MAY 25, 2015
Yanis Varoufakis
ATHENS – A common fallacy pervades coverage by the world’s media of the negotiations between the Greek government and its creditors. The fallacy, exemplified in a recent commentary by Philip Stephens of the Financial Times, is that, “Athens is unable or unwilling – or both – to implement an economic reform program.” Once this fallacy is presented as fact, it is only natural that coverage highlights how our government is, in Stephens’s words, “squandering the trust and goodwill of its eurozone partners.”
But the reality of the talks is very different. Our government is keen to implement an agenda that includes all of the economic reforms emphasized by European economic think tanks. Moreover, we are uniquely able to maintain the Greek public’s support for a sound economic program.
Consider what that means: an independent tax agency; reasonable primary fiscal surpluses forever; a sensible and ambitious privatization program, combined with a development agency that harnesses public assets to create investment flows; genuine pension reform that ensures the social-security system’s long-term sustainability; liberalization of markets for goods and services, etc.
So, if our government is willing to embrace the reforms that our partners expect, why have the negotiations not produced an agreement? Where is the sticking point?
The problem is simple: Greece’s creditors insist on even greater austerity for this year and beyond – an approach that would impede recovery, obstruct growth, worsen the debt-deflationary cycle, and, in the end, erode Greeks’ willingness and ability to see through the reform agenda that the country so desperately needs. Our government cannot – and will not – accept a cure that has proven itself over five long years to be worse than the disease.
Our creditors’ insistence on greater austerity is subtle yet steadfast. It can be found in their demand that Greece maintain unsustainably high primary surpluses (more than 2% of GDP in 2016 and exceeding 2.5%, or even 3%, for every year thereafter). To achieve this, we are supposed to increase the overall burden of value-added tax on the private sector, cut already diminished pensions across the board; and compensate for low privatization proceeds (owing to depressed asset prices) with “equivalent” fiscal consolidation measures.
The view that Greece has not achieved sufficient fiscal consolidation is not just false; it is patently absurd. The accompanying graph not only illustrates this; it also succinctly addresses the question of why Greece has not done as well as, say, Spain, Portugal, Ireland, or Cyprus in the years since the 2008 financial crisis. Relative to the rest of the countries on the eurozone periphery, Greece was subjected to at least twice the austerity. There is nothing more to it than that.
Following Prime Minister David Cameron’s recent election victory in the United Kingdom, my good friend Lord Norman Lamont, a former chancellor of the exchequer, remarked that the UK economy’s recovery supports our government’s position. Back in 2010, he recalled, Greece and the UK faced fiscal deficits of more or less similar size (relative to GDP). Greece returned to primary surpluses (which exclude interest payments) in 2014, whereas the UK government consolidated much more gradually and has yet to return to surplus.
At the same time, Greece has faced monetary contraction (which has recently become monetary asphyxiation), in contrast to the UK, where the Bank of England has supported the government every step of the way. The result is that Greece is continuing to stagnate, whereas the UK has been growing strongly.
Fair-minded observers of the four-month-long negotiations between Greece and its creditors cannot avoid a simple conclusion: The major sticking point, the only deal-breaker, is the creditors’ insistence on even more austerity, even at the expense of the reform agenda that our government is eager to pursue.
Clearly, our creditors’ demand for more austerity has nothing to do with concerns about genuine reform or moving Greece onto a sustainable fiscal path. Their true motivation is a question best left to future historians – who, I have no doubt, will take much of the contemporary media coverage with a grain of salt.
L’austerità è il solo punto di rottura
di Yanis Varoufakis
ATENE – Un errore assai diffuso pervade i resoconti del mondo dei media sui negoziati tra il Governo greco e i suoi creditori. L’errore, esemplificato in un recente commento di Philip Stephens del Financial Times, è quello secondo il quale “Atene è incapace o indisponibile – oppure entrambe le cose – a mettere in atto un programma di riforme economiche”. Una volta che questo errore venga assunto come un fatto, diventa semplicemente naturale che i resoconti evidenzino che il nostro Governo, secondo le parole di Stephens, “sta dilapidando la fiducia e la buona volontà dei suoi partner dell’eurozona”.
Ma la realtà di quei confronti è molto diversa. Il nostro Governo è desideroso di mettere in atto un programma che includa tutte le riforme economiche enfatizzate dai gruppi di ricercatori europei. Inoltre, siamo gli unici nelle condizioni di mantenere un sostegno dell’opinione pubblica greca ad un programma di risanamento economico.
Si consideri cosa tutto questo comporta: una agenzia indipendente di riscossione delle tasse; ragionevoli avanzi primari, d’ora innanzi, del bilancio pubblico; un programma di privatizzazioni sensato ed ambizioso, assieme ad una agenzia dello sviluppo che sfrutti gli asset pubblici per creare flussi di investimenti; una effettiva riforma pensionistica che assicuri la sostenibilità di lungo periodo del sistema della sicurezza sociale; la liberalizzazione del mercato dei beni e dei servizi, etc.
Dunque, se il nostro Governo ha tutta l’intenzione di adottare le riforme attese dai nostri partner, perché i negoziati non hanno prodotto un accordo? Dov’è l’intoppo?
Il problema è semplice: i creditori della Grecia insistono per una austerità ancora maggiore per quest’anno e per quelli successivi – un approccio che impedirebbe la ripresa, bloccherebbe la crescita, peggiorerebbe il ciclo deflazionistico innescato dal debito e, alla fine, intaccherebbe la volontà e la possibilità per i Greci di vedere nel programma di riforme ciò di cui il paese disperatamente necessita. Il nostro Governo non può accettare una cura che nel corso di cinque anni si è dimostrata peggiore della malattie, e non la accetterà.
L’insistenza dei nostri creditori per una maggiore austerità è sottile ma tenace. Può essere rintracciata nella loro richiesta di mantenere avanzi primari insostenibilmente elevati (più del 2% nel 2016 e superiori al 2,5%, o persino al 3%, per ogni anno successivo). Per ottenerlo, si suppone che aumentiamo il peso complessivo della tassa sul valore aggiunto, che si taglino in modo indiscriminato le pensioni già ridotte e che si compensino le insufficienti entrate dalle privatizzazioni (dovute ai prezzi depressi degli asset) con misure di consolidamento della finanza pubblica “equivalenti”.
L’opinione secondo la quale la Grecia non avrebbe realizzato un consolidamento finanziario sufficiente non è solo falsa; è palesemente assurda. Il grafico seguente non solo lo dimostra; in modo succinto esso anche affronta la questione delle ragioni per le quali la Grecia, negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008, non ha avuto lo stesso andamento positivo, ad esempio, della Spagna, del Portogallo, dell’Irlanda o di Cipro. In relazione al resto dei paesi della periferia dell’eurozona, la Grecia è stata sottoposta ad una austerità almeno doppia [1].
A seguito della vittoria del Primo Ministro David Cameron alle recenti elezioni nel Regno Unito, il mio buon amico Lord Norman Lamont, in passato Cancelliere dello Scacchiere, ha sottolineato come la ripresa dell’economia britannica è una conferma della posizione del nostro Governo. Egli ha ricordato che nel passato 2010, la Grecia ed il Regno Unito fronteggiarono deficit di finanza pubblica più o meno di dimensioni simili (in relazione al PIL). La Grecia tornò ad avanzi primari (che escludono il pagamento degli interessi) nel 2014, mentre il Governo britannico consolidò le sue finanze in modo molto più lento ed ancora deve tornare ad una situazione di surplus.
Nello stesso tempo, la Grecia ha fatto fronte ad una contrazione monetaria (che nei tempi recenti è diventata una asfissia monetaria), all’opposto del Regno Unito, dove la Banca di Inghilterra ha sostenuto l’indirizzo del Governo passo dopo passo. Il risultato è che in Grecia sta continuando la stagnazione, mentre il Regno Unito ha una forte crescita.
Osservatori obbiettivi dei negoziati che durano da quattro mesi tra la Grecia ed i suoi creditori non possono evitare una semplice conclusione: l’incaglio importante, l’unica ragione di rottura, è l’insistenza dei creditori su una austerità ancora maggiore, anche a danno del programma di riforme che il nostro Governo è ansioso di perseguire.
Chiaramente, la richiesta dei nostri creditori di una maggiore austerità non ha niente a che fare con riforme genuine o con il fatto che la Grecia si sposti su un sentiero di sostenibilità della finanza pubblica. Le loro vere motivazioni sono un tema che è meglio lasciare agli storici del futuro, che, non ho dubbio, considereranno con un grano di sale molti dei resoconti giornalistici contemporanei.
[1] Il diagramma mostra, per il periodo 2009-2014, sulla linea verticale le variazioni del PIL nominale, positive verso l’alto e negative verso il basso, e sulla linea orizzontale la riduzione strutturale del deficit. Come si vede la somma dei deficit strutturali del periodo per la Grecia è diminuita attorno al 18% – per la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda, attorno al 6/7%. Nel frattempo, Spagna e Portogallo hanno avuto un PIL stagnante o in lieve flessione (l’Irlanda una crescita attorno al 10%), mentre il PIL greco è diminuito di circa il 25%.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"