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La forza è debolezza, di Paul Krugman (New York Times 13 marzo 2015)

 

Strength Is Weakness

MARCH 13, 2015

Paul Krugman

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We’ve been warned over and over that the Federal Reserve, in its effort to improve the economy, is “debasing” the dollar. The archaic word itself tells you a lot about where the people issuing such warnings are coming from. It’s an allusion to the ancient practice of replacing pure gold or silver coins with “debased” coins in which the precious-metal content was adulterated with cheaper stuff. Message to the gold bugs and Ayn Rand disciples who dominate the Republican Party: That’s not how modern money works. Still, the Fed’s critics keep insisting that easy-money policies will lead to a plunging dollar.

Reality, however, keeps declining to oblige. Far from heading downstairs to debasement, the dollar has soared through the roof. (Sorry.) Over the past year, it has risen 20 percent, on average, against other major currencies; it’s up 27 percent against the euro. Hooray for the strong dollar!

Or not. Actually, the strong dollar is bad for America. In an immediate sense, it will weaken our long-delayed economic recovery by widening the trade deficit. In a deeper sense, the message from the dollar’s surge is that we’re less insulated than many thought from problems overseas. In particular, you should think of the strong dollar/weak euro combination as the way Europe exports its troubles to the rest of the world, America very much included.

Some background: U.S. growth has improved lately, with employment rising at a pace not seen since the Clinton years. Yet the state of the economy still leaves a lot to be desired. In particular, the absence of much evidence for rising wages tells us that the job market is still weak despite the fall in the headline unemployment rate. Meanwhile, the returns America offers investors are ridiculously low by historical standards, with even long-term bonds paying only a bit more than 2 percent interest.

Currency markets, however, always grade countries on a curve. The United States isn’t exactly booming, but it looks great compared with Europe, where the present is bad and the future looks worse. Even before the new Greek crisis blew up, Europe was starting to resemble Japan without the social cohesion: within the eurozone, the working-age population is shrinking, investment is weak and much of the region is flirting with deflation. Markets have responded to those poor prospects by pushing interest rates incredibly low. In fact, many European bonds are now offering negative interest rates.

This remarkable situation makes even those low, low U.S. returns look attractive by comparison. So capital is heading our way, driving the euro down and the dollar up.

Who wins from this market move? Europe: a weaker euro makes European industry more competitive against rivals, boosting both exports and firms that compete with imports, and the effect is to mitigate the euroslump. Who loses? We do, as our industry loses competitiveness, not just in European markets, but in countries where our exports compete with theirs. America has been experiencing a modest manufacturing revival in recent years, but that revival will be cut short if the dollar stays this high for long.

In effect, then, Europe is managing to export some of its stagnation to the rest of us. We’re not talking about a nefarious plot, about so-called currency wars; it’s just the way things work in a global economy with highly mobile capital and market-determined exchange rates.

And the effects may be quite large. If markets believe that Europe’s weakness will last a long time, we would expect the euro to fall and the dollar to rise enough to eliminate much if not most of the difference in interest rates, which would mean severely crimping U.S. growth.

One thing that worries me is that I’m not at all sure that policy makers have fully taken the implications of a rising dollar into account. The Fed, still eager to raise interest rates despite low inflation and stagnant wages, seems to me to be too sanguine about the economic drag. And the most recent Fed minutes suggested that some members of the committee that governs monetary policy were thoroughly clueless, apparently believing that inflows of capital would make the U.S. economy stronger, not weaker.

Oh, and one more thing: a lot of businesses around the world have borrowed heavily in dollars, which means that a rising dollar may create a whole new set of debt crises. Just what the global economy needed.

Is there a policy moral to all this? One thing is that it’s really important for all of us that Mario Draghi at the European Central Bank and associates succeed in steering Europe away from a deflationary trap; the euro is their currency, but it turns out to be our problem. Mainly, though, this is another reason for the Fed to fight the urge to pretend that the crisis is over. Don’t raise rates until you see the whites of inflation’s eyes!

 

 

 

 

 

 

 

La forza è debolezza, di Paul Krugman

New York Times 13 marzo 2015

In continuazione, siamo stati messi in guardia che la Federal Reserve, nello sforzo di migliorare l’economia, stava “degradando” il dollaro. La stessa arcaicità del termine vi dice da dove quelle persone che mettono in circolazione tali ammonimenti provengano. Esso è una allusione alla pratica antica di sostituire monete di oro o di argento puro con monete “degradate”, nelle quali il contenuto in metallo prezioso veniva adulterato con sostanze più economiche. Una comunicazione ai fanatici dell’oro ed ai discepoli di Ayn Rand [1] che imperversano nel Partito Repubblicano: non è in quel modo che la valuta funziona al giorno d’oggi. Ciononostante, o critici della Fed continuano ad insistere che le politiche della moneta facile porteranno ad un crollo del dollaro.

La realtà, tuttavia, continua a sottrarsi a un tale obbligo. Lungi dal portare al piano terreno della svalutazione, il dollaro è schizzato in alto attraverso il soffitto (spiacente). Negli anni passati è salito, in media, del 20 per cento rispetto alle altre valute; rispetto all’euro è salito del 27 per cento. Un evviva per il dollaro forte!

O forse non è il caso. Il dollaro forte è negativo per l’America. In termini immediati, indebolisce la nostra ripresa a lungo rinviata ampliando il deficit commerciale. In un senso più profondo, il messaggio della ascesa del dollaro è che siamo meno isolati dai problemi oltreoceano di quanto molti pensassero. In particolare, si dovrebbe pensare alla combinazione di un dollaro forte e di un euro debole come il modo in cui l’Europa esporta i suoi guai al resto del mondo, senza alcun dubbio compresa l’America.

Un po’ di contesto: la crescita degli Stati Uniti è migliorata recentemente, con una occupazione che cresce ad un ritmo che non si vedeva dall’epoca di Clinton. Tuttavia la condizione dell’economia lascia ancora molta a desiderare. In particolare, la mancanza di grandi prove sulla crescita dei salari ci dice che il mercato del lavoro è ancora debole, nonostante la caduta del tasso di disoccupazione complessivo [2]. Nel frattempo, i rendimenti che l’America offre agli investitori sono ridicolmente bassi a confronto con le serie storiche, persino nel caso dei bond a lungo termine che fruttano solo un interesse appena superiore al 2 per cento.

Tuttavia, i mercati valutari spesso attribuiscono un voto ai paesi secondo una curva. Gli Stati Uniti non sono esattamente in grande espansione ma sembrano tali a confronto con un’Europa, dove il presente è negativo e il futuro appare ancora peggiore. Anche prima della nuova crisi greca, l’Europa cominciava a somigliare al Giappone senza la sua coesione sociale: all’interno dell’eurozona la popolazione in età lavorativa [3] si sta restringendo, gli investimenti sono deboli e gran parte della regione è alle prese con la deflazione. I mercati hanno risposto a tali scarse prospettive spingendo i tassi di interesse incredibilmente in basso. Di fatto, molti bond europei stanno oggi offrendo tassi di interesse negativi.

Questa situazione eccezionale, nel confronto, rende attraenti persino quei bassissimi rendimenti statunitensi. Dunque i capitali si stanno dirigendo nella nostra direzione, spingendo l’euro in basso e il dollaro in alto.

Chi risulterà vincente in questi spostamenti del mercato? L’Europa: un euro più debole rende l’industria europea più competitiva rispetto ai rivali, incoraggiando sia le esportazioni che le imprese che competono con le importazioni, è l’effetto è quello di mitigare la crisi dell’euro. Chi ci rimette? Noi, dal momento che la nostra industria perde competitività, non solo sui mercati europei, ma nei paesi nei quali le nostre importazioni competono con le loro. Negli anni recenti l’America ha conosciuto un modesto ritorno del manifatturiero, ma quel ritorno sarà interrotto se il dollaro resterà a lungo così alto.

In effetti, dunque, l’Europa sta facendo in modo di esportare un po’ della sua stagnazione agli altri. Non stiamo parlando di un nefando complotto, delle cosiddette guerre valutarie; è solo il modo nel quale le cose vanno in un’economia globale con capitali ad alta mobilità e tassi di cambio determinati dai mercati.

E gli effetti potrebbero essere piuttosto ampi. Se i mercati credono che la debolezza dell’Europa durerà a lungo, ci aspetteremmo che l’euro scenda ed il dollaro salga sino ad eliminare molta, se non la gran parte, della differenza nei tassi di interesse, il che significherebbe compromettere gravemente la ripresa degli Stati Uniti.

Una cosa che mi preoccupa è che non sono sicuro che gli operatori pubblici abbiano pienamente messo nel conto le implicazioni di un dollaro in ascesa. La Fed, ancora ansiosa di elevare i tassi di interesse nonostante la bassa inflazione e la stagnazione dei salari, mi sembra troppo ottimista rispetto agli effetti di trascinamento dell’economia. E i verbali più recenti della Fed [4] indicavano che alcuni membri del Comitato che governa la politica monetaria erano del tutto sprovvisti della minima idea, ritenendo, a quanto sembra, che i flussi dei capitali avrebbero reso l’economia statunitense più forte, e non più debole.

Infine, una cosa ancora: una grande quantità di imprese a giro per il mondo si sono pesantemente indebitate in dollari, il che significa che un dollaro in ascesa può creare una intera nuova serie di crisi da debito. Proprio quello di cui l’economia globale aveva bisogno.

In tutto questo c’è una morale politica? Una cosa che è realmente importante per tutti noi è che Mario Draghi ed i suoi collaboratori alla Banca Centrale Europea abbiano successo nel tirar fuori l’Europa dalla trappola deflattiva; l’euro è la loro moneta, ma si scopre che è il nostro problema. Principalmente, però, questa è un’altra ragione perché la Fed combatta contro la spinta a far finta che la crisi sia passata. Non elevate i tassi, finché non vedete l’inflazione nelle palle degli occhi!

 

 

[1] Vedi Ayn Rand nelle note sulla traduzione.

[2] Intendo in questo caso “headline” come “complessivo, sintetico, che dà conto di tutto” – come in “headline inflation” – piuttosto che in riferimento diretto ai titoli dei giornali. Come quei titoli, diciamo, esso riassume sommariamente la notizia.

[3] Nei paesi OCSE la ‘popolazione in età lavorativa’ normalmente viene considerata la popolazione tra i 15 ed i 64 anni. Un dato, dunque, demografico, che dipende dalla evoluzione complessiva e variabile nelle varie epoche degli indici di natalità e mortalità. Esso acquista però vari significati economici; il principale è che con una demografia debole in quelle fasce d’età anche l’economia e i PIL ne seguiranno le conseguenze.

[4] Si tratta dei verbali del 27-28 gennaio. Credo che la decisione di pubblicare in tempi molto stretti i verbali delle riunioni del FOMC – il Comitato Federale a Mercato Aperto – sia stata presa abbastanza di recente. Il Comitato è composta da un settantina di dirigenti centrali e regionali della Fed, e da economisti che hanno varie funzioni di consulenza.

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