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Perchè la deflazione è una buona notizia per l’Europa di Daniel Gros (da Project Syndicate, 11 marzo 2015)

MAR 11, 2015

Daniel Gros

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Why Deflation is Good News for Europe

BRUSSELS – In today’s global economy, there is no price as important as that of crude oil. More than 80 million barrels are produced (and consumed) daily, and a large part of that output is traded internationally. Thus, the sharp fall in the crude-oil price – from about $110 last year to around $60 today – is yielding hundreds of billions of dollars in savings for oil importers. For the European Union and the United States, the gain from that decline is worth about 2-3% of GDP.

For Europe, the benefits of cheap oil might grow over time, because long-term gas-supply contracts are to a significant degree indexed to the oil price. This represents another advantage for Europe, where prices for natural gas were, until recently, several times higher than in the US, which had been benefiting from lower-cost shale energy.

But many observers have argued that cheap oil also has a downside, because it exacerbates deflationary tendencies in the advanced countries, which already seem to be mired in a low-growth trap. The sharp fall in oil prices, according to this view, will make it even harder for these countries’ central banks to achieve the 2% annual inflation rate that most have targeted in fulfilling their price-stability mandate.

The eurozone, in particular, seems to be in danger, as prices are now falling for the first time since 2009. This deflation is bad, it is argued, because it makes it harder for debtors, especially in the troubled economies of the eurozone’s periphery (Greece, Ireland, Italy, Portugal, and Spain), to pay what they owe.

But this fear is unfounded, because it is based on a misunderstanding. What matters for debt-service capacity is the debtors’ income, not the general price level.

As oil prices fall, households’ real (inflation-adjusted) income should rise, because they do not have to spend as much on fuel and heating. Lower oil prices make life easier, not harder, for highly indebted households in the US or the eurozone periphery. Falling consumer prices should thus be viewed as a good sign.

Most manufacturing enterprises will also benefit from lower energy costs, improving their ability to service their debts. This, too, is particularly relevant in the eurozone periphery, where the non-financial sector accumulated too much debt during the credit boom that preceded the 2008 global financial crisis. Moreover, though most of the savings implied by lower energy costs might initially show up in higher profits, over time, competition will force companies to pass on some of these windfall gains in the form of lower prices or higher wages.

This is another important consequence of cheap oil: lower prices make it more difficult to judge the point at which wage pressure becomes inflationary. Because wages can increase to a greater extent without fueling inflation, the US Federal Reserve Board might be inclined to delay hiking interest rates, which it is now widely expected to do this summer.

Public finances should also benefit from the deflation engendered by lower oil prices. Government revenues depend on the value of domestic output, not only consumption. Though lower oil prices depress consumer prices, they should boost production and overall GDP.

Absent large price changes for raw materials, the consumer price index evolves along with the GDP deflator (the price deflator for the entire economy). But that will not be true this year, because consumer prices are falling, whereas the GDP deflator (and nominal GDP) is still increasing. This should lead to solid government revenues, which is good news for highly indebted governments throughout the industrialized world, but particularly for the eurozone periphery.

The fall in (consumer) prices that the eurozone currently is experiencing should thus be seen as a positive development for all energy importers. The eurozone periphery, in particular, can look forward to an ideal combination of low interest rates, a favorable euro exchange rate, and a boost in real incomes as a result of cheap oil. In a deflationary environment, lower oil prices appear to make it more difficult for the European Central Bank to achieve its target of an inflation rate close to 2%. In reality, lower oil prices represent a boon for Europe – especially for its most beleaguered nations.

 

 

 

 

 

 

Perchè la deflazione è una buona notizia per l’Europa

di Daniel Gros

BRUXELLES – Nell’economia globale dei nostri giorni, non c’è un prezzo altrettanto importante del petrolio. Più di 80 milioni di barili [1] sono prodotti (e consumati) giornalmente, e una larga parte di quella produzione è oggetto di commerci internazionali. Di conseguenza, la brusca caduta nel prezzo del petrolio greggio – da circa 110 dollari dell’anno passato a circa 60 di oggi – sta rendendo centinaia di miliardi di dollari agli importatori di petrolio. Per l’Unione Europea e gli Stati Uniti, il guadagno derivante da tale calo vale intorno al 2-3% del PIL.

Per l’Europa i vantaggi del petrolio a basso prezzo potrebbero crescere nel tempo, perché i contratti a lunga scadenza di fornitura del gas sono in misura significativa indicizzati al prezzo del petrolio. Questo rappresenta un altro vantaggio nel caso dell’Europa, dove i prezzi del gas naturale erano, sino al periodo recente, varie volte più alti che negli Stati Uniti, che hanno beneficiato dell’energia dalle scisti bituminose di più basso costo.

Ma molti osservatori hanno sostenuto che il petrolio a basso prezzo ha anche un lato negativo, perché acuisce le tendenze deflazionistiche nelle economie avanzate, che sembrano già essere impantanate in una trappola della bassa crescita. La brusca caduta dei prezzi del petrolio, secondo questo punto di vista, renderà anche più difficile per le banche centrali di questi paesi realizzare il tasso annuo di inflazione del 2% che molte di loro si erano date come obbiettivo, per soddisfare il loro mandato alla stabilità dei prezzi.

L’eurozona in particolare sembra essere in pericolo, dal momento che oggi i prezzi stanno scendendo per la prima volta dal 2009. Questa deflazione è negativa, si sostiene, perché rende più difficile per i debitori, specialmente nelle economie in difficoltà della periferia europea (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), pagare quello che debbono.

Ma questa paura è infondata, perché è basata su una incomprensione. Quello che conta ai fini della capacità del servizio del debito è il reddito dei debitori, non il livello generale dei prezzi.

Mentre i prezzi del petrolio cadono, il reddito reale (corretto per l’inflazione) delle famiglie dovrebbe crescere, giacché esse non hanno da spendere come in precedenza sui carburanti e sul riscaldamento. Per le famiglie indebitate negli Stati Uniti o nella periferia dell’eurozona, i prezzi più bassi del petrolio rendono la vita più facile, non più difficile. La caduta dei prezzi al consumo dovrebbe essere considerata come un buon segno.

Anche gran parte delle imprese manifatturiere trarranno beneficio dai costi minori dell’energia, migliorando la loro capacità di operare sui loro debiti. Anche questo è particolarmente rilevante per la periferia dell’eurozona, dove il settore non finanziario ha accumulato troppo debito durante l’espansione creditizia che precedette la crisi finanziaria globale del 2008. Inoltre, sebbene gran parte dei risparmi connessi con i costi più bassi dell’energia possano inizialmente presentarsi come profitti più elevati, nel corso del tempo, la competizione costringerà le società a trasferire una parte di questi guadagni inattesi nella forma di prezzi più bassi o di salari più elevati.

Questa è un’altra conseguenza importante del petrolio più conveniente: i prezzi più bassi rendono più difficile giudicare il punto al quale la spinta salariale diventa inflazionistica. Dato che i salari possono crescere in una misura più grande senza accendere l’inflazione, il Comitato della Federal Reserve degli Stati Uniti potrebbe essere propenso a ritardare l’innalzamento dei tassi di interesse, che adesso è generalmente atteso per questa estate.

Anche le finanze pubbliche dovrebbero trarre beneficio dalla deflazione generata dai prezzi più bassi del petrolio. Le entrate dei governi dipendono anche dal valore della produzione nazionale, non solo dai consumi. Sebbene i prezzi più bassi del petrolio deprimano i prezzi al consumo, essi dovrebbero incoraggiare la produzione e il PIL nel suo complesso.

In assenza di ampi mutamenti per le materie prime, l’indice dei prezzi al consumo si evolve secondo il deflatore del PIL (il deflatore dei prezzi per l’intera economia [2] ). Ma ciò non sarà vero quest’anno, perché i prezzi al consumo stanno calando, mentre il deflatore del PIL (e il PIL nominale) sta ancora crescendo. Questo dovrebbe portare a consolidare le entrate statali, e questa è una buona notizia per i governi altamente indebitati nel mondo industrializzato, ma in particolare per la periferia dell’eurozona.

La caduta nei prezzi (al consumo) che attualmente sta conoscendo l’eurozona dovrebbe essere considerata come uno sviluppo positivo per tutti gli importatori di energia. La periferia dell’eurozona, in particolare, può guardare in avanti ad una combinazione ideale di bassi tassi di interesse, di un tasso di cambio favorevole per l’euro e di un aiuto ai redditi reali come conseguenza del petrolio a basso prezzo. In un contesto deflazionistico, prezzi più bassi del petrolio sembrano rendere più difficile per la Banca Centrale Europea realizzare il suo obbiettivo di una tasso di inflazione prossimo al 2%. In realtà, i prezzi più bassi del petrolio rappresentano una manna per l’Europa – specialmente per le sue nazioni più assillate da problemi.

 

[1] Il barile è una unità di misura di un volume. Un barile di petrolio equivale a 159 litri.

[2] In economia il “deflatore del PIL” è una misura del livello dei prezzi di tutti i nuovi beni e servizi prodotti annualmente in una economia nazionale. Come l’indice dei prezzi al consumo, esso è un metro di misura della inflazione o deflazione dei prezzi. Ma, diversamente dall’indice dei prezzi al consumo, il deflatore del PIL non si basa su un ‘paniere’ stabilito di beni e servizi, modificandosi anno per anno sulle base delle tendenze dei consumi e degli investimenti. Si assume che il deflatore del PIL dello stesso anno base sia eguale a cento, sulla base di questa formula: Deflatore del PIL = PIL nominale/PIL reale X 100.

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