MAY 15, 2015
Jeb Bush wants to stop talking about past controversies. And you can see why. He has a lot to stop talking about. But let’s not honor his wish. You can learn a lot by studying recent history, and you can learn even more by watching how politicians respond to that history.
The big “Let’s move on” story of the past few days involved Mr. Bush’s response when asked in an interview whether, knowing what he knows now, he would have supported the 2003 invasion of Iraq. He answered that yes, he would. No W.M.D.? No stability after all the lives and money expended? No problem.
Then he tried to walk it back. He “interpreted the question wrong,” and isn’t interested in engaging “hypotheticals.” Anyway, “going back in time” is a “disservice” to those who served in the war.
Take a moment to savor the cowardice and vileness of that last remark. And, no, that’s not hyperbole. Mr. Bush is trying to hide behind the troops, pretending that any criticism of political leaders — especially, of course, his brother, the commander in chief — is an attack on the courage and patriotism of those who paid the price for their superiors’ mistakes. That’s sinking very low, and it tells us a lot more about the candidate’s character than any number of up-close-and-personal interviews.
Wait, there’s more: Incredibly, Mr. Bush resorted to the old passive-voice dodge, admitting only that “mistakes were made.” Indeed. By whom? Well, earlier this year Mr. Bush released a list of his chief advisers on foreign policy, and it was a who’s-who of mistake-makers, people who played essential roles in the Iraq disaster and other debacles.
Seriously, consider that list, which includes such luminaries as Paul Wolfowitz, who insisted that we would be welcomed as liberators and that the war would cost almost nothing, and Michael Chertoff, who as director of the Department of Homeland Security during Hurricane Katrina was unaware of the thousands of people stranded at the New Orleans convention center without food and water.
In Bushworld, in other words, playing a central role in catastrophic policy failure doesn’t disqualify you from future influence. If anything, a record of being disastrously wrong on national security issues seems to be a required credential.
Voters, even Republican primary voters, may not share that view, and the past few days have probably taken a toll on Mr. Bush’s presidential prospects. In a way, however, that’s unfair. Iraq is a special problem for the Bush family, which has a history both of never admitting mistakes and of sticking with loyal family retainers no matter how badly they perform. But refusal to learn from experience, combined with a version of political correctness in which you’re only acceptable if you have been wrong about crucial issues, is pervasive in the modern Republican Party.
Take my usual focus, economic policy. If you look at the list of economists who appear to have significant influence on Republican leaders, including the likely presidential candidates, you find that nearly all of them agreed, back during the “Bush boom,” that there was no housing bubble and the American economic future was bright; that nearly all of them predicted that the Federal Reserve’s efforts to fight the economic crisis that developed when that nonexistent bubble popped would lead to severe inflation; and that nearly all of them predicted that Obamacare, which went fully into effect in 2014, would be a huge job-killer.
Given how badly these predictions turned out — we had the biggest housing bust in history, inflation paranoia has been wrong for six years and counting, and 2014 delivered the best job growth since 1999 — you might think that there would be some room in the G.O.P. for economists who didn’t get everything wrong. But there isn’t. Having been completely wrong about the economy, like having been completely wrong about Iraq, seems to be a required credential.
What’s going on here? My best explanation is that we’re witnessing the effects of extreme tribalism. On the modern right, everything is a political litmus test. Anyone who tried to think through the pros and cons of the Iraq war was, by definition, an enemy of President George W. Bush and probably hated America; anyone who questioned whether the Federal Reserve was really debasing the currency was surely an enemy of capitalism and freedom.
It doesn’t matter that the skeptics have been proved right. Simply raising questions about the orthodoxies of the moment leads to excommunication, from which there is no coming back. So the only “experts” left standing are those who made all the approved mistakes. It’s kind of a fraternity of failure: men and women united by a shared history of getting everything wrong, and refusing to admit it. Will they get the chance to add more chapters to their reign of error?
Congrega di falliti, di Paul Krugman
New York Times 15 maggio 2015
Jeb Bush vuole smettere di parlare delle passate controversie. E si può capire il motivo. Ha molte ragioni per smettere di parlarne. Ma permetteteci di non aderire al suo desiderio. C’è molto da apprendere nello studio della storia recente, e si può imparare anche di più osservando come gli uomini politici reagiscono a tale storia.
Nei giorni scorsi, il grande “passiamo oltre” rispetto alla storia è consistito nella risposta del signor Bush, allorquando in una intervista gli è stato chiesto se, sapendo quello che ora sa, avrebbe sostenuto la invasione dell’Iraq del 2003. Egli ha risposto che, sì, l’avrebbe fatto. Nonostante non ci fossero le armi di distruzione di massa? Nonostante l’instabilità dopo tutte le vite e i soldi sprecati? Nessun problema.
Poi ha cercato di fare dietro-front. Aveva “interpretato male la domanda” e non è interessato a farsi coinvolgere su questioni “ipotetiche”. In ogni modo, “tornare indietro nel tempo” sarebbe “rendere un cattivo servizio” a coloro che furono al servizio del paese durante la guerra.
Fermatevi un attimo per assaporare quanto questa osservazione al tempo stesso sia vile e provochi repulsione. No, non sto esagerando. Il signor Bush sta cercando di nascondersi dietro i soldati, con la pretesa che ogni critica ai dirigenti politici – in particolare, naturalmente, a suo fratello, il comandante in capo – sia un attacco al coraggio ed al patriottismo di coloro che pagarono il prezzo degli errori dei propri superiori. Cade davvero in basso, e ciò ci dice molto di più sul carattere del candidato di qualsiasi intervista con carattere di intimità.
Aspettate, c’è di più: incredibilmente, il signor Bush è ricorso al vecchio stratagemma della forma passiva, ammettendo soltanto che “errori ne furono fatti”. Non c’è dubbio. Da parte di chi? Ebbene, all’inizio dell’anno il signor Bush ha reso pubblica una lista dei suoi principali consiglieri sulla politica estera, e conteneva il Gotha di tutti coloro che fecero errori, individui che ebbero ruoli principali nel disastro dell’Iraq e in altre debacle.
Proprio così; si consideri che la lista includeva personaggi di prima grandezza come Paul Wolfowitz, che ribadiva in continuazione che saremmo stati accolti come liberatori e che la guerra non sarebbe costata quasi niente, e come Michael Chertoff, che come Direttore del Dipartimento della Sicurezza Nazionale durante l’uragano Katrina era rimasto ignaro delle migliaia di persone abbandonate al centro congressi di New Orleans senza cibo e senz’acqua.
Nel mondo di Bush, in altre parole, giocare un ruolo fondamentale in catastrofici fallimenti politici non interdice dalla influenza nel futuro. Semmai, la testimonianza di errori disastrosi sui temi della sicurezza nazionale sembra essere una credenziale apprezzata.
Gli elettori, anche quelli delle primarie repubblicane, potrebbero non condividere quel punto di vista e questi giorni passati probabilmente comporteranno un prezzo per le prospettive presidenziali del signor Bush. In un certo qual modo, tuttavia, questo non è giusto. L’Iraq è un problema particolare per la famiglia Bush, che ha la sua storia sia nel non aver mai ammesso errori, sia nel restare affezionata ai fedeli servitori della famiglia, a prescindere dalle loro pessime prestazioni. Ma il rifiuto di imparare dall’esperienza, combinato con una versione della correttezza politica secondo la quale si è presi in considerazione soltanto se si sono fatti sbagli su questioni cruciali, dilaga nel Partito Repubblicano dei nostri giorni.
Si consideri l’aspetto del quale normalmente mi occupo, la politica economica. Se guardate alla lista degli economisti che sembrano avere una influenza significativa sui dirigenti repubblicani, inclusi i probabili candidati alla Presidenza, scoprite che quasi tutti, durante l’epoca del “boom” di Bush, concordavano sul fatto che non c’era alcuna bolla immobiliare e che il futuro economico dell’America era luminoso; che quasi tutti prevedevano che gli sforzi della Federal Reserve per combattere la crisi economica che si sviluppò, allorquando scoppiò l’inesistente bolla, avrebbero condotto ad una grave inflazione; e che quasi tutti avevano previsto che la riforma sanitaria di Obama, che entrò pienamente in funzione nel 2014, avrebbe comportato un’ampia distruzione di posti di lavoro.
Considerato come si sono mostrate sbagliate queste previsioni – abbiamo avuto il più grande tracollo immobiliare della storia, la paranoia per l’inflazione si è rivelata infondata per sei anni e passa, e il 2014 ci ha consegnato la più grande crescita di posti di lavoro dal 1999 – si poteva pensare che ci fosse, nel Partito Repubblicano, un po’ di spazio per economisti che non avevano sbagliato tutto. Ma non c’è. Aver sbagliato completamente riguardo all’economia, così come riguardo all’Iraq, pare sia una credenziale necessaria.
Che cosa sta accadendo? La mia migliore spiegazione è che stiamo assistendo agli effetti di un tribalismo estremo. Per la destra di questi giorni, tutto diventa una ‘prova del nove’. Chiunque cercò di ragionare sui pro e contro della guerra in Iraq, fu per definizione un nemico del Presidente George W. Bush e probabilmente odiava l’America; chiunque ebbe qualche dubbio sul fatto che la Federal Reserve stesse per davvero svalutando il dollaro, era sicuramente un nemico del capitalismo e della libertà.
Non ha importanza che gli scettici abbiano avuto ragione. Solo avanzare domande sulle ortodossie del momento porta alla scomunica, e dalla scomunica non c’è ritorno. Dunque, i soli “esperti” che restano in piedi sono coloro che commisero tutti gli errori riconosciuti. Una sorta di congrega di falliti: uomini e donne uniti da una storia condivisa di sbagli generalizzati, e dal rifiuto di ammetterli. Avranno la possibilità di aggiungere ulteriori capitoli al loro regno dell’errore?
By mm
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