Blog di Krugman

Note preliminari sull’ineguaglianza e sulla organizzazione urbana (27 maggio 2015)

 

Preliminary Notes on Inequality and Urbanism

May 27, 2015 8:53 am

Edited slightly from first version

Tim Wu has an interesting piece about the phenomenon of vacant storefronts in booming New York neighborhoods, which by coincidence dovetails with a number of conversations I’ve been having here at the Said Business School in Oxford, where several people are interested in the changing economic geography of London and its links to globalization.

The empty-store phenomenon is interesting, and cries out for a bit of modeling, which I won’t do right now. But it’s part of a broader story of big money moving in to desirable neighborhoods, and in the process destroying what makes them desirable. And this in turn has me thinking, blurrily — this is just a start — about the relationship between inequality and urbanism. Not as a diatribe — I think it’s a fairly complex issue — but just as an interesting thing, especially if you’re in the process of moving into a big city.

Some thoughts:

First, when it comes to things that make urban life better or worse, there is absolutely no reason to have faith in the invisible hand of the market. External economies are everywhere in an urban environment. After all, external economies — the perceived payoff to being near other people engaged in activities that generate positive spillovers — is the reason cities exist in the first place. And this in turn means that market values can very easily produce destructive incentives. When, say, a bank branch takes over the space formerly occupied by a beloved neighborhood shop, everyone may be maximizing returns, yet the disappearance of that shop may lead to a decline in foot traffic, contribute to the exodus of a few families and their replacement by young bankers who are never home, and so on in a way that reduces the whole neighborhood’s attractiveness.

On the other hand, however, an influx of well-paid yuppies can help support the essential infrastructure of hipster coffee shops (you can never have too many hipster coffee shops), ethnic restaurants, and dry cleaners, and help make the neighborhood better for everyone.

What does history tell us? Politically, I’d like to say that inequality is bad for urbanism. That’s far from obvious, however. Jane Jacobs wrote The Death and Life of Great American Cities right in the middle of the great postwar expansion, an era of widely shared economic growth, relatively equal income distribution, empowered labor — and collapsing urban life, as white families fled the cities and a combination of highway building and urban renewal destroyed many neighborhoods.

And when a partial urban revival began, it was arguably associated with forces driven by or associated with rising inequality. Affluent types in search of a bit of cool — probably 5 percenters rather than 1 percenters, and more or less David Brooks’s Bobos (bourgeois bohemians) drove gentrification and revival in urban cores; in New York, at least, large number of poorly paid but striving immigrants drove the revival of outer borough neighborhoods like Jackson Heights or Brighton Beach.

Still, we’re now arguably looking at something new, as the really wealthy — domestic malefactors of great wealth, but also oligarchs, princelings, and sheiks — buy up prime real estate and leave it vacant, creating luxury-shopping wastelands at best (I know, snobbish Upper West Side bias), expensive ghost districts at worst.

Anyway, interesting to think about, and for me a welcome diversion from dark thoughts about Greece.

 

Note preliminari sull’ineguaglianza e sulla organizzazione urbana

Leggermente corrette da una prima versione

Tim Wo pubblica un interessante articolo sul fenomeno delle ‘vetrine vuote’ [1] nella espansione dei quartieri periferici di New York, che per combinazione coincide con un certo numero di colloqui che sto avendo qua, alla Saïd [2] Business School di Oxford, dove varie persone sono interessate ai mutamenti della geografia economica di Londra ed al rapporto di tutto questo con la globalizzazione.

Il fenomeno dei negozi vuoti è interessante, e chiede con evidenza un qualche modello, che non voglio esporre in questo momento. Ma è parte di un racconto più ampio dei grandi capitali che si spostano verso quartieri appetibili, e in questo processo distruggono quello che li rendeva appetibili. E a sua volta questo mi porta a riflettere in modo indefinito (questo è solo un inizio) sulla relazione tra eguaglianza ed urbanizzazione. Non nella forma di un’invettiva – penso che sia una questione discretamente complicata – ma solo come una cosa interessante, in particolare se state trasferendovi in una grande città.

Alcuni pensieri.

Il primo: quando si ragiona della cose che rendono la vita urbana migliore o peggiore, non c’è assolutamente alcuna ragione di credere nella mano invisibile del mercato. Dopo tutto, le economie esterne – il vantaggio che si intuisce dallo star vicini ad altre persone impegnate in attività che generano ricadute positive – è la prima ragione dell’esistenza delle città. E questo a sua volta comporta che i valori di mercato possono produrre molto facilmente incentivi alla distruzione. Quando, ad esempio, una filiale di una banca occupa lo spazio in precedenza occupato da un amatissimo negozio di quartiere, tutti cercano di sfruttarne al meglio i vantaggi, tuttavia la scomparsa di quella bottega può portare ad una diminuzione di pedoni che passeggiano, contribuendo all’esodo di alcune famiglie ed alla loro sostituzione con giovani banchieri che non stanno mai in casa, e così via, in modi che riducono l’attrattività complessiva del quartiere.

D’altra parte, è pur vero che giovani rampanti ben pagati possono aiutare a sostenere l’infrastruttura fondamentale dei caffè alla moda (caffè alla moda non ce n’è mai troppi), di ristoranti esotici e di lavanderie a secco, e contribuire a rendere il quartiere migliore per tutti.

Tutto questo cosa ci dice? Politicamente, direi che l’ineguaglianza è negativa per l’organizzazione delle città. Tuttavia, è lungi dall’essere ovvio. Jane Jacobs scrisse “La morte e la vita delle grandi città americane” proprio nel mezzo della grande espansione postbellica, un’epoca di crescita economica ampiamente condivisa, di distribuzione del reddito relativamente equa, di maggior potere dei lavoratori – e di contro di crisi nella vita urbana, quando le famiglie bianche fuggivano dalle città ed una combinazione di costruzione della viabilità principale e di riqualificazione urbanistica distrusse molti quartieri.

E quando riprese in parte la vita nelle città, essa fu verosimilmente connessa con fattori provocati o associati ad una crescente ineguaglianza. Individui benestanti in cerca di un po’ di fresco – probabilmente facenti parte del 5 per cento dei più ricchi e non dell’1 per cento, chi più chi meno bohémien borghesi (quelli che David Brooks chiama “bobos”) guidarono la gentrificazione [3] ed il risveglio dei centri urbani; almeno a New York, un ampio numero di immigrati con poveri stipendi ma con aspirazioni guidarono la ripresa di quartieri nei distretti più esterni, come Jackson Heights o Brighton Beach.

Eppure, adesso stiamo assistendo a qualcosa di nuovo, come individui realmente ricchi – malfattori autoctoni dotati di grandi ricchezze, ma anche oligarchi, principini e sceicchi – che acquistano immobili di prima qualità e li lasciano vuoti, nel migliore dei casi creando aree desolate di negozi di lusso, nel peggiore dei casi costosi distretti fantasma (capisco che la mia possa sembrare una tendenza snob da Upper West Side [4]).

In ogni caso, cose interessanti su cui ragionare, e per me una felice diversione dai pensieri bui sulla Grecia.

[1] L’articolo di Tim Wo descrive la situazione di un quartiere di New York, il West Village, nel quale crescono le chiusure a tempo indeterminato di vari negozi. Il quartiere è ricco – un reddito medio di circa 120.000 dollari annui – ed il fenomeno non deriva da precedenti specifiche difficoltà economiche di quegli esercizi; piuttosto da improvvisi enormi aumenti del costo degli affitti, che mettono fuori mercato quelle attività. Il punto è che in seguito quei negozi possono restare chiusi anche per anni. Con quale logica economica? L’unica logica che si può immaginare è la scommessa speculativa di futuri interessi a quelle locazioni da parte di attività disposte a pagare affitti molto maggiori. In un certo senso, dunque, non è la povertà, ma la possibile ricchezza futura che porta a quei fallimenti.

“Vetrine vuota” (“vacant storefronts”) – oppure “shuttered storefronts” (“impostoni chiusi”) – indica dunque la chiusura di attività commerciale; ma più precisamente indica un prolungato periodo di inattività, nel quale i negozi restano vuoti e non sono sostituiti da altri esercizi simili.

[2] Correggiamo la denominazione dell’Istituto di Oxford (da “Said” a “Saïd”) perché in effetti il termine proviene dal primo benefattore dell’istituto, un miliardario siriano-saudita di nome Wafic Saïd.

[3] Termine coniato nel 1964 da R. Glass e con il quale si intende quel fenomeno di rigenerazione e rinnovamento delle aree urbane che manifesta, dal punto di vista sociale e spaziale, la transizione dall’economia industriale a quella postindustriale. La gentrificazione è tipica delle «città globali», associata alle politiche a indirizzo neoliberale, con forte permeabilità delle arene pubbliche locali agli interessi del capitale privato. Gli effetti della g. consistono in un radicale mutamento delle aree più depresse (inner city) delle città industriali in termini sia di ambiente costruito – attraverso la demolizione, ricostruzione o riqualificazione dei quartieri storici in via di decadenza – sia della composizione sociale. (Treccani)

[4] L’Upper West Side è un quartiere dell’isola newyorkese di Manhattan. Il quartiere ha la reputazione di essere l’area di New York City con maggiori lavoratori in ambito culturale ed artistico, mentre l’East Side è tradizionalmente il quartiere dei lavoratori di affari e commercio. (Wikipedia)

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