MAY 25, 2015
Remember Douglas Adams’s 1979 novel “The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy”? It began with some technology snark, dismissing Earth as a planet whose life-forms “are so amazingly primitive that they still think digital watches are a pretty neat idea.” But that was then, in the early stages of the information technology revolution.
Since then we’ve moved on to much more significant things, so much so that the big technology idea of 2015, so far, is a digital watch. But this one tells you to stand up if you’ve been sitting too long!
O.K., I’m snarking, too. But there is a real question here. Everyone knows that we live in an era of incredibly rapid technological change, which is changing everything. But what if what everyone knows is wrong? And I’m not being wildly contrarian here. A growing number of economists, looking at the data on productivity and incomes, are wondering if the technological revolution has been greatly overhyped — and some technologists share their concern.
We’ve been here before. “The Hitchhiker’s Guide” was published during the era of the “productivity paradox,” a two-decade-long period during which technology seemed to be advancing rapidly — personal computing, cellphones, local area networks and the early stages of the Internet — yet economic growth was sluggish and incomes stagnant. Many hypotheses were advanced to explain that paradox, with the most popular probably being that inventing a technology and learning to use it effectively aren’t the same thing. Give it time, said economic historians, and computers will eventually deliver the goods (and services).
This optimism seemed vindicated when productivity growth finally took off circa 1995. Progress was back — and so was America, which seemed to be at the cutting edge of the revolution.
But a funny thing happened on the way to the techno-revolution. We did not, it turned out, get a sustained return to rapid economic progress. Instead, it was more of a one-time spurt, which sputtered out around a decade ago. Since then, we’ve been living in an era of iPhones and iPads and iDontKnows, but even if you adjust for the effects of financial crisis, growth and trends in income have reverted to the sluggishness that characterized the 1970s and 1980s.
In other words, at this point, the whole digital era, spanning more than four decades, is looking like a disappointment. New technologies have yielded great headlines, but modest economic results. Why?
One possibility is that the numbers are missing the reality, especially the benefits of new products and services. I get a lot of pleasure from technology that lets me watch streamed performances by my favorite musicians, but that doesn’t get counted in G.D.P. Still, new technology is supposed to serve businesses as well as consumers, and should be boosting the production of traditional as well as new goods. The big productivity gains of the period from 1995 to 2005 came largely in things like inventory control, and showed up as much or more in nontechnology businesses like retail as in high-technology industries themselves. Nothing like that is happening now.
Another possibility is that new technologies are more fun than fundamental. Peter Thiel, one of the founders of PayPal, famously remarked that we wanted flying cars but got 140 characters instead. And he’s not alone in suggesting that information technology that excites the Twittering classes may not be a big deal for the economy as a whole.
So what do I think is going on with technology? The answer is that I don’t know — but neither does anyone else. Maybe my friends at Google are right, and Big Data will soon transform everything. Maybe 3-D printing will bring the information revolution into the material world. Or maybe we’re on track for another big meh.
What I’m pretty sure about, however, is that we ought to scale back the hype.
You see, writing and talking breathlessly about how technology changes everything might seem harmless, but, in practice, it acts as a distraction from more mundane issues — and an excuse for handling those issues badly. If you go back to the 1930s, you find many influential people saying the same kinds of things such people say nowadays: This isn’t really about the business cycle, never mind debates about macroeconomic policy; it’s about radical technological change and a work force that lacks the skills to deal with the new era.
And then, thanks to World War II, we finally got the demand boost we needed, and all those supposedly unqualified workers — not to mention Rosie the Riveter — turned out to be quite useful in the modern economy, if given a chance.
Of course, there I go, invoking history. Don’t I understand that everything is different now? Well, I understand why people like to say that. But that doesn’t make it true.
Il grande ‘chi lo sa’ [1] , di Paul Krugman
New York Times 25 maggio 2015
Vi ricordate il romanzo del 1979 di Douglas Adam “Guida alla Galassia per autostoppisti”? Esso cominciava con qualche sarcasmo tecnologico, liquidando la Terra come un pianeta le cui forme di vita “sono così sorprendentemente primitive che ancora pensano che gli orologi digitali siano un’idea quasi fantastica”. Ma questo succedeva a quel tempo, ai primi stadi della rivoluzione dell’informazione tecnologica.
Da allora siamo a tal punto andati oltre verso oggetti molto più significativi, che la grande idea della tecnologia del 2015, sino a questo punto, è un orologio digitale. Come a dire che è il momento di alzarci, se abbiamo poltrito troppo a lungo!
Va bene, sto facendo anch’io del sarcasmo. Ma qua c’è una questione vera. Tutti sanno che viviamo in un’epoca di incredibili cambiamenti tecnologici, che stanno modificando ogni cosa. Ma cosa direste se quello che tutti sanno fosse sbagliato? Non sto facendo il bastian contrario, in questo caso. Un numero crescente di economisti, osservando i dati sulla produttività e sui redditi, si sta chiedendo se la rivoluzione tecnologica non sia stata grandemente sopravvalutata – ed alcuni tecnologi condividono la loro preoccupazione.
“La guida per gli autostoppisti” venne pubblicata nell’epoca del “paradosso della produttività”, un periodo di due decenni nel quale la tecnologia sembrava progredire rapidamente – i personal computer, i cellulari, le reti locali e i primi passi di Internet – e tuttavia la crescita economica era fiacca e i redditi stagnanti. Vennero avanzate molte ipotesi per spiegare quel paradosso, e la più diffusa consisteva nel fatto che inventare una tecnologia ed imparare ad utilizzarla non erano effettivamente la stessa cosa. Dategli il suo tempo, dicevano gli storici dell’economia, e alla fine i computer daranno vita ai beni (e ai servizi).
Questo ottimismo parve confermato quando la crescita della produttività alla fine decollò, attorno al 1995. Ritornò il progresso – e così fu per l’America, che sembrò essere all’avanguardia della rivoluzione.
Ma accadde una cosa curiosa sulla strada della rivoluzione tecnologica. Si scoprì che non avevamo ottenuto un duraturo ritorno al rapido progresso economico. Piuttosto, si trattò di un singolo impulso, che attorno ad un decennio orsono si mise a balbettare. Da allora stiamo vivendo in un’epoca di iPhone, di iPad e di altre diavolerie, ma persino se fate le correzioni per gli effetti della crisi finanziaria, la crescita e le tendenze del reddito si sono rovesciate nell’indolenza che aveva caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta.
In altre parole, a questo punto l’intera epoca del digitale, che ha abbracciato più di quattro decenni, appare come una delusione. Le nuove tecnologie hanno prodotto grandi titoli sui giornali, ma risultati economici modesti. Perché?
Una possibilità è che ai dati stia sfuggendo la realtà, particolarmente i benefici dei nuovi beni e servizi. Ho grandi soddisfazioni da una tecnologia che mi consente di vedere spettacoli in tempo reale dei miei musicisti preferiti, ma che non viene contabilizzata nel PIL. Eppure, la nuova tecnologia si pensava fosse al servizio delle imprese come dei consumatori, e dovrebbe essere di incoraggiamento per la produzione sia di beni tradizionali che di quelli nuovi. I grandi progressi nella produttività del periodo tra il 1995 ed il 2005 consistettero in gran parte in cose come il controllo delle scorte [2], e si misero in evidenza assai di più in imprese non tecnologiche come il commercio al dettaglio, che non nella stessa industria delle alte tecnologie. Adesso non sta accadendo niente del genere.
Un’altra possibilità è che le nuove tecnologie servano più al divertimento che non alla sostanza. Peter Thiel, uno dei fondatori di PayPal, avanzò la nota affermazione secondo la quale volevamo le macchine volanti e ci siamo invece ridotti ai 140 caratteri [3]. Ed egli non è il solo a suggerire che la tecnologia dell’informazione che eccita le categorie dei ‘cinguettanti’ [4], potrebbe non essere un grande affare per l’economia nel suo complesso.
Cosa penso, dunque, che stia accadendo con la tecnologia? La risposta è che non lo so – ma neanche gli altri lo sanno. Forse gli amici che ho a Google hanno ragione, e presto Big Data [5] cambierà ogni cosa. Forse la ‘stampa a tre dimensioni’ porterà la rivoluzione dell’informazione nel mondo materiale. O forse siamo sulla strada di un altro grande ‘chi lo sa’.
Ciò di cui sono abbastanza sicuro, tuttavia, è che dovremmo ridimensionare ogni montatura.
Vedete, scrivere e parlare a vanvera su come la tecnologia cambi ogni cosa potrebbe sembrare innocuo, però, in pratica, funziona come una distrazione da altri temi più ordinari – e come una scusante per gestire malamente tali temi. Se si torna agli anni ’30, si possono trovare molte persone influenti che dicevano cose dello stesso genere che le persone simili dicono ai nostri giorni: che la questione non riguardava in realtà il ciclo economico, che non contavano i dibattiti sulla politica macroeconomica; il punto era ed è il mutamento radicale della tecnologia e la forza lavoro che manca delle competenze per misurarsi con un’epoca nuova.
E poi, a seguito della Seconda Guerra Mondiale, finalmente ottenemmo la spinta alla domanda di cui avevamo bisogno, e tutti quei lavoratori che si ritenevano sprovvisti di qualificazione – per non parlare di Rosie la rivettatrice [6] – si scoprirono essere abbastanza utili nell’economia moderna, se erano forniti di una possibilità.
Naturalmente, rieccomi al punto, appellandosi alla storia. Sono io che non capisco che oggi è tutto diverso? Ebbene, capisco perché la gente lo dice. Ma questo non significa che sia vero.
[1] “Meh” è una interiezione popolare tra i giovanissimi, ma – ammette UrbanDctionary – le ragioni di quel successo sono misteriose, ed è anche arduo scegliere tra tutti i sensi possibili (può essere usato per dire “sì” oppure “no”; per dire “spesso” oppure “mai” etc.). Mi pare che, in questo caso, aiuti la definizione forse prevalente dello stesso dizionario, che lo spiega come “una scrollata di spalle verbale”.
[2] Lo “inventory control” sono i sistemi di supervisione dell’offerta, dell’immagazzinamento e della accessibilità di prodotti che assicurano una offerta adeguata senza il rischio di giacenze eccessive.
[3] I 140 caratteri – indicano precisamente la lunghezza degli interventi nei social network come Twittter, che vengono chiamati ‘Twosh’ e possono essere etichettati con l’uso di uno o più “hashtag” (il segnale di “cancelletto”), in modo tale che si crea un collegamento ipertestuale tra tutti coloro che citano lo stesso ‘hashtag’. Dunque, si pensava di avere macchine volanti, disse Thiel, e siamo finiti ad un linguaggio balbuziente che collega universalmente chi è affetto dalla stessa balbuzie.
[4] Che utilizzano Twitter, da “tweet” che significa ‘cinguettio’.
[5] Il concetto di Big data è proprio del campo dei database: il termine indica grandi aggregazioni di dati, la cui mole richiede strumenti differenti da quelli tradizionali, in tutte le fasi del processo (dalla gestione, alla curation, passando per condivisione, analisi e visualizzazione). Il progressivo aumento della dimensione dei data set è legato alla necessità di analisi su un unico insieme di dati correlati rispetto a quelle che si potrebbero ottenere analizzando piccole serie con la stessa quantità totale di dati ottenendo informazioni che non si sarebbero potute ottenere sulle piccole serie.Big Data rappresenta anche l’interrelazione di dati provenienti potenzialmente da fonti eterogenee, quindi non soltanto i dati strutturati (come i database) ma anche non strutturati: immagini, email, dati GPS, informazioni prese dai social network. L’insieme di tutti questi dati genera quel che si chiama Big Data consentendo a chi li analizza di ottenere una plusvalenza legata ad analisi più complete che sfiorano anche gli “umori” dei mercati e del commercio e quindi del Trend complessivo della Società e del fiume di informazioni che viaggiano e transitano attraverso internet.
Con i Big Data si arriva a parlare di Zetta-Byte ovvero di una mole di Byte dell’ordine di 10^21 e quindi di miliardi di Terabyte (già 10^12) (Wikipedia).
Una immagine derivata da tecniche di Big Data.
[6] Rosie the Riveter (tradotto: Rosie la Rivettatrice) è un’icona culturale degli Stati Uniti, che rappresenta le donne americane che lavoravano nelle fabbriche durante la seconda guerra mondiale, molte delle quali erano impiegate in stabilimenti che producevano munizioni e rifornimenti di guerra, spesso sostituendo gli uomini impegnati nell’esercito.
By mm
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