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Il salame piccante diventa di parte, di Paul Krugman (New York Times 6 marzo 2015)

 

Pepperoni Turns Partisan

MARCH 6, 2015

Paul Krugman

If you want to know what a political party really stands for, follow the money. Pundits and the public are often deceived; remember when George W. Bush was a moderate, and Chris Christie a reasonable guy who could reach out to Democrats? Major donors, however, generally have a very good idea of what they are buying, so tracking their spending tells you a lot.

So what do contributions in the last election cycle say? The Democrats are, not too surprisingly, the party of Big Labor (or what’s left of it) and Big Law: unions and lawyers are the most pro-Democratic major interest groups. Republicans are the party of Big Energy and Big Food: they dominate contributions from extractive industries and agribusiness. And they are, in particular, the party of Big Pizza.

No, really. A recent Bloomberg report noted that major pizza companies have become intensely, aggressively partisan. Pizza Hut gives a remarkable 99 percent of its money to Republicans. Other industry players serve Democrats a somewhat larger slice of the pie (sorry, couldn’t help myself), but, over all, the politics of pizza these days resemble those of, say, coal or tobacco. And pizza partisanship tells you a lot about what is happening to American politics as a whole.

Why should pizza, of all things, be a divisive issue? The immediate answer is that it has been caught up in the nutrition wars. America’s body politic has gotten a lot heavier over the past half-century, and, while there is dispute about the causes, an unhealthy diet — fast food in particular — is surely a prime suspect. As Bloomberg notes, some parts of the food industry have responded to pressure from government agencies and food activists by trying to offer healthier options, but the pizza sector has chosen instead to take a stand for the right to add extra cheese.

The rhetoric of this fight is familiar. The pizza lobby portrays itself as the defender of personal choice and personal responsibility. It’s up to the consumer, so the argument goes, to decide what he or she wants to eat, and we don’t need a nanny state telling us what to do.

It’s an argument many people find persuasive, but it doesn’t hold up too well once you look at what’s actually at stake in the pizza disputes. Nobody is proposing a ban on pizza, or indeed any limitation on what informed adults should be allowed to eat. Instead, the fights involve things like labeling requirements — giving consumers the information to make informed choices — and the nutritional content of school lunches, that is, food decisions that aren’t made by responsible adults but are instead made on behalf of children.

Beyond that, anyone who has struggled with weight issues — which means, surely, the majority of American adults — knows that this is a domain where the easy rhetoric of “free to choose” rings hollow. Even if you know very well that you will soon regret that extra slice, it’s extremely hard to act on that knowledge. Nutrition, where increased choice can be a bad thing, because it all too often leads to bad choices despite the best of intentions, is one of those areas — like smoking — where there’s a lot to be said for a nanny state.

Oh, and diet isn’t purely a personal choice, either; obesity imposes large costs on the economy as a whole.

But you shouldn’t expect such arguments to gain much traction. For one thing, free-market fundamentalists don’t want to hear about qualifications to their doctrine. Also, with big corporations involved, the Upton Sinclair principle applies: It’s difficult to get a man to understand something when his salary depends on his not understanding it. And beyond all that, it turns out that nutritional partisanship taps into deeper cultural issues.

At one level, there is a clear correlation between lifestyles and partisan orientation: heavier states tend to vote Republican, and the G.O.P. lean is especially pronounced in what the Centers for Disease Control and Prevention call the “diabetes belt” of counties, mostly in the South, that suffer most from that particular health problem. Not coincidentally, officials from that region have led the pushback against efforts to make school lunches healthier.

At a still deeper level, health experts may say that we need to change how we eat, pointing to scientific evidence, but the Republican base doesn’t much like experts, science, or evidence. Debates about nutrition policy bring out a kind of venomous anger — much of it now directed at Michelle Obama, who has been championing school lunch reforms — that is all too familiar if you’ve been following the debate over climate change.

Pizza partisanship, then, sounds like a joke, but it isn’t. It is, instead, a case study in the toxic mix of big money, blind ideology, and popular prejudices that is making America ever less governable.

 

Il salame piccante diventa di parte, di Paul Krugman

New York Times 6 marzo 2015

Se volete sapere cosa sostiene per davvero un partito politico, andate dietro al denaro. I commentatori e l’opinione pubblica sono spesso tratti in inganno; vi ricordate di quanto George W. Bush era un moderato, e Chris Christie [1] un personaggio ragionevole che poteva aprire un dialogo con i democratici? Coloro che versano i contributi più rilevanti, tuttavia, in genere hanno un’ottima idea di quello che stanno acquistando, cosicché seguire i loro investimenti vi dice molto.

Dunque, cosa ci dicono i contributi del passato ciclo elettorale? Non sorprende che i democratici siano il partito del grandi sindacati (o di quello che ne resta) e dei grandi uffici legali; i sindacati e gli avvocati sono i gruppi di interesse più importanti a sostegno dei democratici. I repubblicani sono il partito delle imprese energetiche e di quelle alimentari: dominano i contributi delle industrie del settore estrattivo e dell’impresa agro-alimentare. E, in particolare, sono il partito delle imprese che operano nel settore della pizza [2].

Non sto scherzando, è così. Un recente rapporto di Bloomberg ha notato che le principali società nel settore della pizza sono diventate intensamente ad aggressivamente di parte. Pizza Hut [3] offre un considerevole 99 per cento dei suoi soldi ai repubblicani. Altri protagonisti dell’industria riservano ai democratici una fetta di torta (mi dispiace, sono incorreggibile) un po’ più larga, ma, in generale, la politica della pizza di questi tempi assomiglia, diciamo, a quella del carbone o del tabacco. E la scesa in campo della pizza vi dice molto di quello che sta succedendo nella politica americana nel suo complesso.

Perché la pizza, tra tutti gli oggetti, dovrebbe essere un tema discriminatorio? La risposta immediata è che essa è finita dentro le guerre nutrizionali. Il popolo americano è diventato un bel po’ più grasso nel corso dell’ultimo mezzo secolo, e, mentre c’è discussione sulle cause, certamente una dieta non sana – il fast food in particolare – è la prima indiziata. Come osserva Bloomberg, alcune parti dell’industria alimentare hanno risposto alla spinta delle agenzie governative e degli attivisti del cibo cercando di offrire opzioni più salutari, ma il settore della pizza ha scelto invece di prendere posizione per il diritto di aggiungere ancora altro formaggio.

La retorica di questa battaglia è quella consueta. La lobby della pizza si presenta come quella che difende la libertà di scelta e la responsabilità personale. L’argomento è il seguente: dipende dalle donne e dagli uomini decidere cosa vogliono mangiare, e non abbiamo bisogno di uno Stato ‘bambinaia’ che ci dice cosa fare.

E’ un argomento che in molti trovano persuasivo, ma non sta molto in piedi se si osserva quello che effettivamente è in gioco nel dibattito sulla pizza. Nessuno propone di metterla al bando , e in effetti neppure alcuna limitazione su quello che dovrebbe essere permesso di mangiare ad adulti informati. Lo scontro riguarda piuttosto cose come i requisiti nella presentazione dei prodotti – fornire ai consumatori le informazioni per compiere scelte consapevoli – ed i contenuti nutrizionali dei pasti scolastici, vale a dire decisioni alimentari che non sono prese da adulti responsabili, ma che sono invece fatte per conto dei bambini.

Oltre a ciò, chiunque abbia combattuto con la questione del peso – il che significa certamente la maggioranza degli americani adulti – sa che questo è un settore nel quale la facile retorica del “liberi di scegliere” suona vuota. Persino se si sa benissimo che ci si pentirà molto presto di un dose eccessiva di qualcosa, è estremamente difficile agire sulla base di quella conoscenza. Il nutrimento, la situazione nella quale la scelta di una maggiore quantità può essere una cosa negativa, perché tutto ciò conduce troppo spesso a decisioni negative nonostante le migliori intenzioni, è una di quelle aree – come il fumo – nelle quali c’è molto da dire a favore di uno Stato che si prende cura dei comportamenti individuali.

Inoltre, la dieta non è neanche una scelta meramente personale; l’obesità impone larghi costi all’economia nel suo complesso.

Ma non ci si dovrebbe aspettare che argomenti di questa natura facciano molto effetto. Per un aspetto, i fondamentalisti del libero mercato non vogliono sentir giudicare la loro dottrina. Inoltre, date le grandi società coinvolte, si applica il principio di Upton Sinclair: è difficile far capire ad un uomo qualcosa, quando il suo stipendio dipende dal non capirla. Ed oltre tutto ciò, si scopre che la faziosità nutrizionale affonda in tematiche culturali più profonde.

Da una parte, c’è una chiara correlazione tra stili di vita ed orientamenti faziosi: gli Stati con la popolazione più obesa tendono a votare repubblicano, e l’inclinazione verso il Partito Repubblicano è particolarmente pronunciata in quella che i Centri per il controllo delle Malattie e la Prevenzione chiamano la “cintura del diabete” di quelle provincie, particolarmente nel Sud, che soffrono in massima parte di quel particolare problema sanitario. Non è un coincidenza se i dirigenti di quelle aree hanno guidato la rivolta contro gli sforzi per rendere i pasti scolastici più sani.

Ad un livello ancora più profondo, gli esperti della salute possono dire che abbiamo bisogno di cambiare il nostro stile alimentare, indicando le prove scientifiche, ma la base repubblicana non gradisce granché gli esperti, la scienza o le prove. I dibattiti sulla nutrizione portano allo scoperto una sorta di astio virulento – gran parte del quale è ora indirizzato contro Michelle Obama, che ha perorato la causa delle riforme dei pasti scolastici – che è sin troppo familiare se state seguendo il dibattito sul cambiamento climatico.

Il ‘partito della pizza’, dunque, pare uno scherzo, ma non lo è. Piuttosto, è un caso istruttivo della tossica mescolanza di grandi capitali, cieca ideologia e pregiudizi popolari, che stanno rendendo l’America sempre meno governabile.

 

 

[1] Governatore de New Jersey. Non molto tempo fa, all’epoca del tornado “Sandy” che colpì la costa orientale degli Stati Uniti, i repubblicani cercarono, abbastanza vanamente, si stabilire un paragone tra le gestione di quell’emergenza da parte di Obama e la famigerata precedente gestione da parte di George Bush dell’evento denominato Katrina. In quella occasione Christie si comportò con ragionevolezza, apprezzando l’impegno mostrato da Obama. Ma fecero seguito varie vicende di segno opposto.

[2] Vorrei spezzare una lancia a favore della pizza, notando che le società delle quali si parla in questo articolo sono in gran parte imprese che operano nel settore del preconfezionamento dei cibi e della ristorazione fast food. Diciamo allora che c’è pizza e pizza!

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[3] Pizza Hut (letteralmente “Il chiosco della pizza”) è una catena di ristorazione americana (franchising con sede a Dallas, in Texas), famosa per aver portato la pizza americana in tutto il mondo: dispone infatti di oltre 12.000 ristoranti (compresi i piccoli esercizi specializzati nella consegna a domicilio) in oltre 100 paesi. Nonostante sia la più grande catena del mondo specializzata nella ristorazione a base di pizza, essa non ha mai messo piede in Italia, per la scarsa convenienza del proporsi in concorrenza ad un alimento che in tale paese è tipico ed artigianale. Curiosamente però Autogrill, che nel 1989 ha dato vita a Spizzico, possiede diritti di franchising di Pizza Hut, ottenuti grazie dall’acquisizione di HMSHost, ma solo negli aeroporti, strade e centri commerciali. (Wikipedia)

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