi della correzione in Grecia erano inevitabili, a prescindere dalla valuta? Avrebbero potuto essere inferiori, anche considerato l’euro? Questo articolo dice di no [1]; Simon Wren-Lewis è sbigottito, comprensibilmente. Come possono dei supposti esperti aver imparato così poco da una esperienza talmente terribile?
Vorrei concentrarmi su un aspetto in particolare, che non sono certo sia completamente chiaro nella argomentazione di Simon. Abbiamo tutti condiviso il fatto che la Grecia avesse bisogno di ridurre i salari ed altri costi relativi a quelli al centro dell’area euro. Questo avrebbe potuto avvenire rapidamente, senza alcun bisogno di una elevata disoccupazione, se la Grecia avesse avuto una valuta indipendente da svalutare – come è successo in Islanda. In quanto componente dell’area euro, tuttavia, la Grecia è dovuta passare attraverso un periodo di disoccupazione relativamente alta deprimendo la crescita salariale.
C’era, tuttavia, una domanda sulla velocità con la quale questo avrebbe dovuto accadere. Si pensi a questa figura schematica [2]:
Possiamo ritenere che la Grecia avesse bisogno di muovere i salari verso un andamento sostenibile che fosse esso stesso crescente nel tempo, grazie all’inflazione nel resto dell’area euro (e naturalmente sarebbe stato cruciale che questa inflazione fosse sufficientemente rapida). Anche considerato questo bisogno, tuttavia, c’è la questione della misura della velocità: in questo caso il Piano A è la cosiddetta “crisi di astinenza” [3], disoccupazione molto elevata e percorsi di deflazione, mentre il Piano B è quello nel quale c’è solo il bisogno che la disoccupazione sia sufficiente ad impedire la crescita dei salari.
Chiaramente il Piano A ha a che fare con una sofferenza concentrata nel tempo. Ma la sofferenza totale – misurabile, ad esempio, con un punteggio di anni di eccesso di disoccupazione – è la stessa nelle due ipotesi?
Se la curva di Phillips [4] fosse lineare, in modo tale che un punto aggiuntivo di disoccupazione riducesse l’inflazione dei salari della stessa misura, la risposta sarebbe positiva. Ma a questo punto abbiamo prove schiaccianti che la curva di Phillips NON è lineare, che in condizioni di bassa inflazione essa diventa molto piatta a causa della rigidità dei salari nominali verso il basso.
Quello che questo significa è che il Piano A non comporta soltanto la concentrazione nel tempo della sofferenza; esso produce una sofferenza totale molto maggiore, persino se ha luogo in un periodo più breve, perché ci si impegna in una rottura attraverso forti costrizioni rispetto a tagli salariali, rispetto ad un mero contenimento dei salari.
Dunque la Grecia avrebbe potuto evitare gran parte del suo incubo se avesse avuto la propria valuta; ma anche considerato l’euro, avrebbe potuto avere un incubo molto meno terribile se l’austerità fosse stata meno estrema e la correzione più lenta.
[1] L’articolo è apparso sul blog Vox il 20 febbraio 2015. Gli autori sono: Lars P. Feld (Università di Friburgo), Christhoph M. Schmidt (Presidente del Centro di Ricerca di Politica economica), Isabel Schnabel (Università di Gutenberg), Benjamin Weigert (Segretario Generale del comitato di consulenti economici del Governo della Germania), Volker Wieland (Università Goethe di Francoforte).
[2] Sulla linea verticale i salari, su quella orizzontale il tempo. La linea a trattini indica un andamento sostenibile. Nella soluzione A essi vengono bloccati in modo brusco nella fase iniziale del processo, in quella B il loro incremento è posto sotto controllo.
[3] Con l’espressione “cold turkey” (“tacchino freddo”) si intende il comportamento di una persona che interrompe bruscamente la assunzione di una sostanza dalla quale è dipendente, anziché farlo con gradualità e con il sostegno di farmaci, andando inevitabilmente a misurarsi con i problemi di una crisi di astinenza.
[4] L’economista neozelandese Alban William Phillips (1914 – 1975), nel suo contributo del 1958 ‘The relationship between unemployment and the rate of change of money wages in the UK 1861-1957′ (La relazione tra disoccupazione e il tasso di variazione dei salari monetari nel Regno Unito 1861-1957), pubblicato su Economica, rivista edita dalla London School of Economics, osservò una relazione inversa tra le variazioni dei salari monetari e il livello di disoccupazione nell’economia britannica nel periodo preso in esame. Analoghe relazioni vennero presto osservate in altri paesi e, nel 1960, Paul Samuelson e Robert Solow, a partire dal lavoro di Phillips, proposero un’esplicita relazione tra inflazione e disoccupazione: allorché l’inflazione era elevata, la disoccupazione era modesta, e viceversa. ” La società può permettersi un saggio di inflazione meno elevato o addirittura nullo, purché sia disposta a pagarne il prezzo in termini di disoccupazione .“ (Robert Solow)
Vedi più ampiamente sulle note della traduzione.
By mm
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