May 1 2:43 pm
Tony Yates responds to Simon Wren-Lewis with a sort-of kind-of defense of the turn to austerity in 2010; I want to weigh in briefly, then turn to a point he reminds me of.
So, Yates first makes an argument that I agree with, that budget deficits can pose a problem even for countries that borrow in their own currencies if these countries also worry about inflation. Indeed. But that was never in dispute, at least on my end; the point was always limited to depressed economies where inflation would have been a benefit, not a cost.
He then argues that Britain had to be especially careful because of its financial sector. I still don’t understand the logic here, and am waiting for an explanation.
The interesting line, however, is Yates’s note that Britain had relatively high inflation in 2010-2011, which might have meant that the economy faced supply-side rather than demand-side problems, so contractionary policy might have been appropriate. My question is this: even if you accepted that argument, wasn’t that an argument for monetary rather than fiscal contraction? And if the BoE didn’t consider the evidence of overheating sufficient to justify pulling back on its quantitative easing, which had already tripled the size of its balance sheet, why should the Treasury have decided to tighten on its own?
After all, the basic logic of the situation is that you should wait until monetary tightening — until the central bank is starting to move off the zero lower bound — before fiscal consolidation. That way you can trade off fiscal tightening for a slower pace of monetary tightening, and avoid deepening the slump. But in 2010-2011 the British central bank wasn’t ready to tighten in any case, so fiscal policy should have waited.
And this brings me to my final point: the BoE was right.
I wrote at the time:
The story so far: Britain is currently experiencing relatively high headline inflation, more than 4 percent over the previous year. And so there are demands that the BoE tighten. Yet the bulk of the rise in inflation clearly represents temporary or one-time factors: a rise in value-added taxes as temporary breaks introduced during the recession expired, commodity prices, and the once-off effects of the fall in the value of the pound against the euro.
Nonetheless, the inflation hawks demand a rate rise, arguing that despite the still very depressed state of the economy, inflation must be nipped in the bud or it will turn into stagflation, 70s-style.
…
What we can hope for is that the BoE stays the course; and when inflation in the UK drops sharply, as it almost surely will, that will be an object lesson in the folly of always making policy as if it were 1979.
And so it proved.
Austerità e inflazione in Inghilterra
Toni Yates risponde a Simon Wren-Lewis in qualche modo con una specie di difesa del passaggio all’austerità nel 2010; voglio dire la mia brevemente, per poi passare ad un aspetto che mi ha rammentato.
Dunque, Yates dapprima avanza un argomento che condivido, che i deficit di bilancio possono costituire un problema anche per i paesi che si indebitano nelle loro valute, se quei paesi hanno anche la preoccupazione dell’inflazione. È così. Ma ciò non è mai stato in discussione, almeno da parte mia; il punto è sempre stato limitato ad economie depresse nelle quali l’inflazione sarebbe stato un vantaggio, non un costo.
Egli poi sostiene che il Regno Unito era in una situazione particolarmente delicata a causa del suo settore finanziario. In questo caso continuo a non comprendere il ragionamento, e resto in attesa di una spiegazione.
L’aspetto interessante, tuttavia, è l’osservazione di Yates secondo la quale l’Inghilterra negli anni 2010-11 aveva una inflazione relativamente alta, il che poteva significare che l’economia stesse fronteggiando problemi dal lato dell’offerta piuttosto che dal lato della domanda, cosicché politiche restrittive potevano essere appropriate. La mia domanda è questa: persino se si accettasse quell’argomento, non era esso a favore di una restrizione monetaria, piuttosto che della spesa pubblica? E se la Banca di Inghilterra non considerò le prove del surriscaldamento sufficienti a giustificare un ritiro della sua facilitazione quantitativa, che aveva già triplicato la dimensione dei suoi equilibri patrimoniali, perché il Tesoro avrebbe dovuto decidere di restringere per suo conto?
Dopotutto, la logica di fondo della situazione è che si dovrebbe attendere sino ad una restrizione monetaria – sino a che la banca centrale comincia a muoversi dal limite inferiore dello zero – prima del consolidamento della finanza pubblica. In quel modo si può controbilanciare la restrizione con un ritmo più lento di restrizione monetaria, ed evitare un aggravamento della congiuntura negativa. Ma nel 2010-11 la banca centrale britannica non era in alcun modo pronta alla restrizione, dunque la politica della finanza pubblica avrebbe dovuto attendere.
E questo mi porta al mio argomento finale: la Banca di Inghilterra aveva ragione.
Scrissi a quel tempo:
“La storia sino ad oggi: l’Inghilterra sta attualmente sperimentando una inflazione complessiva [1] relativamente elevata, più del 4 per cento rispetto all’anno precedente. E dunque ci sono le richieste di restrizione alla Banca di Inghilterra. Tuttavia, il grosso della crescita dell’inflazione rappresenta chiaramente fattori provvisori o non ripetibili: un aumento delle tasse sul valore aggiunto nel mentre le provvisorie modifiche introdotte durante la recessione vanno ad esaurimento, i prezzi delle materie prime, e gli effetti una-tantum della caduta del valore della sterlina nei confronti dell’euro.
Ciononostante, i falchi dell’inflazione chiedono un aumento del tasso, sostenendo che nonostante le condizioni molto depresse dell’economia, l’inflazione debba essere stroncata sul nascere oppure si trasformerà in una stagflazione, modello anni 70’.
…
Quello che possiamo auspicare è che la Banca di Inghilterra mantenga la rotta; e quando l’inflazione nel Regno Unito scenderà bruscamente, come è quasi certo che accadrà, essa sarà anche una lezione dal vivo della follia del ripetere sempre la stessa politica come se fossimo nel 1979.
E così venne confermato.
[1] Questo è il significato di “headline inflation”. Ovvero, una inflazione ‘comprensiva’ dei prezzi dei beni più volatili, come quelli energetici e delle materie prime. In alternativa alla “core inflation”, che invece li esclude dal computo. Come si vede dalla Tabella, l’andamento della “headline inflation”, dopo il picco del 2011, quando superò il 3,5%, è sceso sino a poco sopra l’1 per cento attuale. Se si esaminasse la stessa evoluzione per la “core inflation”, la curva sarebbe molto più piatta.
By mm
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