APRIL 3, 2015
On Wednesday, McDonald’s — which has been facing demonstrations denouncing its low wages — announced that it would give workers a raise. The pay increase won’t, in itself, be a very big deal: the new wage floor is just $1 above the local minimum wage, and even that policy only applies to outlets McDonald’s owns directly, not the many outlets owned by people who bought franchises. But it’s at least possible that this latest announcement, like Walmart’s much bigger pay-raise announcement a couple of months ago, is a harbinger of an important change in U.S. labor relations.
Maybe it’s not that hard to give American workers a raise, after all.
Most people would surely agree that stagnant wages, and more broadly the shrinking number of jobs that can support middle-class status, are big problems for this country. But the general attitude to the decline in good jobs is fatalistic. Isn’t it just supply and demand? Haven’t labor-saving technology and global competition made it impossible to pay decent wages to workers unless they have a lot of education?
Strange to say, however, the more you know about labor economics the less likely you are to share this fatalism. For one thing, global competition is overrated as a factor in labor markets; yes, manufacturing faces a lot more competition than it did in the past, but the great majority of American workers are employed in service industries that aren’t exposed to international trade. And the evidence that technology is pushing down wages is a lot less clear than all the harrumphing about a “skills gap” might suggest.
Even more important is the fact that the market for labor isn’t like the markets for soybeans or pork bellies. Workers are people; relations between employers and employees are more complicated than simple supply and demand. And this complexity means that there’s a lot more wiggle room in wage determination than conventional wisdom would have you believe. We can, in fact, raise wages significantly if we want to.
How do we know that labor markets are different? Start with the effects of minimum wages. There’s a lot of evidence on those effects: Every time a state raises its minimum wage while neighboring states don’t, it, in effect, performs a controlled experiment. And the overwhelming conclusion from all that evidence is that the effect you might expect to see — higher minimum wages leading to fewer jobs — is weak to nonexistent. Raising the minimum wage makes jobs better; it doesn’t seem to make them scarcer.
How is that possible? At least part of the answer is that workers are not, in fact, commodities. A bushel of soybeans doesn’t care how much you paid for it; but decently paid workers tend to do a better job, not to mention being less likely to quit and require replacement, than workers paid the absolute minimum an employer can get away with. As a result, raising the minimum wage, while it makes labor more expensive, has offsetting benefits that tend to lower costs, limiting any adverse effect on jobs.
Similar factors explain another puzzle about labor markets: the way different firms in what looks like the same business can pay very different wages. The classic comparison is between Walmart (with its low wages, low morale, and very high turnover) and Costco (which offers higher wages and better benefits, and makes up the difference with better productivity and worker loyalty). True, the two retailers serve different markets; Costco’s merchandise is higher-end and its customers more affluent. But the comparison nonetheless suggests that paying higher wages costs employers a lot less than you might think.
And this, in turn, suggests that it shouldn’t be all that hard to raise wages across the board. Suppose that we were to give workers some bargaining power by raising minimum wages, making it easier for them to organize, and, crucially, aiming for full employment rather than finding reasons to choke off recovery despite low inflation. Given what we now know about labor markets, the results might be surprisingly big — because a moderate push might be all it takes to persuade much of American business to turn away from the low-wage strategy that has dominated our society for so many years.
There’s historical precedent for this kind of wage push. The middle-class society now dwindling in our rearview mirrors didn’t emerge spontaneously; it was largely created by the “great compression” of wages that took place during World War II, with effects that lasted for more than a generation.
So can we repeat this achievement? The pay raises at Walmart and McDonald’s — brought on by a tightening job market plus activist pressure — offer a small taste of what could happen on a vastly larger scale. There’s no excuse for wage fatalism. We can give American workers a raise if we want to.
Potere e buste paga, di Paul Krugman
New York Times 3 aprile 2015
Mercoledì, McDonald’s – che stava facendo i conti con dimostrazioni che denunciavano i bassi salari – ha annunciato che avrebbe dato ai lavoratori un aumento. L’aumento salariale, in se stesso, non sarà una gran cosa: la nuova paga base è solo di un dollaro superiore al minimo salariale locale, ed anche quella scelta si applica soltanto ai punti vendita di diretta proprietà di McDonald’s, non ai molti punti vendita di cui sono proprietarie persone che hanno acquistato le concessioni. Ma è almeno possibile che questo ultimo annuncio, come quello di un paio di mesi fa di un aumento assai più consistente da parte di Walmart, sia un indizio di un importante cambiamento nelle relazioni di lavoro negli Stati Uniti.
Dopo tutto, forse non è così difficile dare un aumento ai lavoratori americani.
In molti probabilmente saranno d’accordo che i salari stagnanti, e più in generale il numero che si restringe di posti di lavoro che possono sostenere condizioni di vita da classe media, siano un grande problema per questo paese. Ma la tendenza generale ad un declino dei buoni posti di lavoro è vissuta con rassegnazione. Non è solo una questione di offerta e di domanda? Non hanno reso impossibile, la tecnologia che risparmia sul lavoro e la competizione globale, pagare salari decenti ai lavoratori, a meno che non abbiano una grande formazione?
Strano a dirsi, tuttavia, più che si conosce l’economia del lavoro e meno che è probabile condividere questo fatalismo. Da una parte, la competizione globale è un fattore sopravvalutato nei mercati del lavoro; sì, il settore manifatturiero si misura con una competizione molto maggiore che nel passato, ma la grande maggioranza dei lavoratori americani sono occupati in attività di servizio che non sono esposte al commercio internazionale. E le prove che la tecnologia sta spingendo in basso i salari sono molto meno chiare di quanto tutte le lamentele sul “divario di competenze professionali” potrebbero suggerire.
E’ anche più importante il fatto che il mercato del lavoro non è come i mercati di fagioli di soia o di salumi. I lavoratori sono persone; le relazioni tra datori di lavoro e lavoratori sono più complicate della semplice offerta e domanda. E questa complessità comporta che c’è molto più spazio di manovra nella determinazione dei salari di quello che una concezione tradizionale farebbe ritenere. Di fatto, possiamo aumentare in modo significativo i salari, se lo vogliamo.
Come sappiamo che i mercati del lavoro sono differenti? Cominciamo con gli effetti dei minimi salariali. Ci sono molte prove di questi effetti: ogni volta che uno Stato aumenta i suoi minimi salariali mentre gli Stati vicini non lo fanno, esso, in sostanza, attua un esperimento verificabile. E la schiacciante conclusione di tutte quelle prove è che l’effetto che potete aspettarvi di osservare – che minimi salariali più elevati portino a minori posti di lavoro – o è debole o è inesistente. Aumentare i minimi salariali rende i posti di lavoro migliori; non sembra li renda più scarsi.
Come è possibile? Almeno in parte la risposta è che i lavoratori non sono, appunto, materie prime. Uno staio [1] di fagioli di soia non si cura di quanto l’avete pagato; ma lavoratori pagati decentemente tendono a fare un lavoro migliore, per non dire a licenziarsi e a dover essere rimpiazzati meno frequentemente, rispetto a lavoratori pagati al minimo assoluto che un datore di lavoro può permettersi. Di conseguenza, elevare il salario mimino, se rende il lavoro più costoso, ha benefici compensativi che tendono ad abbassare i costi, limitando ogni effetto negativo sui posti di lavoro.
Fattori simili spiegano un altro mistero sui mercati del lavoro: il modo in cui imprese diverse in quello che sembra uno stesso ramo dell’economia, possono pagare salari molto differenti. Il confronto classico e tra la Walmart (con i suoi bassi salari, le sue scarse motivazioni e il turnover molto elevato) e la Costco [2] (che offre salari più elevati e migliori sussidi, e compensa con una produttività migliore e con un migliore attaccamento al lavoro). E’ vero, le due catene di vendita al dettaglio servono mercati diversi; le merci della Costco sono di qualità superiore ed i suoi clienti sono più facoltosi. Ciononostante il confronto indica che pagare salari più alti costa ai datori di lavoro un po’ meno di quello che si potrebbe pensare.
E questo, a sua volta, indica che non dovrebbe essere così difficile aumentare i salari in modo generalizzato. Supponiamo che si dia ai lavoratori un po’ di potere contrattuale aumentando i minimi salariali, rendendo più semplice per loro organizzarsi e, particolarmente importante, dandosi l’obbiettivo della piena occupazione anziché trovare motivazioni per soffocare la ripresa nonostante la bassa inflazione. Dato quello che ora sappiamo sui mercati del lavoro, i risultati potrebbero essere sorprendentemente rilevanti – giacché una spinta moderata potrebbe essere tutto quello che serve per persuadere una buona parte dell’imprenditoria americana a venir fuori dalla strategia di bassi salari che ha dominato la nostra società per tanti anni.
Ci sono precedenti storici a favore di questo tipo di spinta salariale. La società della classe media che oggi si rimpicciolisce nei nostri specchietti retrovisori, non emerse spontaneamente; fu ampiamente determinata dalla “grande compressione” dei salari che prese piede durante la Seconda Guerra Mondiale, con effetti che durarono per più di una generazione.
Possiamo dunque ripetere questo risultato? Gli aumenti dei compensi alla Walmart e a McDonald’s – provocati da un mercato del lavoro che si restringe, oltre che dalla spinta degli attivisti sindacali – è un piccolo assaggio di quello che potrebbe avvenire su scala molto più grande. Non ci sono scuse per la rassegnazione salariale. Si può dare un aumento ai lavoratori americani, se lo si vuole.
[1] Unità di misura che corrisponde a circa 36,4 litri.
[2] Avevamo tradotto un articolo sul Walmart del 2 marzo scorso. Questa è invece una immagine della Costco:
By mm
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