April 15, 2015 8:12 am
There’s been another blogospheric debate on methodology, this time involving a currently fashionable critique of mainstream macroeconomics — namely, that it’s too reliant on linear models and fails to make allowance for multiple equilibria. Frances Coppola and Wolfgang Munchau are leading the charge, with Roger Farmer (I think) in support; Brad DeLong and Tony Yates beg to differ. So do I.
There’s plenty wrong with macroeconomics as practiced, and plenty more wrong with macroeconomists as practitioners — and I haven’t been shy about pointing these failings out. But this is the wrong line of attack, for two reasons.
First, claims that mainstream economists never think about, and/or lack the tools to consider, nonlinear stuff and multiple equilibria and all that are just wrong. Tony Yates notes Munchau declaring that the zero lower bound is a minefield that economists have avoided; what? As Yates says,
The implication is ‘ooh, look at this really obvious real world thingy that economists just can’t deal with’. But actually, they can and do, and it’s embraced by 100s of papers now, since Krugman wrote the first modern one in 1998.
What about multiple equilibria? Well, most of my academic macroeconomic work is in international macro, especially on currency crises, and in that sub-field multiple equilibria — oh, and the effects of leverage and balance sheet effects — is a long-standing part of the approach. Here’s my 1999 paper on a multiple-equilibrium approach to the Asian financial crisis. For that matter, Diamond-Dybvig — the standard model for thinking about bank runs — is all about multiple equilibria and self-fulfilling prophecies.
So if your assertion is that economists don’t have the tools to think about such things, and/or are too boring and conventional to go there, well, that’s just uninformed. Been there, done that.
But maybe the complaint is simply that economists don’t do enough nonlinear analysis. And I can say personally that while I am, I think, pretty well aware of the possibilities of multiple equilibria and all that, they aren’t the staple of my analysis. There is, however, a reason for that: that kind of stuff is too easy and too much fun.
When you first start playing around with multiple-equilibrium models — in my generation that generally happened in grad school — there’s a period of enthusiasm. Crazy things can happen! Anything can happen! I can write down a model in which X leads to Z instead of Y!
Also, you can call spirits from the vasty deep. But will they come when you do call?
The point is that it’s quite easy, if you’re moderately good at pushing symbols around, to write down models where nonlinearity leads to funny stuff. But showing that this bears any relationship to things that happen in the real world is a lot harder, so nonlinear modeling all too easily turns into a game with no rules — tennis without a net. And in my case, at least, I ended up with the guiding principle that models with funny stuff should be invoked only when clearly necessary; you should always try for a more humdrum explanation.
So, was the crisis something that requires novel multiple-equilibrium models to understand? That’s far from obvious. The run-up to crisis looks to me more like Shiller-type irrational exuberance. The events of 2008 do have a multiple-equilibrium feel to them, but not in a novel way: once you realized that shadow banking had recreated the hazards of unregulated traditional banking, all you had to do was pull Diamond-Dybvig off the shelf.
And since the crisis struck, as I’ve argued many times, simple Hicksian macro — little equilibrium models with some real-world adjustments — has been stunningly successful. Notice, by the way, that in the linked post I do include the zero lower bound — no minefield here — which in turn makes the model nonlinear, with a qualitative change in behavior when the economy is sufficiently depressed that the zero bound is binding. But all that comes straight out of a quite simple framework, with no huffing and puffing and diatribes against conventional economics.
As I said, there are plenty of problems with economics. But I’d argue that ranting about the need for new models is not helpful; in policy terms, our problem has been refusal to use the pretty successful models we already have.
La non linearità, gli equilibri multipli ed il problema degli effetti troppo stravaganti (per esperti)
C’è stato un altro dibattito blogosferico sulla metodologia, questa volta riguardante critiche attualmente di moda alla macroeconomia prevalente [1] – in particolare, che essa si basa troppo sui modelli lineari e non riesce a dare considerazione agli equilibri multipli [2]. Frances Coppola e Wolfgang Munchau guidano la carica, con Roger Farmer (mi sembra) a sostegno; Brad DeLong a Tony Yates prendono le distanze. Come faccio io.
C’è una quantità di cose sbagliate nella macroeconomia per come è praticata, ed una quantità di cose sbagliare nei macroeconomisti come praticanti – e io non sono stato certo timido nell’indicare questi difetti. Ma per due ragioni questa è la linea di attacco sbagliata.
Il primo, le pretese che i macroeconomisti convenzionali non abbiano mai riflettuto, e/o abbiano difettato degli strumenti per considerare, le questioni della non linearità e degli equilibri multipli, e tutto il resto, sono proprio sbagliate. Tony Yates osserva che Munchau ha dichiarato che il limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse) è un campo minato che gli economisti hanno evitato. Che cosa? Come dice Yates,
“L’implicazione è di questo genere: ‘Suvvia, si consideri questa faccenduola talmente evidente nel mondo reale, con la quale gli economisti proprio non riescono a fare i conti!’. Ma in realtà, ce li possono fare e ce li fanno, e a questo punto essa è accolta da centinaia di studi, dal momento in cui Krugman ne scrisse la prima versione moderna nel 1998.”
E cosa dire degli equilibri multipli? Ebbene, gran parte del mio lavoro accademico di macroeconomia è sull’economia internazionale, in particolare sulle crisi valutarie, e in quella sotto disciplina degli equilibri multipli – per non dire degli effetti della riduzione dell’indebitamento e degli effetti degli (s)quilibri patrimoniali – sono una componente di lunga data del mio approccio. Ecco in questa connessione un mio saggio del 1999 sull’approccio di multi-equilibrio alla crisi finanziaria asiatica [3]. Nello stesso senso, il Diamond-Dybvig [4] – il modello standard per ragionare degli assalti agli sportelli bancari – è tutto relativo agli equilibri multipli ed alle profezie che si autoavverano.
Dunque, se la vostra asserzione è che gli economisti non hanno gli strumenti per ragionare di cose del genere, e/o sono troppo noiosi e convenzionali per arrivarci, ebbene, siete semplicemente disinformati. Non si tratta certo di novità.
Ma forse la lamentela è semplicemente che gli economisti non fanno a sufficienza analisi non lineari. E personalmente posso dire che, mentre penso di essere abbastanza ben consapevole delle possibilità degli equilibri multipli (e cose simili), essi non sono la base della mia analisi. Questo ha, tuttavia, una sua ragione: quel genere di cose sono troppo facili e fanno anche non pochi scherzi.
Quando per la prima volta cominciate a giocare attorno ai modelli di equilibrio multiplo – che nella mia generazione di solito accadeva negli anni della laurea magistrale – c’è un periodo di entusiasmo. Succedono cose pazzesche! Può succedere di tutto! Posso buttar giù un modello nel quale X porta a Z invece cha a Y!
Potete anche richiamare gli spiriti dalle immense profondità. Ma gli spiriti verranno, al vostro richiamo?
Il punto è che, se siete moderatamente bravi nel fare quello che volete con i simboli, è abbastanza semplice buttar giù dei modelli nei quali la non linearità conduce a effetti stravaganti. Ma dimostrare che questo comporta una relazione con cose che accadono nella realtà è molto più difficile, cosicché la modellazione non lineare con troppa facilità si trasforma in un gioco senza regole – come giocare a tennis senza la rete. E nel mio caso, io almeno mi risolsi al principio guida secondo il quale i modelli con implicazioni stravaganti dovrebbero essere invocati solo quando chiaramente necessari; dovreste sempre cercare spiegazioni più noiose.
Dunque: la crisi, per essere compresa, era qualcosa che richiedeva nuovi modelli di equilibrio multiplo? E’ tutt’altro che evidente. Il periodo precedente alla crisi a me sembra maggiormente simile all’esuberanza irrazionale del genere di quella di Shiller. Gli eventi del 2008 davvero hanno dato l’impressione dell’equilibrio multiplo, ma non in modo insolito: una volta che si comprende che il sistema bancario ombra aveva ricreato gli azzardi del tradizionale sistema bancario senza regole, tutto quello che si doveva fare era tirar giù dagli scaffali il modello Diamond-Dybvig.
E dal momento che la crisi è scoppiata, come ho sostenuto in molte occasioni, una semplice macroeconomia hicksiana – piccoli modelli di equilibrio con qualche correzione derivante dal mondo reale – ha prodotto in modo sorprendente un risultato positivo. Si osservi, per inciso, che nel post che ho messo in connessione ho incluso il limite inferiore dello zero – non c’è alcun campo minato – che a sua volta rende il modello non lineare, alla stregua di un cambiamento qualitativo di comportamenti quando l’economia è sufficientemente depressa da rendere il limite inferiore dello zero vincolante. Ma tutto questo deriva direttamente da uno schema abbastanza semplice, senza che ci si debba agitare e polemizzare contro l’economia convenzionale.
Come ho detto, ci sono molti problemi con la teoria economica. Ma ritengo che sproloquiare sulla necessità di nuovi modelli non aiuti; in termini politici, il nostro problema è stato il rifiuto di utilizzare modelli abbastanza risolutivi che avevamo già a disposizione.
[1] Normalmente traduciamo “mainstream macroeconomics” con “macroeconomia prevalente”. E’ forse una traduzione insoddisfacente, ma è anche una questione piuttosto complicata.
Da una parte l’espressione porta istintivamente alla memoria la polemica di Keynes contro la “saggezza convenzionale” dell’economia classica (ed anche in quel caso occorrerebbe precisare che economisti diversi hanno definito ‘classiche’ scuole diverse l’una dall’altra. Keynes si riferiva soprattutto a Marshall, che del resto trattava con molto maggiore riguardo di altri; per Marx la classicità era quella di Ricardo, ‘sviata’ da altre successive interpretazioni ‘neoclassiche’. Ma un altro ‘neoclassicismo’ ha costituito nei decenni passati il motivo principale delle contese della scuola keynesiana – per quanto sia stato un fenomeno che si è dipanato per circa un secolo – e quest’ultimo non era esattamente l’aspetto di maggiore rilievo nella polemica di Keynes, dato che alla sua epoca, della Grande Depressione, non appariva ancora come il suo interlocutore principale).
Ma, venendo all’oggi, se si traducesse con l’italiano “convenzionale” – che pure sarebbe anche una soluzione corretta – sembrerebbe implicita una critica che in realtà non è nelle intenzioni di Krugman. Come mostra questo stesso post, Krugman di solito principalmente difende il ‘corpo’ delle acquisizioni prevalenti nei decenni passati della teoria economica (che talora semplifica con l’espressione “la macroeconomia dei libri di testo”, forse avendo in mente il più prestigioso di quei libri di testo, del Premio Nobel Paul Samuelson) , e considera il suo stesso contributo all’interno di quel ‘mainstream’. Naturalmente, quei decenni hanno visto la contesa di diverse scuole economiche: a destra, per dir così, quella di lontana derivazione austriaca, ravvivata nella scuola americana dell’ “acqua dolce”; a sinistra il keynesismo ( o la sua versione ‘neo’). Ed anche questa distinzione, nella sua ricostruzione, è meno ovvia di quanto potrebbe sembrare; ad esempio, egli ha spesso fatto una considerevole eccezione per alcuni aspetti del contributo di Milton Friedman, che egli non omologa in modo semplicistico al primo orientamento.
Per questo traduciamo di solito ‘mainstream macroeconomics’ con “macroeconomia prevalente”. Di solito, credo che Krugman voglia sottolineare questo aspetto della ‘prevalenza’, anche se la faccenda è complicata dal fatto che egli oggi considera quell’approccio prevalente, mentre due o tre decenni orsono era ben consapevole che rischiava di essere prevalente la scuola economica ‘conservatrice’.
[2] Nella teoria economica dominante fino agli anni trenta del secolo scorso gli economisti neoclassici sostenevano che in una economia di mercato l’equilibrio possibile fosse soltanto uno perché, con tutti i mercati con concorrenza pura e senza poteri per ciascun operatore, il sistema economico si sarebbe sempre e da solo riportato all’equilibrio di piena occupazione. Pertanto la politica economica non aveva alcun ruolo e semmai doveva seguire regole ferree per non interferire con le leggi del mercato … Ci volle la Teoria Generale di John Maynard Keynes per dimostrare che l’economia di mercato non ha come unico punto di equilibrio quello corrispondente alla piena occupazione, ma può avere equilibri “multipli”. Se cade la produzione, cade l’occupazione e quindi cade la domanda. Se cade la domanda cade la produzione e si avvia una spirale perversa verso il basso. Il problema è che se i mercati sono a concentrazione oligopolistica e non nella teorica concorrenza pura, alla caduta della produzione può seguire una caduta di domanda e può quindi determinarsi, a qualunque livello, un equilibrio con disoccupazione. Senza intervento pubblico l’economia non si muove da quel punto e la disoccupazione non rientra, né il sistema nel suo complesso sarà mai in grado di tornare alla piena occupazione.
Da Mario Baldassarri, “f! formiche” – 13/05/2020
[3] Il saggio aveva il titolo “Equilibri patrimoniali, il problema dei trasferimenti e le crisi finanziarie”, Paul Krugman, MIT, 1999.
[4] Il modello di Diamond-Dybvig (1983) è un modello teorico che si propone di spiegare le modalità attraverso cui si determina un fenomeno di run bancario (corsa agli sportelli), fornendo al contempo una rappresentazione teorica del meccanismo attraverso cui le banche creano liquidità. Il modello rappresenta ad oggi il punto di riferimento teorico per la spiegazione dei fenomeni considerati, e non a caso di esso sono state proposte varie riformulazioni successive. (Wikipedia)
By mm
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