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Ci vuole un Partito, di Paul Krugman (New York Times 13 aprile 2015)

 

It Takes a Party

APRIL 13, 2015

Paul Krugman

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So Hillary Clinton is officially running, to nobody’s surprise. And you know what’s coming: endless attempts to psychoanalyze the candidate, endless attempts to read significance into what she says or doesn’t say about President Obama, endless thumb-sucking about her “positioning” on this or that issue.

Please pay no attention. Personality-based political analysis is always a dubious venture — in my experience, pundits are terrible judges of character. Those old enough to remember the 2000 election may also remember how we were assured that George W. Bush was a nice, affable fellow who would pursue moderate, bipartisan policies.

In any case, there has never been a time in American history when the alleged personal traits of candidates mattered less. As we head into 2016, each party is quite unified on major policy issues — and these unified positions are very far from each other. The huge, substantive gulf between the parties will be reflected in the policy positions of whomever they nominate, and will almost surely be reflected in the actual policies adopted by whoever wins.

For example, any Democrat would, if elected, seek to maintain the basic U.S. social insurance programs — Social Security, Medicare, and Medicaid — in essentially their current form, while also preserving and extending the Affordable Care Act. Any Republican would seek to destroy Obamacare, make deep cuts in Medicaid, and probably try to convert Medicare into a voucher system.

Any Democrat would retain the tax hikes on high-income Americans that went into effect in 2013, and possibly seek more. Any Republican would try to cut taxes on the wealthy — House Republicans plan to vote next week to repeal the estate tax — while slashing programs that aid low-income families.

Any Democrat would try to preserve the 2010 financial reform, which has recently been looking much more effective than critics suggested. Any Republican would seek to roll it back, eliminating both consumer protection and the extra regulation applied to large, “systemically important” financial institutions.

And any Democrat would try to move forward on climate policy, through executive action if necessary, while any Republican — whether or not he is an outright climate-science denialist — would block efforts to limit greenhouse gas emissions.

How did the parties get this far apart? Political scientists suggest that it has a lot to do with income inequality. As the wealthy grow richer compared with everyone else, their policy preferences have moved to the right — and they have pulled the Republican Party ever further in their direction. Meanwhile, the influence of big money on Democrats has at least eroded a bit, now that Wall Street, furious over regulations and modest tax hikes, has deserted the party en masse. The result is a level of political polarization not seen since the Civil War.

Now, some people won’t want to acknowledge that the choices in the 2016 election are as stark as I’ve asserted. Political commentators who specialize in covering personalities rather than issues will balk at the assertion that their alleged area of expertise matters not at all. Self-proclaimed centrists will look for a middle ground that doesn’t actually exist. And as a result, we’ll hear many assertions that the candidates don’t really mean what they say. There will, however, be an asymmetry in the way this supposed gap between rhetoric and real views is presented.

On one side, suppose that Ms. Clinton is indeed the Democratic nominee. If so, you can be sure that she’ll be accused, early and often, of insincerity, of not being the populist progressive she claims to be.

On the other side, suppose that the Republican nominee is a supposed moderate like Jeb Bush or Marco Rubio. In either case we’d be sure to hear many assertions from political pundits that the candidate doesn’t believe a lot of what he says. But in their cases this alleged insincerity would be presented as a virtue, not a vice — sure, Mr. Bush is saying crazy things about health care and climate change, but he doesn’t really mean it, and he’d be reasonable once in office. Just like his brother.

As you can probably tell, I’m dreading the next 18 months, which will be full of sound bites and fury, signifying nothing. O.K., I guess we might learn a few things — Where will Ms. Clinton come out on trade agreements like the Trans-Pacific Partnership? How much influence will Republican Fed-bashers exert? — but the differences between the parties are so clear and dramatic that it’s hard to see how anyone who has been paying attention could be undecided even now, or be induced to change his or her mind between now and the election.

One thing is for sure: American voters will be getting a real choice. May the best party win.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci vuole un Partito, di Paul Krugman

New York Times 13 aprile 2015

Dunque Hillary Clinton è ufficialmente in corsa, la qualcosa non è una sorpresa per nessuno. E sapete cosa ne consegue: infiniti tentativi di psicoanalizzare la candidata, di leggere il significato di quello che dirà o non dirà sul Presidente Obama, infinite seriose analisi [1] su come si “posizionerà” su questo tema o sull’altro.

Per piacere, trascuratele. Analisi politiche basate sulla personalità sono sempre una avventura dubbia – nella mia esperienza, i commentatori sono giudici terribili del carattere. Coloro che sono anziani a sufficienza da ricordare le elezioni del 2000, ricorderanno anche come ci veniva assicurato che George W. Bush fosse un personaggio gentile ed affabile, che avrebbe perseguito una politica moderata e bipartisan.

In ogni caso, non c’è mai stata un’epoca nella storia americana nella quale i pretesi tratti personali dei candidati hanno contato di meno. Nel mentre ci stiamo avviando al 2016, entrambi i partiti sono abbastanza uniti sui temi politici importanti – e queste posizioni unitarie sono lontanissime l’una dall’altra. Il vasto, sostanziale divario tra i partiti si rifletterà nelle posizioni di chiunque essi nominino, e quasi sicuramente si rifletterà nelle politiche che saranno adottate da chiunque vinca.

Ad esempio, ogni democratico, una volta eletto, cercherebbe di mantenere i programmi di base della sicurezza sociale degli Stati Uniti – la Previdenza Sociale, Medicare e Medicaid – essenzialmente nella loro forma attuale, e cercherebbe al tempo stesso di preservare e di ampliare la Legge sulla Assistenza Sostenibile [2]. Ogni repubblicano cercherebbe di distruggere la riforma sanitaria di Obama, di operare tagli profondi su Medicaid e di convertire Medicare in un sistema di ‘buoni’ [3].

Ogni democratico manterrebbe le maggiori tasse sugli alti redditi che sono entrate in funzione nel 2013, e possibilmente cercherebbe di aumentarle. Ogni repubblicano cercherebbe di tagliare le tasse sui ricchi – i repubblicani della Camera hanno in programma, per la prossima settimana, di abrogare la tassa sugli immobili – e al tempo stesso di abbattere i programmi che aiutano le famiglie a basso reddito.

Ogni democratico cercherebbe di mantenere la riforma finanziaria del 2010, che di recente si è dimostrata assai più efficace di quanto i critici indicavano. Ogni repubblicano cercherebbe di ridimensionarla, eliminando sia la protezione verso gli utenti che i regolamenti straordinari applicati agli istituti finanziari più grandi, quelli definiti “importanti dal punto di vista del sistema”.

Ed ogni democratico cercherebbe di fare passi in avanti sulla politica del clima, se necessario attraverso una iniziativa di tipo amministrativo [4], mentre ogni repubblicano – che sia o no un aperto “negazionista” della scienza sul clima – bloccherebbe gli sforzi per limitare le emissioni dei gas serra.

Come è accaduto che i partiti siano diventati talmente distanti? Gli scienziati della politica suggeriscono che questo abbia molto a che fare con l’ineguaglianza dei redditi. Nel mentre i ricchi sono diventati, a confronto con tutti gli altri, più ricchi, le loro preferenze politiche si sono spostate a destra – ed hanno spinto il Partito Repubblicano sempre di più nella loro direzione. Contemporaneamente, l’influenza del grande capitale sui democratici si è almeno un po’ ridotta, al punto che Wall Street, infuriata per i regolamenti [5] e per i modesti innalzamenti delle tasse, ha disertato in massa il partito [6]. Il risultato è un livello di polarizzazione politica che non si era vista dai tempi della Guerra Civile.

Ora, alcuni non vorranno riconoscere che le scelte nella campagna elettorale del 2016 si presentano nel modo crudo che ho descritto. I commentatori politici specializzati nel dare rilievo alle personalità piuttosto che ai grandi temi, rifiuteranno il giudizio secondo il quale la disciplina nella quale sono specializzati non conta un bel niente. I sedicenti centristi si rivolgeranno ad un terreno intermedio che, nella realtà, non esiste. Di conseguenza, sentiremo molti pareri secondo i quali i candidati, in realtà, intendono cose diverse da quelle che dicono. Tuttavia, ci sarà una asimmetria nel modo in cui verrà presentato questo presunto divario tra la propaganda e le opinioni effettive.

Ammettiamo, da un parte, che la signora Clinton sia in effetti la nominata dei democratici. Se sarà così, potete star certi che ella, dall’inizio e frequentemente, sarà accusata di non essere quella progressista ‘populista’ [7] che pretende di essere.

Dall’altra parte, supponiamo che il nominato dei repubblicani sia un presunto moderato, come Jeb Bush o Marco Rubio . In entrambi i casi, potrete star certi di ascoltare giudizi da parte dei commentatori politici, secondo i quali il candidato non crede granché a quello che dice. Ma nei loro esempi, questa presunta insincerità sarebbe presentata come un virtù, non come un vizio – è evidente che il signor Bush sta dicendo cose pazzesche in materia di assistenza sanitaria o di cambiamenti climatici, ma non è quello che realmente intende, e sarebbe ragionevole una volta in carica. Proprio come suo fratello.

Come probabilmente noterete, sono molto in apprensione per i prossimi diciotto mesi, che saranno pieni di battute ad effetto e di veemenza, vale a dire di nulla. E’ così: io penso che dovremmo accertare poche cose – come se la caverà la signora Clinton su accordi commerciali come la Cooperazione del Trans Pacifico? Quanta influenza eserciteranno i repubblicani fustigatori della Fed? – ma le differenze tra i partiti sono così chiare e spettacolari che è difficile capire come chiunque abbia prestato attenzione possa essere sin da adesso indeciso, o possa essere indotto a cambiare idea da ora alle elezioni.

Una cosa è certa: gli elettori americani faranno una scelta vera. Che vinca il Partito migliore.

 

[1] Letteralmente “succhiarsi il pollice”. Ma “thumb-sucker” si dice anche di un articolista, o rubricista che scrive cose serie o presunte serie.

[2] La denominazione ufficiale della riforma della assistenza sanitaria di Obama.

[3] Medicaid è il programma federale di assistenza sanitaria verso le persone indigenti o con basso reddito. I repubblicani intendono tagliarla, anche perché la riforma di Obama ha in qualche misura esteso le sue prestazioni sui redditi bassi.

Medicare è il programma federale per la assistenza agli anziani; i repubblicani vorrebbero privatizzarlo radicalmente, trasformandolo da un complesso di prestazioni alle quali si ha diritto, a prestazioni che i cittadini acquisterebbero sulla base di ‘buoni si spesa’ (vouchers) che lo Stato attribuirebbe loro. Con il che si otterrebbe di renderli ‘americanamente liberi’ di stabilire, almeno in parte, come curarsi, liberi di curarsi meglio integrando i buoni di loro tasca, e liberi di curarsi poco, una volta esauriti i ‘voucher’, se i loro redditi non lo consentono.

[4] Ovvero, se – come negli anni passati – continuasse ad essere insufficiente la maggioranza nelle due Camere, e dunque continuassero ad essere impossibili provvedimenti legislativi, operando nell’ambito delle competenze di agenzie federali come quella sulla protezione dell’ambiente.

[5] Il riferimento è alle disposizioni della legge di riforma del sistema finanziario.

[6] Si intende, disertato nei finanziamenti privati; giacché il lobbismo americano è inconcepibilmente sfacciato, ma ha l’obbligo della trasparenza, e i finanziamenti dei gruppi privati sono scrupolosamente censiti anche da istituti di ricerca specializzati, categoria per categoria.

[7] Traduciamo letteralmente “populist”, piuttosto che cercare un giro astruso di parole.

Il punto è che per noi “populista” è un termine con una connotazione negativa inevitabile, mentre nel linguaggio politico americano non è affatto così, o almeno non necessariamente. ‘Populista’ per loro significa anzitutto qualcuno che mostra esplicitamente empatia con i bisogni ed anche con i punti di vista più diffusi tra la gente; non è motivo sufficiente di discredito riferirsi a quei bisogni ed a quei punti di vista, anche se resta una caratterizzazione che non tutti adoperano.

Dietro questa osservazione, se ne potrebbe aggiungere un’altra, forse più profonda. Per la cultura politica americana prevalente, esistono nella società civile ‘sentimenti politici’ originari, che non sono soltanto speculari ai dibattiti della ‘società politica’, ma sono spesso indicativi del presunto ‘carattere’ della Nazione. Alcuni di essi noi li definiremmo ‘di sinistra’ (ad esempio, una certa naturale ostilità verso le diseguaglianze esagerate, soprattutto quelle che truccano la competizione sociale), altri ‘di destra’ (ad esempio la vasta libertà nella sfera individuale, inclusi magari i temi della sicurezza, contrapposta alle funzioni pubbliche). La sfera della politica istituzionale in generale ‘media’ e interpreta tali sentimenti originari, ma non c’è in sé niente di male se una donna o un uomo che opera nella politica si rivolge più intensamente a tali opinioni diffuse. Se una od uno lo fa, lo si può definire ‘populista’, senza offesa.

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