Articoli sul NYT

L’età dorata di Israele, di Paul Krugman (New York Times 16 marzo 2015)

 

Israel’s Gilded Age

MARCH 16, 2015

Paul Krugman

z 461

 

 

 

 

 

 

 

 

Why did Prime Minister Benjamin Netanyahu of Israel feel the need to wag the dog in Washington? For that was, of course, what he was doing in his anti-Iran speech to Congress. If you’re seriously trying to affect American foreign policy, you don’t insult the president and so obviously align yourself with his political opposition. No, the real purpose of that speech was to distract the Israeli electorate with saber-rattling bombast, to shift its attention away from the economic discontent that, polls suggest, may well boot Mr. Netanyahu from office in Tuesday’s election.

But wait: Why are Israelis discontented? After all, Israel’s economy has performed well by the usual measures. It weathered the financial crisis with minimal damage. Over the longer term, it has grown more rapidly than most other advanced economies, and has developed into a high-technology powerhouse. What is there to complain about?

The answer, which I don’t think is widely appreciated here, is that while Israel’s economy has grown, this growth has been accompanied by a disturbing transformation in the country’s income distribution and society. Once upon a time, Israel was a country of egalitarian ideals — the kibbutz population was always a small minority, but it had a large impact on the nation’s self-perception. And it was a fairly equal society in reality, too, right up to the early 1990s.

Since then, however, Israel has experienced a dramatic widening of income disparities. Key measures of inequality have soared; Israel is now right up there with America as one of the most unequal societies in the advanced world. And Israel’s experience shows that this matters, that extreme inequality has a corrosive effect on social and political life.

Consider what has happened at either end of the spectrum — the growth in poverty, on one side, and extreme wealth, on the other.

According to Luxembourg Income Study data, the share of Israel’s population living on less than half the country’s median income — a widely accepted definition of relative poverty — more than doubled, to 20.5 percent from 10.2 percent, between 1992 and 2010. The share of children in poverty almost quadrupled, to 27.4 percent from 7.8 percent. Both numbers are the worst in the advanced world, by a large margin.

And when it comes to children, in particular, relative poverty is the right concept. Families that live on much lower incomes than those of their fellow citizens will, in important ways, be alienated from the society around them, unable to participate fully in the life of the nation. Children growing up in such families will surely be placed at a permanent disadvantage.

At the other end, while the available data — puzzlingly — don’t show an especially large share of income going to the top 1 percent, there is an extreme concentration of wealth and power among a tiny group of people at the top. And I mean tiny. According to the Bank of Israel, roughly 20 families control companies that account for half the total value of Israel’s stock market. The nature of that control is convoluted and obscure, working through “pyramids” in which a family controls a firm that in turn controls other firms and so on. Although the Bank of Israel is circumspect in its language, it is clearly worried about the potential this concentration of control creates for self-dealing.

Still, why is Israeli inequality a political issue? Because it didn’t have to be this extreme.

You might think that Israeli inequality is a natural outcome of a high-tech economy that generates strong demand for skilled labor — or, perhaps, reflects the importance of minority populations with low incomes, namely Arabs and ultrareligious Jews. It turns out, however, that those high poverty rates largely reflect policy choices: Israel does less to lift people out of poverty than any other advanced country — yes, even less than the United States.

Meanwhile, Israel’s oligarchs owe their position not to innovation and entrepreneurship but to their families’ success in gaining control of businesses that the government privatized in the 1980s — and they arguably retain that position partly by having undue influence over government policy, combined with control of major banks.

In short, the political economy of the promised land is now characterized by harshness at the bottom and at least soft corruption at the top. And many Israelis see Mr. Netanyahu as part of the problem. He’s an advocate of free-market policies; he has a Chris Christie-like penchant for living large at taxpayers’ expense, while clumsily pretending otherwise.

So Mr. Netanyahu tried to change the subject from internal inequality to external threats, a tactic those who remember the Bush years should find completely familiar. We’ll find out on Tuesday whether he succeeded.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’età dorata [1] di Israele, di Paul Krugman

New York Times 16 marzo 2015

Perché il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sentito il bisogno di una diversione elettoralistica [2] a Washington? Giacché, come è evidente, è quello che egli ha fatto con il suo discorso contro l’Iran davanti al Congresso. Se si sta cercando seriamente di influenzare la politica estera americana, non si insulta il Presidente e non ci si allinea così evidentemente con la sua opposizione politica. No, il vero scopo di quel discorso era distogliere l’elettorato israeliano con una magniloquenza guerrafondaia, per spostare la sua attenzione dallo scontento per le cose dell’economia che, secondo i sondaggi, nelle elezioni di martedì è possibile allontanino il signor Netanyahu dalla sua carica.

Ma, un momento: perché gli israeliani sono scontenti? Dopo tutto, l’economia di Israele, secondo i criteri consueti, ha avuto una buon andamento. Nel lungo periodo, Israele è cresciuta più rapidamente della maggioranza delle economie avanzate, si è sviluppata sino a diventare una potenza dell’alta tecnologia. Che cosa c’è da lamentarsi?

La risposta, che in questo caso non penso sia accettata da tutti, è che mentre l’economia di Israele è cresciuta, questa crescita è stata accompagnata da una inquietante trasformazione della distribuzione del reddito e della società. Un tempo, Israele era un paese di ideali egualitari – la popolazione dei kibbutz era sempre una piccola minoranza, ma aveva un impatto profondo sul senso di sé della nazione. Ed era una società abbastanza egualitaria anche nella realtà, proprio agli inizi degli anni ’90.

Da allora, tuttavia, Israele ha conosciuto uno spettacolare ampliamento delle disparità di reddito. Le misurazioni fondamentali dell’ineguaglianza sono salite alle stelle; a questo punto Israele è proprio arrivata ad essere con l’America una delle società più ineguali del mondo avanzato. E l’esperienza di Israele dimostra che questa è una cosa importante, che l’estrema ineguaglianza ha un effetto corrosivo sulla vita sociale e politica.

Si consideri quello che è accaduto su entrambe le estremità dello spettro – la crescita della povertà, da una parte, e l’estrema ricchezza dall’altra.

Secondo le statistiche del Luxembourg Income Study, la percentuale della popolazione di Israele che vive al di sotto della metà del reddito medio del paese – una definizione di povertà relativa generalmente accolta – è più che raddoppiata, dal 10,2 al 20,5 per cento, tra il 1992 ed il 2010. La quota dei bambini in condizione di povertà si è quasi quadruplicata, dal 7,8 al 27,4 per cento. Entrambi i dati sono, con ampio margine, i peggiori nel mondo avanzato.

E, in particolare, quando si arriva ai bambini, la povertà relativa è il concetto giusto. Le famiglie che vivono su redditi molto al di sotto di quelli dei loro concittadini saranno, in modi significativi, emarginate dalla società che le circonda, incapaci di partecipare pienamente alla vita della nazione. I figli allevati in tali famiglie saranno certamente collocati in condizioni di svantaggio permanente.

D’altra parte, mentre i dati disponibili – inesplicabilmente – non mostrano una quota particolarmente ampia di reddito che si indirizza verso l’1 per cento dei più ricchi, c’è una estrema concentrazione di ricchezza e di potere in un minuscolo gruppo in cima alla graduatoria. E intendo davvero minuscolo. Secondo la Banca di Israele, all’incirca 20 famiglie controllano le società che realizzano metà del valore del mercato azionario di Israele. La natura di tale controllo è intricata ed oscura, funzionando attraverso “piramidi” nelle quali una famiglia controlla una impresa che a sua volta controlla altre imprese, e via dicendo. Sebbene la Banca di Israele sia circospetta nel suo linguaggio, essa è chiaramente preoccupata sul potenziale di conflitti di interesse che questa concentrazione di controllo determina [3].

Tuttavia, perché l’ineguaglianza degli israeliani è un tema della politica? Perché essa non doveva essere così esagerata.

Si può pensare che l’ineguaglianza israeliana sia un risultato naturale di una economia ad alta tecnologia che crea una forte domanda di lavori qualificati – oppure, forse, che rifletta l’importanza di settori minoritari della popolazione con bassi redditi, in special modo arabi o ebrei ultra religiosi. Emerge, tuttavia, che questi alti tassi di povertà sono in gran parte il riflesso di scelte politiche: Israele fa meno per far venir fuori la gente dalla povertà, di tutti gli altri paesi avanzati – proprio così, meno ancora degli Stati Uniti.

Nel frattempo, gli oligarchi di Israele devono la loro posizione non alla innovazione e allo spirito imprenditoriale, ma al successo delle loro famiglie nel guadagnare il controllo di imprese che il Governo privatizzò negli anni ’80 – e probabilmente conservano quella posizione in parte per una influenza impropria sulla politica del Governo, combinata con il controllo di banche importanti.

In breve, la economia politica della terra promessa è oggi caratterizzata da iniquità in basso alla scala sociale e, come minimo, da una leggera corruzione in alto. E molti israeliani considerano il signor Netanyahu come un aspetto del problema. Egli è un sostenitore delle politiche del libero mercato; ha una inclinazione alla Chris Christie [4] a tirare avanti largamente a spese dei contribuenti, nel mentre pretende maldestramente di fare un cosa diversa.

Così il signor Netanyahu ha cercato di cambiare il soggetto, dall’ineguaglianza interna alle minacce esterne, una tattica che coloro che rammentano gli anni di Bush troveranno del tutto familiare. Scopriremo martedì se ha avuto successo.

 

[1] L’espressione “Gilded age” proviene da Mark Twain, che la adoperò in riferimento agli anni ’20 del capitalismo americano, ovvero ad un’epoca di grande crescita delle disuguaglianze sociali, con enormi arricchimenti dei più ricchi e miseria per tanti altri. Come mi fece notare il signor Fabio Rotondo, è forse preferibile tradurre con “età dorata”, giacché il senso che Twain intendeva trasmettere era quello di una situazione superficialmente ‘aurea’, ovvero di una patina d’oro applicata ad un mondo molto contraddittorio.

[2] “Wag-the-dog” (letteralmente “(“scodinzolare il cane”) è il titolo di un film del 1997, con Dustin Hoffman e Robert De Niro, in Italia presentato come “Sesso e potere”. E’ la storia di un complicato tentativo di distogliere l’attenzione degli elettori da uno scandalo sessuale del Presidente degli Stati Uniti, che ha abusato di una giovane scout. La diversione consiste in una simulazione di un conflitto con uno Stato balcanico e nella successiva simulata liberazione di un presunto prigioniero americano, in realtà uno psicopatico destinato ad alimentare altri problemi.

Più precisamente Il titolo originale deriva da un gioco di parole spiegato in una didascalia all’inizio del film: «Why does a dog wag its tail? Because the dog is smarter than the tail. If the tail was smarter, it would wag the dog» («Perché un cane agita la coda? Perché il cane è più intelligente della sua coda. Se invece fosse la coda, più intelligente, agiterebbe lei il cane»). Ironia americana che è difficile tradurre in un modo somigliante.

z 564

 

 

 

 

 

 

 

 

[3] Ovvero, della eventualità che soggetti troppo potenti possano agire nell’interesse proprio, anziché in quello delle società controllate ‘ a rete’.

[4] Governatore repubblicano del New Jersey.

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"