APR 9, 2015
BEIJING – After four disappointing years, Chinese economists have realized that slowing GDP growth – from a post-crisis peak of 12.8% in 2010 to about 7% today – is mainly structural, rather than cyclical. In other words, China’s potential growth rate has settled onto a significantly lower plateau. While the country should be able to avoid a hard landing, it can expect annual growth to remain at 6-7% over the next decade. But this may not necessarily be bad news.
One might question why GDP in China, where per capita income recently surpassed $7,000, is set to grow so much more slowly than Japan’s did from 1956 to 1970, when the Japanese economy, with per capita income starting from about $7,000, averaged 9.7% annual growth. The answer lies in potential growth.
Whereas, according to Japan’s central bank, Japanese labor productivity grew by more than 10% annually, on average, from 1960 to 1973, Chinese productivity has been declining steadily in recent years, from 11.8% in 2001-2008 to 8.8% in 2008-2012, and to 7.4% in 2011-2012. Japan’s labor supply (measured in labor hours) was also growing during that period, by more than 3% annually. By contrast, China’s working-age population has been shrinking, by more than three million annually, since 2012 – a trend that will, with a 4-6-year lag, cause labor-supply growth to decline, and even turn negative.
Given the difficulty of reversing these trends, it is difficult to imagine how China could maintain a growth rate anywhere close to 10% for another decade, despite its low per capita income. But there is more.
As the Japanese economist Ryuichiro Tachi has pointed out, Japan also benefited from a high savings rate and a low capital coefficient (the ratio of capital to output) of less than 1. Though a precise comparison is difficult, there is no doubt that China’s capital coefficient is much higher, implying a larger gap between the growth rate of capital intensity (the total amount of capital needed per dollar of revenue) and that of labor productivity.
At times, a high investment rate can offset a high capital coefficient’s negative impact on growth. But China’s investment rate is already too high, accounting for almost half of GDP. With capital intensity increasing significantly faster than labor productivity in China, the inefficiency of investment is clear. In this context, increased investment would only exacerbate the problem.
Making matters worse, China’s corporate debt is already the highest in the world, both in absolute terms and relative to GDP. In this context, increasing investment would not only reduce capital efficiency further; it would also heighten the risk implied by companies’ high leverage ratios.
With all major indicators suggesting a significant decline in China’s growth potential, China’s leaders must accept the reality of lower growth and adjust their priorities accordingly. Succumbing to the temptation of massive monetary and fiscal stimulus, such as that pursued in the wake of the global economic crisis, would not only fail to boost growth in a sustainable way; it would actually undermine growth and stability in the medium to long term. A better approach would focus on making economic growth more sustainable.
On this issue, Japan has some useful lessons to offer. In the 1970s, recognizing the inevitability of a slowdown, Japan shelved its ambitious plan to “remodel” the Japanese archipelago. Policymakers shut down energy-intensive factories in the heavy chemical industry, promoted innovation, and took steps to address air and water pollution. As a result, the quality of Japan’s economic growth improved considerably, even as its rate fell by nearly half in the decade after the oil shock in 1973.
The good news is that China’s leaders seem intent on adopting a similar approach, including avoidance of monetary and fiscal expansion, unless growth seems set to collapse. Indeed, at the recently concluded National People’s Congress, Prime Minister Li Keqiang affirmed the authorities’ 7% target for GDP growth this year, while reiterating the importance of deepening reform and carrying out structural adjustments.
For China, accepting lower growth provides a crucial opportunity to support stable and sustainable development. If China’s leaders stay the course of reform and rebalancing, the entire global economy will be better off.
L’opportunità della lenta crescita della Cina
di Yu Yongdin
PECHINO – Dopo quattro anni deludenti, gli economisti cinesi hanno compreso che il rallentamento del PIL – da un picco successivo alla crisi, nel 2010, del 12,8%, a circa il 7% di oggi – è principalmente strutturale, anziché ciclico. In altre parole, il tasso della crescita potenziale si è stabilizzato entro un livello significativamente più basso. Mentre il paese dovrebbe essere capace di evitare un brusco atterraggio, ci si può aspettare che la crescita annua rimanga per il prossimo decennio al 6-7%. Ma questa può non essere necessariamente una cattiva notizia.
Ci si potrebbe chiedere perché il PIL in Cina, dove il reddito procapite ha recentemente superato i 7.000 dollari, sia destinato a crescere in modo talmente più lento di quello che accadde in Giappone dal 1956 al 1970, quando l’economia giapponese, che partiva da circa 7.000 dollari di reddito procapite, si collocò su una crescita media del 9,7% annuo. La risposta sta nella crescita potenziale.
Mentre, secondo la Banca Centrale del Giappone, la produttività giapponese del lavoro crebbe annualmente più del 10%, in media, tra il 1960 e il 1973, negli anni recenti la produttività cinese è stabilmente discesa, dall’11,8% nel 2001-2008 all’8,8% nel 2008-2012, ed al 7,4% nel 2011-2012. Anche l’offerta di lavoro del Giappone ( misurata in ore di lavoro), durante quel periodo, fu in crescita, per più del 3% su base annuale. All’opposto, a partire dal 2012 la popolazione in età lavorativa della Cina si è ristretta, annualmente per più di tre milioni – una tendenza che, con uno sfasamento di 4-6 anni, porterà ad un declino dell’offerta di lavoro, e persino ad una svolta negativa.
Data la difficoltà ad invertire queste tendenze, non è facile immaginare come la Cina potrebbe mantenere per un altro decennio un tasso di crescita comunque vicino al 10%, nonostante il suo basso reddito procapite. Ma c’è di più.
Come ha messo in evidenza l’economista giapponese Ryuichiro Tachi, il Giappone beneficiò anche di un elevato tasso di risparmi e di un basso coefficiente di capitale (il rapporto tra capitale e produzione), inferiore alla unità. Sebbene un preciso confronto sia difficile, non c’è dubbio che il coefficiente di capitale in Cina sia molto più alto, con la conseguenza di un differenziale più ampio tra il tasso di crescita dell’intensità del capitale (la quantità di capitale necessaria per ogni dollaro di entrate) e quello della produttività del lavoro.
A volte, un elevato tasso di investimento può bilanciare l’impatto negativo del coefficiente di capitale sulla crescita. Ma il tasso dell’investimento in Cina è già troppo elevato, pesando quasi la metà del PIL. Nella situazione cinese, con la intensità di capitale che cresce in modo significativamente più rapido della produttività del lavoro, l’inefficienza degli investimenti è chiara. In un contesto del genere, incrementare gli investimenti provocherebbe soltanto un inasprimento del problema.
A rendere le cose peggiori, il debito delle società in Cina è già il più elevato al mondo, sia in termini assoluti che in relazione al PIL. In questo contesto, aumentare gli investimenti non solo ridurrebbe ulteriormente l’efficienza del capitale; aumenterebbe anche il rischio connesso con gli elevati rapporti di indebitamento delle società.
Con tutti i principali indicatori che suggeriscono un significativo declino della crescita potenziale della Cina, i dirigenti cinesi debbono accettare la realtà di una crescita più bassa e correggere conseguentemente le loro priorità. Sottostare alla tentazione di un massiccio stimolo monetario e della finanza pubblica, non soltanto non provocherebbe un sostegno alla crescita in forme sostenibili; in effetti metterebbe a repentaglio crescita e stabilità nel medio-lungo termine. Concentrarsi sul rendere la crescita economica più sostenibile, appare un approccio migliore.
Su questo tema, il Giappone ha alcune lezioni utili da offrire. Negli anni ’70, riconoscendo l’inevitabilità di un rallentamento, il Giappone mise da parte il suo piano ambizioso di “rimodellare” l’arcipelago giapponese. Gli operatori politici chiusero gli stabilimenti ad alta intensità energetica nell’industria pesante della chimica, promossero l’innovazione e si mossero nella direzione di affrontare l’inquinamento atmosferico e idrico. Il risultato fu che la qualità della crescita economica del Giappone migliorò sensibilmente, anche se il suo tasso cadde di circa la metà nel decennio successivo allo shock petrolifero del 1973.
La notizia positiva è che i dirigenti cinesi paiono intenzionati ad adottare un approccio simile, compresa l’esclusione di una espansione monetaria e della finanza pubblica, a meno che la crescita non appaia prossima ad un collasso. In effetti, al Congresso Nazionale del Popolo recentemente concluso, il Primo Ministro Li Keqiang ha affermato che le autorità hanno stabilito per quest’anno una crescita del PIL del 7%, nello stesso tempo ribadendo l’importanza di approfondire il processo delle riforme e di portare a termine le correzioni strutturali.
Per la Cina, accettare una crescita più bassa offre una opportunità cruciale di sostegno ad uno sviluppo stabile e sostenibile. Se i dirigenti cinesi manterranno l’indirizzo delle riforme e del riequilibrio, l’intera economia globale ne trarrà giovamento.
By mm
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