Errors and Lies
MAY 18, 2015
Surprise! It turns out that there’s something to be said for having the brother of a failed president make his own run for the White House. Thanks to Jeb Bush, we may finally have the frank discussion of the Iraq invasion we should have had a decade ago.
But many influential people — not just Mr. Bush — would prefer that we not have that discussion. There’s a palpable sense right now of the political and media elite trying to draw a line under the subject. Yes, the narrative goes, we now know that invading Iraq was a terrible mistake, and it’s about time that everyone admits it. Now let’s move on.
Well, let’s not — because that’s a false narrative, and everyone who was involved in the debate over the war knows that it’s false. The Iraq war wasn’t an innocent mistake, a venture undertaken on the basis of intelligence that turned out to be wrong. America invaded Iraq because the Bush administration wanted a war. The public justifications for the invasion were nothing but pretexts, and falsified pretexts at that. We were, in a fundamental sense, lied into war.
The fraudulence of the case for war was actually obvious even at the time: the ever-shifting arguments for an unchanging goal were a dead giveaway. So were the word games — the talk about W.M.D that conflated chemical weapons (which many people did think Saddam had) with nukes, the constant insinuations that Iraq was somehow behind 9/11.
And at this point we have plenty of evidence to confirm everything the war’s opponents were saying. We now know, for example, that on 9/11 itself — literally before the dust had settled — Donald Rumsfeld, the secretary of defense, was already plotting war against a regime that had nothing to do with the terrorist attack. “Judge whether good enough [to] hit S.H. [Saddam Hussein] …sweep it all up things related and not”; so read notes taken by Mr. Rumsfeld’s aide.
This was, in short, a war the White House wanted, and all of the supposed mistakes that, as Jeb puts it, “were made” by someone unnamed actually flowed from this underlying desire. Did the intelligence agencies wrongly conclude that Iraq had chemical weapons and a nuclear program? That’s because they were under intense pressure to justify the war. Did prewar assessments vastly understate the difficulty and cost of occupation? That’s because the war party didn’t want to hear anything that might raise doubts about the rush to invade. Indeed, the Army’s chief of staff was effectively fired for questioning claims that the occupation phase would be cheap and easy.
Why did they want a war? That’s a harder question to answer. Some of the warmongers believed that deploying shock and awe in Iraq would enhance American power and influence around the world. Some saw Iraq as a sort of pilot project, preparation for a series of regime changes. And it’s hard to avoid the suspicion that there was a strong element of wagging the dog, of using military triumph to strengthen the Republican brand at home.
Whatever the precise motives, the result was a very dark chapter in American history. Once again: We were lied into war.
Now, you can understand why many political and media figures would prefer not to talk about any of this. Some of them, I suppose, may have been duped: may have fallen for the obvious lies, which doesn’t say much about their judgment. More, I suspect, were complicit: they realized that the official case for war was a pretext, but had their own reasons for wanting a war, or, alternatively, allowed themselves to be intimidated into going along. For there was a definite climate of fear among politicians and pundits in 2002 and 2003, one in which criticizing the push for war looked very much like a career killer.
On top of these personal motives, our news media in general have a hard time coping with policy dishonesty. Reporters are reluctant to call politicians on their lies, even when these involve mundane issues like budget numbers, for fear of seeming partisan. In fact, the bigger the lie, the clearer it is that major political figures are engaged in outright fraud, the more hesitant the reporting. And it doesn’t get much bigger — indeed, more or less criminal — than lying America into war.
But truth matters, and not just because those who refuse to learn from history are doomed in some general sense to repeat it. The campaign of lies that took us into Iraq was recent enough that it’s still important to hold the guilty individuals accountable. Never mind Jeb Bush’s verbal stumbles. Think, instead, about his foreign-policy team, led by people who were directly involved in concocting a false case for war.
So let’s get the Iraq story right. Yes, from a national point of view the invasion was a mistake. But (with apologies to Talleyrand) it was worse than a mistake, it was a crime.
Errori e menzogne, di Paul Krugman
New York Times 18 maggio 2015
Sorpresa! Si scopre che c’è qualcosa da dire nel ritrovarsi con il fratello di un Presidente disastroso che corre per conto proprio alla Casa Bianca. Grazie a Jeb Bush abbiamo finalmente quella discussione franca sull’invasione dell’Iraq che avremmo dovuto avere un decennio orsono.
Ma molte persone influenti – non solo il signor Bush – preferirebbero che non avessimo quella discussione. C’è in questo momento la sensazione palpabile che i gruppi dirigenti della politica e dei media stanno cercando su questo tema di fissare un limite. Sì, il racconto è quello giusto, ora sappiamo che invadere l’Iraq fu un errore terribile, ed era l’ora che lo ammettessero tutti. Ma ora passiamo oltre.
Ebbene, consentiteci di non farlo – perché quel racconto è falso, e tutti coloro che furono coinvolti nel dibattito sulla guerra sanno che è falso. La guerra in Iraq non fu un errore innocente, una avventura intrapresa sulla base di informazioni che si rivelarono sbagliate. L’America invase l’Iraq perché l’Amministrazione Bush voleva una guerra. Le giustificazioni pubbliche non furono altro che pretesti, e pretesti falsificati allo scopo. Fummo, fondamentalmente, portati in guerra con l’inganno.
Il carattere fraudolento degli argomenti per la guerra erano per la verità evidenti anche a quel tempo: il fatto che si spostassero in continuazione per un obbiettivo immutabile, ne era la completa conferma. Erano tali i giochi di parole – il parlare di armi di distruzione di massa che mettevano sullo stesso piano le armi chimiche (che molti pensavano che Saddam avesse) e quelle atomiche, l’insinuazione costante che l’Iraq fosse in qualche modo dietro i fatti dell’11 settembre.
E a questo punto abbiamo una grande quantità di prove che confermano tutto quello che gli oppositori della guerra avevano sostenuto. Sappiamo, ad esempio, che sullo stesso 11 settembre – prima ancora letteralmente che fosse scesa la polvere – Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa, stava già pianificando la guerra contro un regime che non aveva niente a che fare con l’attacco terrorista. “Giudicare se colpire S.H. (Saddam Hussein) sia in sé positivo …. togliere di mezzo tutte le cose collegate o no”; così si legge nelle note prese dall’assistente del signor Rumsfeld.
In poche parole, questa fu una guerra voluta dalla Casa Bianca, e tutti i presunti errori che, come si esprime Jeb, ‘furono fatti’ da qualche innominato, in realtà sgorgarono da questo intimo desiderio. Le agenzie di intelligence conclusero erroneamente che l’Iraq aveva armi chimiche e un programma nucleare? Ciò avvenne perché erano spinte a giustificare la guerra. Le stime precedenti alla guerra sottovalutarono enormemente la difficoltà e il costo dell’operazione? Questo avvenne perché il partito della guerra non voleva ascoltare niente che potesse sollevare dubbi sulla fretta della invasione. Infatti, il dirigente dello staff dell’Esercito venne di fatto licenziato perché poneva l’interrogativo se la fase dell’occupazione sarebbe stata semplice e poco costosa.
Perché vollero una guerra? La risposta a quella domanda è più difficile. Alcuni dei guerrafondai credevano che dispiegare un uso estremo della forza in Iraq avrebbe aumentato il potere americano e l’influenza nel mondo. Alcuni consideravano l’Iraq come una sorta di progetto pilota, una preparazione per una serie di cambiamenti di regime. Ed è difficile evitare il sospetto che vi fosse un forte strumentalismo [1], utilizzare il trionfo militare per rafforzare il marchio repubblicano in casa propria.
Qualsiasi fossero i motivi precisi, il risultato fu un capitolo buio della storia americana. Ripetiamolo: venimmo portati in guerra con la menzogna.
Ora, si può capire perché molti individui nella politica e nei media preferirebbero non parlarne affatto. Alcuni di loro, posso supporre, possono essere stati tratti in inganno: possono essere stati raggirati da evidenti bugie, la qualcosa non è motivo di vanto per il loro giudizio. Inoltre, sospetto, furono conniventi: compresero che la tesi ufficiale per la guerra era un pretesto, ma avevano le loro proprie ragioni per volere una guerra, oppure, in alternativa, permisero che si strappasse il loro consenso con l’intimidazione. Perché negli anni 2002-2003 ci fu un preciso clima di paura tra i politici e i commentatori, un clima per il quale criticare le pressioni per la guerra equivaleva a rovinarsi la carriera.
In cima a queste ragioni di carattere personale, in generale i nostri organi di informazione vissero un momento difficile quanto a fare i conti con la disonestà della politica. I giornalisti erano restii a criticare direttamente gli uomini politici per le loro bugie, anche quando queste riguardavano temi ordinari come i dati del bilancio, per paura di apparire schierati. Di fatto, più grande era la menzogna, più chiaro era che importanti figure politiche erano impegnate in una aperta frode, più esitante era il giornalismo. E non c’è niente di più grande che condurre l’America in guerra con l’inganno, in effetti trattandosi più o meno di un crimine.
Ma la verità è importante, e non solo perché coloro che rifiutano di imparare dalla storia sono condannati in senso generale a ripeterla. La campagna di bugie che ci portò in Iraq è stata talmente recente che è ancora importante considerare responsabili gli individui che ne ebbero colpa. Non importano i passi falsi verbali di Jeb Bush. Si pensi, piuttosto, alla sua squadra sulla politica estera, guidata da persone che furono direttamente coinvolte nell’inventare falsi argomenti per la guerra.
Dunque, intendiamo la storia dell’Iraq correttamente. Sì, da un punto di vista nazionale fu un errore. Ma (con tante scuse a Talleyrand [2]) essa fu peggio di un errore, fu un crimine.
[1] “Wagging the dog” significa letteralmente “scodinzolare il cane”. Ovvero, non è il cane che scodinzola la coda, ma – nella espressione idiomatica originaria – è la coda che scodinzola il cane. Indica dunque una sorta di inversione logica, più semplicemente, come mi pare qua, l’uso strumentale di qualcosa per ottenere qualcosa d’altro.
[2] A proposito dell’assassinio di Luigi Antonio di Borbone, Duca di Enghien, su iniziativa di Napoleone Bonaparte, Talleyrand commentò con queste parole: “E’ stato peggio di un crimine, è stato un abbaglio”.
L’esecuzione del Duca d’Enghien:
By mm
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