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Economia e elezioni, di Paul Krugman (New York Times 6 aprile 2015)

 

Economics and Elections

APRIL 6, 2015

Paul Krugman

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Britain’s economic performance since the financial crisis struck has been startlingly bad. A tentative recovery began in 2009, but it stalled in 2010. Although growth resumed in 2013, real income per capita is only now reaching its level on the eve of the crisis — which means that Britain has had a much worse track record since 2007 than it had during the Great Depression.

Yet as Britain prepares to go to the polls, the leaders of the coalition government that has ruled the country since 2010 are posing as the guardians of prosperity, the people who really know how to run the economy. And they are, by and large, getting away with it.

There are some important lessons here, not just for Britain but for all democracies struggling to manage their economies in difficult times. I’ll get to those lessons in a minute. But first, let’s ask how a British government with such a poor economic record can manage to run on its supposed economic achievements.

Well, you could blame the weakness of the opposition, which has done an absolutely terrible job of making its case. You could blame the fecklessness of the news media, which has gotten much wrong. But the truth is that what’s happening in British politics is what almost always happens, there and everywhere else: Voters have fairly short memories, and they judge economic policy not by long-term results but by recent growth. Over five years, the coalition’s record looks terrible. But over the past couple of quarters it looks pretty good, and that’s what matters politically.

In making these assertions, I’m not engaged in casual speculation — I’m drawing on a large body of political science research, mainly focused on presidential contests in the United States but clearly applicable elsewhere. This research debunks almost all the horse-race narratives beloved by political pundits — never mind who wins the news cycle, or who appeals to the supposed concerns of independent voters. What mainly matters is income growth immediately before the election. And I mean immediately: We’re talking about something less than a year, maybe less than half a year.

This is, if you think about it, a distressing result, because it says that there is little or no political reward for good policy. A nation’s leaders may do an excellent job of economic stewardship for four or five years yet get booted out because of weakness in the last two quarters before the election. In fact, the evidence suggests that the politically smart thing might well be to impose a pointless depression on your country for much of your time in office, solely to leave room for a roaring recovery just before voters go to the polls.

Actually, that’s a pretty good description of what the current British government has done, although it’s not clear that it was deliberate.

The point, then, is that elections — which are supposed to hold politicians accountable — don’t seem to fulfill that function very well when it comes to economic policy. But can anything be done about this weakness?

One possible answer, which appeals to many pundits, might be to remove economic policy making from the political sphere and turn it over to nonpartisan elite commissions. This presumes, however, that elites know what they are doing — and it’s hard to see what, in recent events, might make you believe that. After all, American elites spent years in the thrall of Bowles-Simpsonism, a completely misplaced obsession over budget deficits. European elites, with their commitment to punitive austerity, have been even worse.

A better, more democratic answer would be to seek a better-informed electorate. One really striking thing about the British economic debate is the contrast between what passes for economic analysis in the news media — even in high-end newspapers and on elite-oriented TV shows — and the consensus of professional economists. News reports often portray recent growth as a vindication of austerity policies, but surveys of economists find only a small minority agreeing with that assertion. Claims that budget deficits are the most important issue facing Britain are made as if they were simple assertions of fact, when they are actually contentious, if not foolish.

So reporting on economic issues could and should be vastly better. But political scientists would surely scoff at the idea that this would make much difference to election outcomes, and they’re probably right.

What, then, should those of us who study economic policy and care about real-world outcomes do? The answer, surely, is that we should do our jobs: Try to get it right, and explain our answers as clearly as we can. Realistically, the political impact will usually be marginal at best. Bad things will happen to good ideas, and vice versa. So be it. Elections determine who has the power, not who has the truth.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Economia e elezioni, di Paul Krugman

New York Times 6 aprile 2015

Le prestazioni economiche dell’Inghilterra dal momento in cui è esplosa la crisi finanziaria sono state paurosamente negative. Una incerta ripresa si avviò nel 2009, ma si spense nel 2010. Sebbene la crescita sia ricominciata nel 2013, il reddito reale procapite sta solo ora raggiungendo il suo livello del periodo precedente alla crisi – il che significa che l’Inghilterra ha avuto a partire dal 2007 prestazioni molto peggiori di quelle che ebbe durante la Grande Depressione.

Eppure, nel mentre l’Inghilterra si prepara ad andare alle elezioni, i leader della coalizione di Governo che hanno amministrato il paese a partire dal 2010, si atteggiano come i guardiani della prosperità, persone che sanno sul serio come gestire l’economia. E, in linea di massima, è così che se la stanno cavando.

Ci sono qua alcune importanti lezioni, non solo per l’Inghilterra ma per tutte le democrazie che fanno sforzi per gestire le loro economie in tempi difficili. Verrò tra un attimo a tali lezioni. Ma prima, mi sia consentito di chiedere come un governo inglese, con una tale modesta prestazione economica, possa pensare di provare ad andare avanti con le sue pretese realizzazioni economiche.

E’ un fatto che si potrebbe dare la responsabilità alla debolezza dell’opposizione, che ha fatto un pessimo lavoro nel perorare la propria causa. Si potrebbe incolpare l’inettitudine dei media, che hanno preso un grande abbaglio. Ma la verità è che quello che sta avvenendo in Inghilterra è quello che accade quasi sempre, in quel paese come dappertutto: gli elettori hanno la memoria piuttosto corta, e giudicano la politica economica non dai risultati di lungo termine, ma sulla base della crescita dell’ultimo periodo. Le prestazioni della coalizione nel corso di cinque anni appaiono terribili. Ma nell’ultimo paio di trimestri esse sembrano abbastanza migliorate, e questo da un punto di vista politico è quello che conta.

Non avanzo queste affermazioni sulla base di teorizzazioni casuali – attingo ad un vasto materiale di ricerche della scienza politica, principalmente concentrate sui contesti presidenziali negli Stati Uniti, ma chiaramente applicabili dappertutto. Queste ricerche smitizzano quasi tutti i racconti sulle competizioni serrate che i commentatori politici prediligono – non ha mai importanza chi ha prevalso nel ciclo delle informazioni, o chi fa leva sulle presunte preoccupazioni degli elettori indipendenti. Quello che principalmente conta è crescita del reddito alla immediata vigilia delle elezioni. E intendo immediata: stiamo parlando di qualcosa che è inferiore all’anno, forse meno ancora di mezzo anno.

Se ci si riflette, un risultato penoso, perché ci dice che non c’è alcun riconoscimento, per quanto piccolo, per la buona politica. I dirigenti di una nazione possono fare un lavoro eccellente di gestione dell’economia per quattro o cinque anni eppure vengono cacciati per la debolezza degli ultimi due trimestri prima delle elezioni. In sostanza, le prove indicano che una cosa politicamente intelligente potrebbe essere quella di imporre al vostro paese una depressione insensata per gran parte del tempo in cui siete in carica, unicamente allo scopo di lasciare spazio ad una ripresa vivace, appena alla vigilia del voto degli elettori.

In effetti, questa è una descrizione piuttosto realistica di quello che il Governo inglese ha fatto, sebbene non sia chiaro quanto sia stata intenzionale.

Il punto, allora, è che le elezioni – che si suppone definiscano l’affidabilità degli uomini politici – non sembrano assolvere a quella funzione nel migliore dei modi, quando si tratta di politica economica. Ma cosa si può fare con questa disfunzione?

Una risposta possibile, che riguarda molti commentatori del settore, potrebbe essere togliere le decisioni di politica economica dalla sfera politica e consegnarla a commissioni indipendenti di alto livello. Questo suppone, tuttavia, che quei gruppi dirigenti sappiano quello che stanno facendo – ed è difficile dire, nei fatti recenti, che cosa potrebbe farvi essere fiduciosi al proposito. Dopo tutto, i gruppi dirigenti americani hanno speso anni alla mercé del ‘Bowles-Simpsonismo’ [1], una ossessione completamente fuorviante sui deficit di bilancio. I gruppi dirigenti europei, con il loro impegno a favore di una austerità punitiva, hanno fatto persino peggio.

Una risposta migliore e più democratica, sarebbe quella di darsi da fare per un elettorato più informato. Una cosa davvero stupefacente nel dibattito economico inglese è il contrasto tra quello che si pubblica nelle analisi economiche dei notiziari dei media – persino nei giornali specialistici e nelle trasmissioni televisive rivolte ad un pubblico ristretto – e l’orientamento generale degli economisti di professione. I resoconti di solito dipingono la recente crescita come una conferma delle politiche dell’austerità, ma i sondaggi tra gli economisti scoprono che solo una piccola minoranza concorda con tale giudizio. La pretesa secondo la quale i deficit di bilancio sarebbero il tema più importante dinanzi al quale si trova l’Inghilterra viene avanzata come se fosse un semplice dato di fatto, mentre è in effetti dubbia, se non è una autentica sciocchezza.

Dunque, i resoconti sui temi economici potrebbero e dovrebbero essere assai migliori. Ma i politologi di sicuro irriderebbero all’idea che questo possa fare molta differenza ai fini dei risultati elettorali, e probabilmente a ragione.

Cosa dovrebbero fare, infine, coloro che, come noi, studiano la politica economica e si preoccupano dei suoi risultati nel mondo reale? Di sicuro, si deve rispondere che dovremmo fare il nostro lavoro: cercare di comprendere le cose correttamente e fornire le nostre risposte con la massima chiarezza possibile. Nel migliore dei casi, realisticamente, l’impatto politico sarà nella generalità dei casi marginale. Alle buone idee capitano esiti sfortunati, e accade spesso l’opposto. E’ così che le cose vanno. Le elezioni determinano chi ha il potere, non chi possiede la verità.

 

[1] Dai nomi dei due copresidenti della Commissione – il democratico Bowles ed il repubblicano Simpson – che venne istituita nel 2010, con il favore del Presidente Obama, che pensava allora di poter realizzare un qualche compromesso con l’opposizione repubblicana. Fiducia abbastanza sbagliata economicamente, ed evidentemente mal riposta sul piano politico.

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