Letture e pensieri sparsi, di Marco Marcucci.

I Greci vanno a votare anche per noi

(anatomia dei pensieri unici)

 

Provo a ripercorrere alcune delle informazioni e delle idee che vengono dai testi tradotti negli ultimi mesi sulla Grecia, e a metterle a confronto con il prevalente giudizio di buona parte dei media e della politica nazionale ed europea sulla ‘irresponsabilità’ e ‘inaffidabilità’ dei governanti greci (è il “pensiero unico” in voga in queste settimane), facendomi guidare da una domanda che non mi pare troppo ingenua: quale logica dovrebbe seguire un ragionamento su un paese in profonda crisi economica – la disoccupazione giovanile al 60 per cento! – e con un onere del debito che tutti riconoscono sproporzionato alle sue possibilità? Insomma, di cosa si sta parlando?

Credo che due semplici domande dovrebbero essere giudicate da tutti preliminari ad ogni ragionamento sensato (a dire il vero, le domande sono talmente semplici da rasentare la stupidità, ma è quello che mi propongo di illustrare; ovvero l’insidia maggiore nei ‘pensieri unici’ è esattamente la stupidità, perché solo ragionando in modo stupido si creano quelle condizioni di opacità che deformano il buon senso e, a seguire, anche il metodo democratico).

Ecco le domande:

1 – Perché c’è bisogno di un nuovo accordo, visto che ce n’era già uno nel 2010? Forse in questi ultimi anni, la condizione dell’economia greca è peggiorata? E se è peggiorata, perché è successo, nonostante gli aiuti?

2 – È stata attuata una politica di austerità finalizzata ad ottenere una qualche regolarità nella restituzione dei debiti? Forse quella politica è stata inferiore rispetto a quella messa in atto da altri paesi debitori, e questo spiega il mancato recupero di competitività e l’aggravarsi della crisi dell’economia greca? O invece è stata proprio quella austerità che ha fatto crollare l’economia greca e dunque ha provocato il collasso su ogni ipotesi di restituzione del debito?

Se si esamina il ‘pensiero unico’ oggi in voga, si deve riconoscere che esso non prevede domande di questo genere. Il Presidente della Commissione Europea Juncker ha tenuto un comizio su scala continentale, basandosi su una premessa: che non ci sia alcun particolare collasso economico da analizzare. Per lui la Grecia non è un paese al collasso, è semplicemente un paese che ha debiti. Il nostro Presidente del Consiglio, in modo del tutto simile, ritiene che il tratto distintivo della politica greca sia “l’ostinazione”, non la disperazione.

Ora, alla prima domanda si potrebbe rispondere: “che la situazione economica greca sia peggiorata nessuno lo nega”. Ma si dovrebbe aggiungere: “però in pochi ne parlano”. E quasi nessuno ne parla in relazione alle previsioni che sorreggevano l’accordo inziale del 2010; questo aspetto è praticamente oggetto di censura. La tabella sottostante, di recente ripubblicata da Krugman nel post del 25 giugno scorso, mostra quale è stato (linea rossa) l’andamento effettivo del PIL reale greco dal 2009 al 2014, e quale andamento fosse stato previsto dal Fondo Monetario Internazionale a sostegno della politica di austerità che venne imposta dalla troika nel 2010 (linea blu).

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Secondo le previsioni del FMI, dunque, ad oggi la Grecia avrebbe dovuto ricollocarsi a livelli di produzione di beni e servizi pari a quelli del 2009, e si sarebbe dovuto iniziare ad interrompere il declino a partire dal 2011. Come si vede, da anni la situazione del PIL è precipitata e poi è rimasta stabile ad un livello di PIL del 20 per cento inferiore a quello di partenza. (Tra parentesi, il FMI ha riconosciuto in questi anni che le previsioni sbagliate erano esattamente dipese da un errore nella valutazione degli effetti della austerità. Si pensava che un euro di austerità provocasse una diminuzione di un euro di PIL, mentre c’era un notevole effetto di moltiplicatore che si era ignorato).

La situazione è dunque enormemente peggiorata, proprio a partire dalle misure economiche decise e imposte nel 2010; se si fossero attuate le previsioni del FMI Syriza probabilmente non sarebbe al Governo, la Grecia non sarebbe in depressione, non ci sarebbe stato alcun bisogno di modificare quegli accordi.

Ma, forse, l’austerità in Grecia è stata minore di quello che sarebbe stato necessario? Forse la Grecia non ha voluto praticare l’austerità in modo conseguente, forse continua a permettersi salari che impediscono un recupero di produttività ed una ripresa? Non sono questi i rimproveri che le vengono mossi, in particolare da parte di alcuni Governi di destra di paesi debitori che in queste settimane si sono spesso prestati a fare da argomento alla linea negoziale della Germania e degli altri paesi creditori? Gli esempi luminosi dell’Irlanda, della Lettonia e della Spagna, a fronte della supposta perdurante irresponsabilità greca?

Esaminiamo queste tre altre tabelle: pubblicate nei post di Krugman del 17 febbraio, del 19 aprile e del 19 giugno.

Anzitutto l’andamento della spesa pubblica al netto degli interessi nel periodo dal 2007 al 2014:

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Come si vede, tra i sacrifici della Grecia e quelli di altri paesi creditori non c’è confronto. Il peso della austerità greca è anche chiaramente visibile da questa sintesi sull’equilibrio del bilancio primario greco (ancora al netto degli interessi), che era precipitato negli anni 2006-2009, ed è risalito di circa venti punti dal 2009 al 2014 (in questo caso, risalire significa fare sacrifici).

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E infine il confronto tra l’andamento dei costi del lavoro in Grecia (linea blu) e in Spagna (linea rossa):

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Anche qua non c’è confronto: il costo relativo del lavoro in Grecia (relativo rispetto alla media dell’area euro) è crollato di 35 punti, sette volte di più di quello spagnolo.

Dunque: sarebbero sufficienti queste quattro tabelle per stabilire sensatamente di cosa si sta parlando. L’austerità che ha accentuato le difficoltà in tutta Europa, che ha deciso gli andamenti diversi dell’Europa e degli Stati Uniti, che ha in modo impressionante vulnerato i paesi più deboli, ha provocato un effetto distruttivo sulla società greca. Si sta parlando di questo. E quello che si comprende dal testo di accordo sul quale gli elettori greci sono chiamati a votare è che l’Europa continua a ritenere che la Grecia in due anni debba realizzare un avanzo primario di bilancio di 3,5 punti, il che significa – non essendo alle viste alcun miracolo – che l’austerità deve proseguire con intensità anche maggiore. L’altra cosa che si capisce è che, se deve essere la troika a decidere l’IVA sui farmaci o gli sgravi sui carburanti agricoli da tagliare, tanto varrebbe aggiungere che le istituzioni della democrazia greca sono soppresse sino a data da precisare.

Dunque, non si sta neanche parlando della crisi generale di questi anni , ma della eccezionale crisi greca, che forse non ha precedenti nella storia moderna. Si sta parlando delle eventualità che i paesi creditori riconoscano che quella crisi rischia di provocare una cancrena in un paese membro della civilissima Europa. Si sta parlando delle eventualità che i paesi creditori ammettano che la moneta unica, in questi anni di crisi, abbia comportato un prezzo immenso per i più deboli ed un regalo immenso per i più forti. Si sta dunque decidendo se l’Europa possa continuare a reputarsi civile, consentendo che la Grecia vada ancora più a fondo. Oppure se si debba riconoscere che quel paese non può portare al collo un cappio quale quello che gli è stato imposto. E, certo, si sta anche parlando di quale mai Europa si possa pensare di riformare, con una premessa del genere.

Sapendo che essere tutti parte di un’area valutaria comune, comporta per ciascuno un prezzo. Per il paese vicino al tracollo irrimediabile il prezzo di non poter svalutare la propria moneta; se la Grecia lo avesse fatto la sua economia sarebbe senza alcun dubbio in condizioni non paragonabili. Per i paesi più forti, l’obbligo di considerare che l’arto che sta andando in cancrena fa parte del loro stesso corpo. Ogni patto futuro per l’Europa parte da qua, dalla ammissione di questa semplice regola che non può funzionare solo in un verso. .

In realtà, forse la cosa più triste da constatare è che ai greci si chiede, in fondo, di andare a votare anche per noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

z 764Il Pianeta e la politica – Il nuovo libro della Klein non ha per oggetto il fenomeno del cambiamento climatico, sebbene ad esso si riferisca per oltre seicento pagine. Il tema è la politica, quanto essa si sia trasformata e sia destinata a trasformarsi per effetto di quel fenomeno (il titolo nel testo inglese è più chiaro: “Questo cambia tutto. Il capitalismo contro il clima”). E lo stile dell’autrice ha il carattere della sobrietà; nel mentre ci fornisce centinaia di informazioni che sembrerebbero tutte alludere ad un bisogno di maggiore ‘concettualizzazione’, ella rifugge da eccessive astrazioni, preferisce segnalarci tutti i sintomi di un cambiamento profondo e lasciarci alle prese con il lavoro di intuirne gli sviluppi. Non ci parla di una rivoluzione ineludibile, semmai cerca di farci comprendere le ragioni per le quali una parte della politica rifiuta aggressivamente la realtà, mentre l’altra non riesce ad esprimerla per un difetto di immaginazione.

Ad esempio: il titolo del primo capitolo è provocatoriamente “La destra ha ragione”. Ci racconta episodi ed aneddoti del ‘negazionismo’ del cambiamento climatico, raccolti in vari colloqui e interviste presso una sorta di ‘santuario’ dei negazionisti: la Sesta Conferenza Internazionale organizzata dalla Fondazione della destra americana Heartland Institute nel 2011. Perché la destra ha ragione, secondo la Klein? Perché intende meglio della sinistra che l’intera faccenda del clima è una questione di vita o di morte (per il sistema economico e sociale, perché la vita e la morte delle persone in carne ed ossa appartiene ad una contabilità più sfuggente e quasi opinabile, nelle nazioni più ricche). Negli ultimi anni la ampia maggioranza della popolazione progressista statunitense, o canadese, è sempre più convinta del cambiamento climatico; ma un numero assai maggiore del passato di conservatori americani, oggi otto su dieci, non credono alla scienza. Si nega non tanto per ragioni ideologiche precise, ma quasi per un istinto di sopravvivenza. Si intuisce che quello che è in gioco sono alcune regole di fondo del sistema capitalistico e sembra che opporre un rifiuto sia la soluzione più naturale.

Ora, è evidente che negare la realtà non è una questione da poco, dal punto di vista della democrazia. In fondo, fu necessaria una guerra mondiale per uscire da una ‘negazione’ precedente. Negare le acquisizioni praticamente consensuali della scienza è come dichiarare superfluo il metodo della democrazia. Krugman talora usa ironicamente il termine “tribù”, ma si tratta proprio di una tendenziale regressione dal comune metodo democratico alla convivenza di tribù guerreggianti. La diffusione di negazionismi non è l’avvio di un’epoca postdemocratica? Si aggiunga che la Klein ci spiega come la tribù dei negazionisti non si limiti certo a rifiutare i fatti, bensì cominci seriamente ad organizzarsi per nuovi contesti climatici. Che, ad esempio, sommergerebbero molte coste e isole del mondo, ma forse renderebbero più temperato il clima in varie aree più ricche. Oppure, che distruggerebbero certamente economie povere, ma farebbero forse la fortuna delle assicurazioni su edifici di valore esposti a maggiori calamità naturali.

Dunque, il tema del libro è come il cambiamento del clima modifichi radicalmente la politica. Soprattutto se non ce ne accorgiamo. Perché l’altro protagonista, oltre alla destra che nega, è la timidezza dei progressisti. Timidezza che agisce in due sensi: non voler intendere la nuova radicalità del negazionismo altrui, e allo stesso tempo introiettare dosi moderate di negazionismo proprio. Un esempio lo potremmo aggiungere noi, sulla base della esperienza nella nostra provincia del mondo. Forse che in questi dieci anni il cambiamento climatico non ha prodotto effetti in Italia? I mari non si sono alzati (pare che il Mediterraneo non sarebbe tra i primi), ma gli scienziati ci dicono che nella misura in cui si sono riscaldati, hanno semplicemente provocato un forte incremento di eventi puntuali, talora discretamente distruttivi. Fenomeni dei quali parliamo e leggiamo quotidianamente; fenomeni che hanno cambiato le nostre cronache e che mostrano un fragilità ricorrente di alcuni nostri territori alla quale non eravamo abituati (si pensi alla Liguria). Eppure ci guardiamo bene dall’inquadrarli nel loro contesto più generale. Ci guardiamo anche dal dedurne nuovi programmi organici di difesa del territorio; talora si comincia a ragionare anche da noi di come potenziare i sistemi assicurativi contro le calamità naturali (la qualcosa, dal punto di vista della finanza pubblica, potrebbe addirittura non essere stupida).

Sennonché, forse è proprio l’aggressività del negazionismo – ci fa capire la Klein – che ci aiuterà ad essere meno timidi. Si scopre che tra le varie idee luminose che circolano seriamente per contrastare il cambiamento senza rinunciare al carbonio, ce n’è una che di ‘luminoso’ non ha proprio niente: offuscare il Sole. “L’opzione discussa più di frequente nei circoli geoingegneristici … prevede di spruzzare nella stratosfera solfati gassosi, tramite speciali aeroplani oppure mediante un lunghissimo tubo sospeso grazie a palloni pieni di elio (alcuni hanno suggerito addirittura di ricorrere ai cannoni).” Una soluzione che ha preso il nome di “Operazione Pinatubo”, il vulcano islandese che eruttò nel 2010 e cosparse sino alla stratosfera enormi quantità di diossido di zolfo. Le goccioline di acido solforico restano nella stratosfera e “[f]ungono da minuscoli specchietti che riflettono la luce, impedendo al calore del Sole di raggiungere con tutta la sua potenza il suolo terrestre”. Il metodo funziona: l’anno successivo alla eruzione del Pinatubo le temperature scesero di mezzo grado Celsius. Tra gli inconvenienti, un foschia quasi permanente, la quasi certa impossibilità di chiare osservazioni astronomiche e la quasi inutilità dell’energia solare. Inconvenienti che non provocano nessuna impressione in Newt Gingrich, ex portavoce repubblicano americano della Camera dei Rappresentanti, che ha dichiarato: “La geoignegneria consente di occuparsi del problema del riscaldamento globale per appena un paio di miliardi di dollari all’anno”. Ovvero, come si può constatare, c’è anche di peggio del negazionismo.

E così, se intendiamo gli argomenti della Klein nel senso che ho detto, la sua radicalità un po’ alla volta finisce col sembrare del tutto ragionevole. Per mia ignoranza, non avevo mai riflettuto a sufficienza sulla definizione del nostro sistema economico come ‘estrattivista’, pur essendo in fondo una ovvietà. Mi ha aiutato molto questa dichiarazione del 2013 di un membro repubblicano del Congresso degli Stati Uniti, Steve Stockman: “La cosa migliore della Terra è che se ci fai un buco fuoriescono gas e petrolio”. Non si potrebbe esprimere meglio l’idea che siamo stati collocati in questo punto minuscolo dell’Universo non per imparare a riprodurre, ma semplicemente a fini di rapina.

Empatia e simpatia, maggio 2015. Marco Marcucci

z 706Empatia e simpatia. Maggio 2015.

Tempo fa Scalfari citava in un suo editoriale questo pensiero sulla sinistra francese dello storico Jacques Julliard: “Il socialismo, certamente, è una mentalità, ma raddoppiata da una empatia popolare”. E cosa resta di una sinistra senza un popolo, senza quell’empatia del proprio popolo? Scalfari poneva la stessa domanda alla sinistra italiana odierna. Renzi, di recente – assieme ad un giudizio assai semplicistico sui risultati delle elezioni inglesi – ha ribadito di avere una sua opinione sull’intera questione: quello che serve, a suo parere, è un nuovo fondamento di tale sostegno popolare. La novità sembrerebbe consistere non tanto negli ingredienti di quella empatia, nel suo essere o meno ‘di sinistra’ – ovvero nel suo esprimere più o meno ‘una mentalità socialista’ – bensì nel suo mirare a cambiamenti tangibili. La differenza sarebbe dunque tra una sinistra che vuole vincere (‘vincere’ è considerato un concetto in pratica equivalente ai cambiamenti tangibili) , rispetto ad una sinistra che si appaga di esistere. Contano, dunque, i risultati.

In apparenza, parrebbe una tautologia, visto che nessun successo è semplice da certificare senza risultati. In realtà si tratta di un giudizio storico, ed anche assai impegnativo. Una intera storia della sinistra italiana viene giudicata, in un certo senso, come un fenomeno abbastanza indifferente ai risultati, almeno in termini di potere politico; unicamente appagata dall’esistere. E probabilmente si coglie un punto di sostanziale verità, visto che per una lunga fase, direi esplicitamente, l’esistere ed il crescere in un contesto democratico fu il senso principale della storia della sinistra italiana. E si potrebbe anche sostenere che si giunse ad un primo esito di quella storia, in fondo, con l’idea del compromesso storico e il successivo, in buona misura ancora misterioso, assassinio del principale interlocutore di quella strategia: Aldo Moro (per inciso, tutte le volte che apprendo la notizia di un qualche gesto terroristico in Europa, mi vien da pensare alle molte centinaia di morti ammazzati nella nostra storia del terrore di quei decenni passati. E mi viene da pensare alla strana incredibile accelerazione con la quale quel decennio o due si sono stampati nella nostra memoria; pare quasi che la storia sia un film che talora salta in fretta intere epoche, per inoltrarsi con assoluta lentezza in epoche di nuovi presunti paradigmi. Curve dello spazio e del tempo che diventano anche curve della intelligenza). Dopodiché il mondo cambiò e divenne in qualche modo intuibile che un filo si era spezzato. Dico tutto questo in vertiginosa sintesi, per rammentare l’entità dei fenomeni che sembrano sottesi a quella ricostruzione; e anche per ricordare che essa, ma in modo assai disinvolto, parte da una verità, che rimanda in pratica a tutto il secolo scorso. Il tema, in sostanza, è assai più impegnativo di quanto non si immagini.

Mi interessa però ragionare un po’ su quel concetto di empatia. Letteralmente, empatia non significa affatto semplicisticamente “approvazione” o “sostegno”. Significa (Treccani): “Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”. Dunque, empatia è il risultato di una complessa convergenza sino ad una presunta identificazione – sia pure con linguaggi anche molto diversi – di due psicologie ed anche di due culture. Perché vi sia reciproca empatia tra un partito politico e la parte di popolo che lo sostiene, occorre una convergenza tra i fatti, i pensieri e le esperienze delle esistenze di entrambi.

Facciamo un esempio. Se una ripresa del PIL dello 0,3 per cento avviene dopo quasi un decennio nel quale esso era calato di circa il 10 per cento, significa che i fatti ed i pensieri della gente comune registrano che si è del 9,7 per cento più poveri del passato (in realtà, a seconda di quale gente si parla, per il noto fenomeno dell’ineguaglianza, la percentuale è anche molto superiore, sino al 100 per cento). Se dunque quella interruzione della caduta si pretende che veicoli un messaggio di compiacimento per la propria ritrovata condizione, non c’è alcuna empatia possibile con il proprio popolo. Sono due linguaggi diversi, letteralmente la condizione opposta dell’empatia, ovvero l’impossibilità manifesta di “comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”.

È un esempio troppo semplicistico? Probabilmente sì, dato che il cervello delle persone non funziona come un termometro, capisce le sfumature, si interroga sulle tendenze, si preoccupa dei fenomeni relativi, arriva talora ad intendere che se in un giorno il tempo si presenta incerto, si può magari compiacersi che sia terminata la tempesta.

Ma allora l’empatia tra un partito e il popolo che lo sostiene, davvero deve essere considerata alla stregua di una convergenza di culture. E la questione principale è quella di come rappresentare la almeno tendenziale convergenza di quelle varie culture: ovvero (secondo Antonio Gramsci) quella diffusa degli “uomini comuni”, il ruolo “coesivo” ed “inventivo” dei gruppi dirigenti nazionali, il ruolo di un “elemento medio” che “metta a contatto, non solo fisico ma morale e intellettuale” gli altri due fattori. In sostanza, per Gramsci non esisteva il problema dell’empatia di un popolo, il problema era almeno reciproco, tra dirigenti e diretti.

Gramsci partiva, in quelle pagine delle “Note sul Machiavelli” (pagg. 18-26), dal principio che “esistono governanti e governati” (i partiti, diceva, “possono presentarsi sotto i nomi più diversi, anche quello di anti partiti e di ‘negazione dei partiti’; in realtà anche i cosiddetti ‘individualisti’ sono uomini di partito, solo che vorrebbero essere ‘capi partito’ per grazia di Dio o dell’imbecillità di chi li segue”). Il processo di formazione di una “empatia” (che Gramsci avrebbe forse chiamato anche “disciplina”) è, dunque, un congegno complesso, che davvero non si riduce alla “approvazione” dei governati. Occorre una convergenza di linguaggi, ovviamente, ed occorre che la cultura dei “governanti” produca un effetto di sistemazione, di natura inventiva, degli stessi fenomeni che la gente comune sperimenta nelle proprie esistenze; ed occorre anche che i dirigenti diffusi, locali, di un partito provochino una integrazione “morale e intellettuale” tra quei due mondi.

L’empatia non è “simpatia” (sempre Treccani: “Sentimento di inclinazione e attrazione istintiva verso persone, cose e idee”). E ogni ragionamento sull’empatia si deve obbligatoriamente misurare con la capacità dei dirigenti di produrre inventiva nel dare sistemazione al complesso delle domande e delle impressioni che si producono nella esistenza delle persone comuni.

Oggi il mondo è sicuramente complicato. Eppure, sarebbe abbastanza fuorviante ritenere che la storia passata della sinistra sia stata semplice (neppure è così semplice ragionare di ‘vocazioni minoritarie’, se si ricordano i risultati elettorali del 1984). Sembra che la grande differenza di oggi stia altrove: i processi della mondializzazione e della finanziarizzazione delle economie e la riorganizzazione dei poteri statali al livello europeo, e poi la crisi di entrambi. In un certo senso, il campo di gioco, che è cambiato ed è entrato in crisi.

Quanto la ‘inventiva’ dei dirigenti riesce a dar conto di queste nuove regole del gioco, ovvero di questa nuova dimensione della statualità?

Io penso che l’idea di fondo espressa da Renzi nella sua intervista, e nella esperienza di governo di questi mesi, non sia priva di senso. In un certo modo, ci si è proposti di dimostrare che c’è uno spazio reale di cambiamento, se si mette in campo la determinazione a liquidare vischiosità e burocratismi nelle nostre strutture pubbliche ed anche corporativismi nel nostri assetti sociali. Mi pare invece che nascano grandi difficoltà, soprattutto nel periodo medio e lungo, quando si pretende che questo ‘carburante’ sia sufficiente a tirar fuori il paese dalle secche nelle quali è impantanato, senza basarsi anche su una nuova lettura e su una riforma di quella statualità. E il problema dei problemi nasce quando si pretende che il popolo a cui ci si riferisce si adegui alla nuova lezione, ovvero si accontenti di mettere la ‘simpatia’ al posto della ‘empatia’.
I rischi sono tre, direi in crescendo. Talora l’enfasi sull’efficienza può essere illusoria e strumentale: ad esempio sembra un po’ illusorio risolvere con i presidi i problemi della efficienza del sistema educativo, oppure sembra un bel po’ strumentale ritenere che premiare le imprese che fanno assunzioni piene in cambio di premi che durano tre anni risolva in modo duraturo la questione dei livelli di disoccupazione giovanile. Il secondo rischio consiste nell’eludere problemi di fondo di una statualità europea che non mira ad integrare le nazioni, ma di fatto le subordina semplicemente agli interessi più forti. Ma il terzo rischio, che forse è il maggiore, è che non fornire al proprio popolo il quadro intero dei problemi del paese, ma ridurre tutto, in fondo, alla fiducia ad un nuovo gruppo dirigente del paese, è davvero come esimersi dal lavoro serio dell’empatia, e pensare di surrogarlo chiedendo alla gente simpatia, o, se si vuole, di partecipare a scommesse improbabili.

La sinistra europea è ancora oggi assai lontana dal tentare un ragionamento sulla condizione dell’Europa. La contraddizione di un meccanismo nel quale la politica economica è stata fissata in un programma indiscutibile di austerità, di rango addirittura costituzionale da noi; il non voler vedere che sicuramente è anche questo che rende persistente la depressione dell’economia; il non voler ammettere che la questione è anche più grave, dato che le aree più forti dell’Europa in sostanza si giovano di un meccanismo di ‘manipolazione valutaria’ che perpetua in modo esagerato la loro competitività (vedi tra queste traduzioni l’analisi della situazione tedesca offerta da Ben Bernanke), mettendo tutto l’onere del riequilibrio sulle spalle dei paesi creditori, e che di conseguenza la scelta coraggiosa della integrazione europea rischia di diventare la copertura del massimo degli egoismi; tutti questi sono gli esempi principali di difficoltà che sono destinate a durare. Non leggere questi problemi equivale a non avere e a non dare al proprio popolo un’idea della partita effettivamente aperta. Non a caso la questione greca è stata trattata dalle principali sinistre europee, diciamo così, con il minimo dell’empatia, quasi con fastidio.

Sarebbe ingiusto ritenere che tutte queste contraddizioni si possano sbrogliare con facilità (a me dà anche un po’ fastidio che non ci sia nessuno disponibile a riconoscere che non sono certo problemi nati oggi). Non è così, in ogni caso ripensare l’Europa sarà un processo lungo e difficile. Ma l’Europa non è un ‘settore’ della politica nazionale, è ormai il luogo principale del nostro stesso Stato nazionale. Per questo la pretesa di sostituire il processo di costruzione di una comune cultura tra un partito e il suo popolo, quando quel partito continua ad essere sprovvisto di una lettura, diciamo così, di una parte del proprio Stato, fa impressione.

Il racconto che stiamo ascoltando, come dicevo in un intervento precedente, è di tipo ‘magico’. Usare il carburante del riformare, dello sveltire e del rottamare, indovinare e imboccare la strada della inversione di tendenza, portare tutto questo in dote ad una Europa che non si sa come riformare. E per farlo anzitutto assicurare un indiscusso margine di manovra ai governanti, nella forma di un premio al carisma. Abbiamo alle spalle una decina d’anni nei quali è cambiato il nostro paesaggio sociale. Quale può essere il prezzo di altri svariati anni di stagnazione? Quale prezzo, qualora rapidamente si dovesse constatare l’esiguità di una ripresa che non modifica i dati di fondo della nostra condizione?

Si potrebbe utilizzare quest’altra citazione di Antonio Gramsci: “A proposito della ‘boria’ del partito, si può dire che essa è peggiore della ‘boria delle nazioni’ di cui parla il Vico. Parchè? Perché una nazione non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre possibile …. trovare che l’esistenza è piena di destino e di significato. Invece un partito può non esistere per forza propria.”

Una storia dal vivo dell’eccezionalismo americano. Aprile 2015

z 641Il sottotitolo di questo bel libro è “Viaggi senza John” e John è Steinbeck, che nel 1960 intraprese – su un camper che chiamò Rocinante e con il suo cagnetto Charley, ma anche con qualche interruzione vacanziera con la moglie, che ogni tanto lo soccorreva nelle località più attraenti – un lungo viaggio dentro gli Stati Uniti, dal New England, dove abitava, a nord, quindi attraverso la regione dei laghi, poi attraversando tutti gli Stati al confine col Canada, scendendo sulla costa del Pacifico sino a Los Angeles, e infine riattraversando l’intero paese dal lato degli Stati meridionali. L’idea di Geert Max è stata, cinquanta anni dopo, nel 2010, di ripetere quel viaggio, ma il dialogo con il libro Steinbeck di solito non è molto più che un pretesto. Semmai il dialogo è con l’America degli anni ’60 (evento di partenza prescelto: il famoso confronto televisivo tra Kennedy e Nixon, passato alla storia perché viene considerata la prima occasione nella quale la televisione esercitò il suo immenso potere, in quel caso ai danni di un Nixon stanco e sudaticcio); ma in generale l’autore ci conduce per un sentiero assai più lungo, e interessante, che è insieme geografico, storico e socio economico. Se c’è un filo rosso di questo viaggio, direi, è quello delle ragioni e dei pretesti dell’ “eccezionalismo” americano. E l’autore sembra dialogare forse più con Alexis Tocqueville che con Steinbeck.

Si tratta, come si intuisce, di una complicata architettura multipla. In essa si salta in continuazione di palo in frasca, dalla personale storia letteraria di Steinbeck a quella della Guerra Civile e delle meno note ragioni dell’altra guerra minore del 1812, allorquando Stati Uniti e Canada presero due strade diverse; dal crollo incredibile di città come Detroit – che aveva 2 milioni di abitanti all’epoca del viaggio di Steinbeck, e 700 mila all’epoca del viaggio di Geert Max – all’impressionante fenomeno sociale della migrazione della popolazione nera dal sud alle grandi città del nord (che si prolungò ben dopo la fine della Guerra Civile, in fondo perché le speranze che la sua conclusione aveva prodotto al Sud non vennero mantenute, ma fu forse più decisiva della Guerra stessa, perché cambiò la cultura, la lingua, il modo di vestire, di cantare e di ballare …. Si consideri che nel 1910 viveva al nord il 10% della popolazione nera, nel 1970 era diventato quasi la metà); dagli episodi inauditi della storia della persecuzione razziale (tra il 1882 ed il 1959 furono linciati 3.446 neri, 154 donne, due terzi dei quali negli Stati meridionali), al clima di formidabile conferma delle aspirazioni di una società della “classe media” che seguì alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con l’impennata demografica del baby-boom e con una prolungata tendenza alla maggiore eguaglianza sociale, che in fondo fornì la base alla modernità americana di quei decenni ed a tutta la laicità ed al senso di libertà che l’America tornò a rappresentare per il mondo intero (salvo riperderle nei vari episodi di vera e propria incomprensione imperiale del mondo, dal Vietnam all’America centrale all’Iraq, e riacquistarle nella favola del “primo Presidente di colore” Barack Obama). E, in mezzo a tutto questo, la rivisitazione di personaggi dell’intellettualità e della politica americana, come Sinclair Lewis oppure Theodor Roosevelt e il successivo marito della sua nipote prediletta, Franklin Delano, riscoperti nei contesti dei luoghi dove erano nati ed avevano vissuto.

Un libro che si vorrebbe studiare, in conclusione, perché ogni due pagine scoperchia intuizioni e notizie che aprono l’intelligenza, ma che non si può studiare, per la natura avvincente del racconto e la quantità smisurata di storie che racconta. E, alla fine, si resta con la sensazione che l’ “eccezionalismo” americano sia in fondo questo: una ricchezza difficilmente esprimibile di opportunità, bastante a superare tutte le sfide, salvo la difficoltà, in tanta ricchezza, di capirsi ed anche la difficoltà, talora ancora più maligna, a capire le storie degli altri.

 

 

Un’altra dose di economia magica? Marzo 2015

z 539In questi ultimi mesi il dibattito economico – quello che leggiamo sulle traduzioni di questo blog, che hanno per oggetto il mondo e gli Stati Uniti in particolare – si è comprensibilmente spostato su temi nuovi:

  • la ripresa americana, evidente nei dati della produzione e della disoccupazione, ma meno evidente nei dati più generali della occupazione (la percentuale dei disoccupati con l’aggiunta degli ‘scarsamente occupati’ dei lavori a tempo parziale e dei “non-occupati involontari”, non è scesa di molto, come spiega Ed Dolan nel suo articolo del 10 gennaio 2015, ed i salari non sono affatto saliti in modo significativo) ed anche in considerazione del dubbio (che Krugman ha cominciato a segnalare, vedi posts del 6 e 7 febbraio 2015) dei possibili ‘travasi’ di tale ripresa, tramite l’apprezzamento del dollaro ;
  • l’efficacia maggiore o minore della ‘facilitazione quantitativa’ (in parte indirettamente segnalata dalla perdurante recessione di larga parte dell’Europa, dove la manovra monetaria parte soltanto in questi giorni; in parte limitata dalle prove molteplici di andamenti ben diversi, in molte esperienze storiche ed anche recenti, della base monetaria e della moneta effettivamente utilizzata – si veda a proposito il post di Krugman del 26 febbraio);
  • la natura del pericolo deflattivo europeo (vedi di Robert Skidelsky “Il paradosso del prezzo”, del 25 febbraio 2015; in termini più ampi, due studi dell’anno passato: la relazione di Krugman al convegno della BCE in Portogallo del maggio 2014, il discorso di Mario Draghi al simposio di Jackson Hole dell’agosto del 2014);
  • varie riflessioni ‘postume’ sull’austerità, ovvero sul danno accertato del cosiddetto ‘esperimento naturale’ europeo (in particolare si veda lo studio di Simon Wren-Lewis del 19 febbraio 2015 ed anche il suo post dell’8 febbraio 2015; i post di Krugman del 17 febbraio 2015, del 22 febbraio 2015, del 30 gennaio 2015, del 21 gennaio 2015; l’articolo del 20 gennaio 2015 di Joseph Stiglitz; il post di Francesco Saraceno del 21 gennaio 2015).
  • e naturalmente la Grecia, le cui vicende sono state seguite sia da Krugman che da Wren-Lewis e da Stiglitz con una partecipazione che non ha confronto con il ‘distacco’ del centro-sinistra europeo.

Riesce, dunque, abbastanza naturale tentare qualche riflessione tra questa evoluzione della discussione economica in questi ambienti che seguiamo in modo abbastanza sistematico e quello che potremmo definire come il ‘senso comune’ economico che risulta dal dibattito nazionale, in specie delle varie espressioni del centro-sinistra, ma anche semplicemente dalle cronache dei giornali (“macromedia”, come la chiama Wren-Lewis). E’ un esercizio che faccio ormai con una frequenza bi/trimestrale, sia perché mi pare l’unico modo per dire qualcosa che non sfidi la presunzione, sia perché mi torna utile per riferirmi – come ho fatto sopra – a quelli che mi sembrano i contributi più significativi comparsi sul blog. Direi che il risultato di questa riflessione, ai primi di marzo del 2015, è sconfortante come quelli precedenti, pur trattandosi di uno sconforto, diciamo così, in evoluzione.

Teniamo a mente cosa fu quel senso comune negli anni precedenti della austerità conclamata. Il meglio che si può dire è che l’austerità venne in sostanza ‘registrata’ dalla sinistra italiana ed europea: un dato meramente oggettivo, un pensiero unico senza alternative. Quando essa cominciò a produrre i suoi esiti disastrosi, si cominciò a procedere ‘per aggiunta’: l’austerità non aveva avuto alternative, ma a quel punto bisognava cominciare a pensare ‘anche’ ad altro. Quel procedimento logico, naturalmente, chiudeva ogni varco ad una lettura macroeconomica sostanziale; si trattava in pratica di procedere ad un aggiornamento, di passare ad un altro capitolo, sarebbe stata una perdita di tempo ragionare meglio del fallimento di quello precedente. Non mi pare di aver mai avuto la possibilità di leggere niente, da noi, che somigliasse ad un interesse minimo nei confronti dei sensazionali bassi livelli dei tassi di interesse e della bassa inflazione – ovvero il tema centrale, in questi anni, degli economisti keynesiani. L’espressione ‘trappola di liquidità’ ha continuato a restare confinata in un’area di concetti stravaganti o sottoposti a censura (mesi orsono, per la prima ed unica volta, il principale quotidiano nazionale di orientamento progressista ha spiegato il significato di quel misterioso neologismo). Se poi ci si riflette anche superficialmente, il fatto che praticamente nessuno, a proposito della vicenda greca, abbia voluto dare il minimo rilievo al fatto che la crisi sociale al 2015 di quel paese risulta essere varie volte superiore a quella che era stata prevista nei programmi della Troika, è assolutamente significativo. Come a dire, l’irrilevanza delle cose reali.

In pratica, gli effetti devastanti dell’austerità, per il centro-sinistra europeo di opposizione e di governo, sono stati l’epoca di una convivenza cieca con una realtà sulla quale non si vedeva modo di operare e si preferiva non interpretare. Per alcuni anni si è campati di ‘luci in fondo al tunnel’ di continuo posticipate. E naturalmente, tutto ciò è dipeso anche dall’agire per la prima volta dal dopoguerra, in un contesto di gravissima crisi, con una sovranità nazionale ridimensionata e con istituzioni europee, dal punto di vista della democrazia, rudimentali.

Il punto ora è cercar di comprendere in quale direzione stia evolvendo questo ‘senso comune macroeconomico’, a fronte dei supposti primi cenni di ripresa. C’è un primo aspetto che appare discriminante: quanto si vorranno leggere i fenomeni nel loro effettivo significato di medio e lungo periodo, ovvero quanto si insisterà a leggerli secondo lo schema ‘magico’ che accompagnò le passate speranze negli effetti espansivi dell’austerità.

Il clima di questi giorni non è affatto incoraggiante, a partire dalla definizione stessa di “ripresa”. Si potrebbe proporre questo paragone: immaginiamo la situazione di un individuo che sia precipitato in un burrone discretamente scosceso: è verosimile che egli finisca con l’arrestarsi, nella sua caduta, contro un qualche arbusto che interrompe il precipizio. Cosa conta, a quel punto? Un individuo di normale buon senso, giudicherà che il problema è rappresentato dalle ossa che nel frattempo si è rotto e dal percorso impervio per risalire al punto in cui iniziò la disavventura. Ebbene, pare invece sia cominciato un periodo nel quale l’idea che prende campo in modo indiscusso è la seguente: la ripresa è la fine di un’epoca e di un incubo, la ripresa è il nuovo paradigma. Siamo oltre.

Questo modo di concepire la mera interruzione di un precipizio con un ritorno ‘a quo’, ha varie conseguenze, oltre a quella elementare di trascurare che con riprese di questa entità ci vorrà almeno una decina di anni per recuperare il differenziale di produzione che ci separa dagli anni precedenti la crisi finanziaria del 2008.

La prima conseguenza, mi pare, è che il pericolo della deflazione diventa incomprensibile. Come ha notato Krugman nel post “Panico, velocità e lentezza” del 7 gennaio 2015, il panico per la deflazione europea è la reazione sbagliata, giacché dal primo trimestre del 2008 l’inflazione europea è stata attorno all’obbiettivo del 2 per cento solo nel primo anno e l’inflazione sostanziale (al netto dei prezzi dell’energia e di altri beni volatili) si è gradualmente stabilizzata attorno e sotto l’1 per cento (“si dovrebbe aver avuto reazioni di panico per un periodo prolungato”). L’idea implicita è che l’Europa non seguirà la strada del Giappone, anche se sembra un’idea che non è sorretta da niente. E, in fondo, al ‘decennio perduto’ ci siamo ormai vicini.

La seconda conseguenza è che ancora una volta rischiano di tornare ad essere invisibili i problemi di una riforma dell’Europa e di una nuova politica economica europea. L’enfasi sul “super” Presidente della BCE, va di pari passo con l’affievolimento della attenzione sul ruolo delle istituzioni europee. Ad esempio, non è sorprendente che gli interrogativi posti da Frances Coppola sul carattere davvero minimo del piano straordinario di investimenti annunciato da Juncker (vedi “I CDO di Juncker”, del 7 dicembre 2014), non abbiano avuto alcuna eco, da parte della sinistra europea? E’ possibile che questa poderosa svolta si riduca ad un meccanismo di assicurazione degli investimenti privati, provocato da pochi soldi pubblici che si spera di non utilizzare e che in gran parte vengono sottratti a programmi già esistenti?

Una terza conseguenza mi pare sia quella che deriva dal fatto che – nel contesto di una nuova letale dose di economia “magica” – resteranno invisibili i temi di una drammaticamente necessaria maggiore equità. L’ineguaglianza dei redditi è enormemente precipitata in questi anni di povertà che si diffonde, ma nessuno dei suoi capitoli trova sostenitori espliciti. Perché, in fondo, chi ha tempo, una volta che ci si è fermati in fondo a un precipizio e si è deciso che tutto sta ricominciando nel migliore dei modi, di curarsi degli aspetti più miserevoli della propria situazione?

Allora, il piccolo miracolo di Syriza è stato quello di raccontare alle classi dirigenti europee che in Grecia si ragiona di fornire alimenti, assistenza sanitaria e una soglia gratuita di elettricità a qualche milione di individui.

 

PS – In qualche modo per reazione ad un nuovo periodo di ‘magie economiche’ del senso comune – per le quali la notizia di un giorno soppianta la riflessione su quello che sta accadendo da anni e che accadrà per anni – il libro in copertina è “Cina, una storia millenaria”, del giovane storico tedesco Kai Vogelsang. 

 

 

 Perché ammettere una crisi della domanda è così ostico? Settembre 2014

 

z 203Ancora alcune mie impressioni sul tema del rapporto tra ricerca economica e dibattito politico, in particolare il nostro. Chi legge regolarmente gli scritti di Krugman (in particolare, ma anche di altri) avrà notato quanto questo tema ricorra, in modo continuo e quasi ossessivo. Pare che su tutto incomba questo pensiero: perché, e come è accaduto che la politica nel suo complesso sia stata così refrattaria ad intendere il problema della crisi della domanda aggregata? La questione investe tutta la politica, anche se il fronte del “diniego” è soprattutto la destra americana ed i gruppi dirigenti europei, ma le sfumature sono più complesse e, con il tempo, si evolvono in relazione alle acquisizioni della ricerca economica.

Mi pare si possano, retrospettivamente, distinguere alcuni principali periodi.

Negli Stati Uniti, all’indomani della crisi finanziaria globale, i temi furono soprattutto inerenti alla politica economica della Amministrazione americana, alla adeguatezza o meno delle misure di sostegno all’economia. Nei giorni e mesi della esplosione della crisi – si era al trapasso tra la amministrazione repubblicana e quella di Obama – si imponevano le emergenze dei salvataggi, e se un tema più di fondo si annunciava era sostanzialmente quello della constatazione del fallimento della ideologia delle sorti magnifiche del capitalismo dominato dalla finanza. Ma subito dopo, le prime scelte di Obama, agli inizi del 2009, riguardarono le dimensioni dello “stimulus”. Si ricorderà come alcuni economisti – non molti – furono subito critici sulle scelte proposte dalla Amministrazione, peraltro in non poca misura ridotte per la opposizione repubblicana. Interventi più radicali venivano chiesti da Krugman, da Stiglitz e da Christina Romer, contro la posizione assai più riduttiva di Geithner e dello stesso Summers. Come ricorda Krugman nella recensione del recente libro di Geithner (“Ha superato la prova?”, 10 luglio 2014) erano già allora aperte due letture della crisi: quella minimalista la faceva coincidere, in fondo, con i salvataggi e con il superamento del collasso nel settore creditizio; l’altra, che ne percepiva il carattere molto più vasto. In Europa prevaleva in fondo l’idea di dover solo pagare un prezzo alle ‘esagerazioni’ delle bolle americane, sino al punto che la BCE di Trichet si avventurava in una pazzesca decisione di aumento dei tassi. Una notevole e solitaria eccezione, in Europa, fu Tommaso Padoa Schioppa, col suo intervento qua tradotto del febbraio del 2010 all’Università di Louvain. Ma, in conclusione, in questo primo anno e mezzo della crisi, lo sguardo è rivolto al passato ed al presente quotidiano, sono pochi ed abbastanza inascoltati quelli che intuiscono che, oltre al cospicuo infortunio, si sia giunti ad un passaggio di epoca.

In effetti, con il 2010, si entra in una fase nella quale, in qualche modo suturata la ferita della crisi finanziaria ed apparentemente superata la recessione, si tratta fondamentalmente di osservare se il sisma abbia esaurito i suoi effetti, o se la trasmissione di essi dalla finanza all’economia reale non abbia messo a nudo un quadro molto più fosco. Il 2010 è un anno cruciale, da due punti di vista. Inizia un periodo nel quale l’osservazione degli andamenti dei tassi di interesse e dell’inflazione dovrebbe rappresentare e dar conto della fondatezza di una di quelle due letture; la destra economica e politica americana comincia a strepitare sulla imminenza di una inflazione fuori controllo e di tassi di interesse in forte crescita. Chi, al contrario, aveva individuato i chiari prodromi di una lunga crisi di tipo giapponese, si aspetta l’opposto; ha ormai compreso tutti i sintomi di una “trappola di liquidità”. E l’esito di questo “esperimento naturale” è di una chiarezza assoluta: l’inflazione non si accende ed i tassi di interesse restano per anni ai minimi storici. Ma il secondo evento del 2010 è la crisi greca e più in generale la crisi dei debiti sovrani in vari paesi europei. L’Europa si colloca al centro della scena, e con la sua recessione che si rinnova, viene offerto un pretesto anche oltreoceano per fingere di non vedere il chiaro responso dell’ “esperimento naturale”. La possibilità di interpretare la crisi della domanda – di diagnosticarla in termini economici e, ancora più difficile, di tradurla in termini politici – anziché avvicinarsi, sembra allontanarsi.

E’ cruciale, a quel punto, la spiegazione che si dà della crisi del debito europea. Se la si interpreta secondo la lettura tedesca, essa è la manifestazione pura e semplice di un fallimento di politiche permissive della finanza pubblica, in Grecia come in Spagna, Irlanda, Portogallo ed Italia. L’unico rimedio è una dura politica di austerità, che in Europa viene messa in atto quasi con un consenso generale. Ci sarebbe un seconda interpretazione, che vari economisti segnalano. Si possono vedere – tra i testi tradotti – l’europeo DeGrauwe e, in particolare, il testo della conferenza di Krugman al FMI del 27 ottobre 2013 “Regimi valutari, flussi di capitali e crisi”, che è la lettura più riflettuta e teorica di quella spiegazione. In Europa la crisi non è derivata dal debito (la Spagna e l’Irlanda erano praticamente virtuose, l’Italia da anni stava recuperando un rapporto tra debito e PIL più contenuto), è derivata dal “blocco improvviso” dei flussi dei capitali, soprattutto tedeschi, dei primi anni dell’euro. La crisi è derivata dal fatto che la moneta unica, senza una banca centrale messa nelle condizioni di presidiarla e senza una politica economica unitaria, ha aperto il varco alla crisi di fiducia degli investitori. Ancora una volta, come si si trattasse di un oggetto che inesorabilmente la corrente riporta lontano quando pare avvicinarsi, la natura epocale della crisi si sfrangia in letture improprie o secondarie. L’Europa si lancia all’inseguimento della “fata della fiducia”. In Italia e in Europa il termine “trappola di liquidità” è sottoposto a censura e iniziano i danni dell’austerità, anch’essi sostanzialmente mistificati e sino al possibile censurati, in attesa della “luce in fondo al tunnel”.

Ma più che ci si avvicina al quinto anno della “luce in fondo al tunnel”, più che il malessere per letture che non stanno in piedi si diffonde. Anche perché quel timore che Krugman con sorpresa aveva constatato non avverarsi nella prima fase, balza in primo piano sulla scena europea. Come si ricorderà, in alcune occasioni Krugman aveva ammesso di essere rimasto agli inizi sorpreso dal fatto che non si fosse apertamente manifestato un fenomeno deflattivo. Più di recente, però, esso si era annunciato nella forma di diffusi episodi di troppo bassa inflazione, non a caso a partire dai paesi europei in sofferenza. Probabilmente non a caso, nel maggio del 2014, Mario Draghi invitò Krugman a tenere una relazione ad una conferenza della BCE in Portogallo, che è qua tradotta. Dopo di che è nel testo del discorso di Mario Draghi a Jackson Hole del 22 agosto scorso che si può ricostruire l’onesto decorso della sua sempre più viva apprensione. Per la prima volta, con quel discorso, un dirigente europeo di primissimo piano riconosce pienamente il carattere di una, dispiegata ormai, crisi da domanda. Negli stessi mesi la politica europea – passata nel frattempo dall’appuntamento delle elezioni del Parlamento e dalla nomina del nuovo Presidente della Commissione – opera un qualche tentativo di sintonizzarsi su ciò che non sembra più negabile. Rilevante, in questa primavera-estate del 2014, è anche il fatto che – nel mentre l’Europa, a forza di inseguire gli eventi, è sempre più nel panico per il disastroso ritardo sulle sue responsabilità – negli Stati Uniti molti economisti ormai guardano assai più in avanti. Là si discute, con una situazione migliore, di stagnazione secolare e di crescente ineguaglianza; qua si cercano le parole per spiegare un ritardo di anni.

Il problema serio è che, se gli alibi via via si vengono riducendo, non è detto che si stia creando un sufficiente consenso attorno ad una nuova politica, e neanche che le ragioni di scontro stiano diventando meno aspre. Il nodo sempre più chiaro è se gli interessi tedeschi, quali sono stati interpretati sino a questo punto, siano una base ragionevole per una politica economica europea. Particolarmente chiari, da questo punto di vista, sono i recenti interventi di Francesco Saraceno, di Simon Wren-Lewis e di Philippe Legrain (si vedano le traduzioni delll’11, del 13 e del 23 settembre). A me pare che mai, con la chiarezza di questi tre recenti interventi, si era osservato che l’architrave della competitività tedesca – che indubbiamente risiede anche nella qualità dei prodotti – sia consistito molto in un differenziale dei costi del lavoro che ha contrassegnato praticamente l’intero periodo dal 2000 al 2007. Si trattò di circa 20 punti di minore crescita salariale, che attendevano di essere corretti all’interno delle regole della moneta unica, e che invece sono stati ancora di più accentuati, successivamente, dal fatto che la Germania ha goduto di un tasso di cambio, con l’euro, estremamente favorevole rispetto a quello che sarebbe derivato dalla continuazione delle moneta nazionali (il marco tedesco si sarebbe certamente rivalutato, mentre i paesi europei in maggiore difficoltà, sarebbero certamente ricorsi a svalutazioni). Temi di questo genere, che Legrain riassume in una descrizione più generale dei problemi dell’economia tedesca, cominciano oggi ad essere proposti con maggiore chiarezza. A fronte di essi, la posizione ufficiale della Germania insiste in modo sempre più scoperto sulla inevitabilità di un complessivo allineamento dei paesi europei alle esigenze particolari di quel paese (il nuovo feticcio della “riforma strutturale”, come lo definisce Krugman). Ancora una volta, il rischio è quello che la comprensione della natura della crisi non si avvicini. E che – contro ogni buon senso – vadano avanti politiche che alla fine convergono nel rendere inemendabili gli errori economici che hanno accompagnato la moneta unica. Se la moneta unica diviene la camicia di forza obbligata che nasconde interessi nazionali che non solo non si vogliono conciliare, ma si contendono sempre più aspramente e visibilmente, i fenomeni centrifughi diverranno chiaramente inarrestabili.

C’è dunque qualcosa che rende sempre ardua la comprensione, in termini politici, della diagnosi economica di una crisi della domanda aggregata. E mentre gli economisti si affannano contro questa specie di maledizione, la politica, in particolare quella ufficiale dei partiti della sinistra cui spetterebbe una lettura sensata, pare non intenda occuparsene. Eppure, probabilmente è proprio al livello della politica, del suo linguaggio e delle sue logiche, che stanno una parte delle spiegazioni. A me pare che la sinistra dovrebbe provare a dare una risposta ad una domanda: cosa è che rende oggi così lontano il New Deal dal comune senso politico europeo (ma, certo, anche da quello statunitense)? Se ci si riflette, forse non si tratta tanto dei suoi obbiettivi e delle sue realizzazioni materiali. L’Europa, in momenti diversi, non fu meno capace di conquiste importanti, e probabilmente anche più durature. La distanza maggiore forse consiste in altro: nell’ammettere che gli Stati, nel capitalismo contemporaneo, devono saper talora scendere in campo con grande determinazione, con un molto maggiore senso del loro ruolo, nella storia in generale e nelle crisi in particolare. I nostri avanzamenti sociali sono stati conseguenza di una dialettica acuta tra le forze sociali; gli Stati spesso l’hanno registrata ed assecondata successivamente. Ma forse, due guerre mondiali ci hanno portato a ripiegare in una sorta di autocensura e di autolimitazione del ruolo degli Stati. Eppure, la crisi che viviamo nasce dalla evidente inadeguatezza delle funzioni di guida degli Stati, quando essi si limitino a registrare il potere che le forze sociali conquistano nei mercati. Keynes scrisse che l’aspetto più strano della crisi di allora, era che tutto pareva crollare, mentre le risorse – di lavoro, di imprenditorialità, di tecnica, di attrezzature – erano esattamente quelle che erano esistite sino alla vigilia della crisi. E’ difficile intendere in che modo la domanda aggregata possa come incepparsi, se non si riacquista una idea del ruolo naturale degli Stati, seppure non tramite le guerre.

(Quanto alla “copertina” di questo mese, mi limito a segnalare il bel libro di Davide Abulafia “Il grande mare”. Ho deciso di resistere un po’ meglio al mio difetto di descrivere libri che mi hanno appassionato, dando quasi l’impressione di averne qualche titolo. Lo segnalo perché è un libro che appassiona. Perché di continuo vengono in mente le immagini di quei disgraziati che in quel mare oggi annegano. E di contro vengono in mente le immagini delle straordinarie città – come Livorno, o come Salonicco, o come Alessandria d’Egitto – figlie di quel mare quando potè essere fattore di civiltà, per quella semplice ragione così simili tra loro.)

 

Come discuteremo su Piketty? Giugno 2014.

z 4Non ho informazioni su quando avremo disponibile la versione italiana de “Il capitale nel ventunesimo secolo” di Thomas Piketty. Ho resistito alla tentazione di pubblicare una mia traduzione del secondo capitolo (“Crescita: illusioni e realtà”, pagg. 72-109), che mi era sembrato significativo, diciamo così, dello spessore della ricerca dell’economista francese, e che ero tentato di contrapporre alla acida recensione di Kenneth Rogoff, con quel suo singolare ragionamento sulla ineguaglianza che si sarebbe ristretta, per effetto della industrializzazione e della minore miseria dei paesi emergenti (per non dire del suo secondo argomento, per il quale molti degli economisti critici dell’ineguaglianza, se vivessero, diciamo, nel Bengala invece che nei paesi sviluppati, farebbero parte dell’1 per cento dei più ricchi). Se ho ben capito, il solo fatto che una parte del mondo sfugga al sottosviluppo ed alla fame, ci esenterebbe dal ragionare sui dati dell’ineguaglianza crescente. Come dire che essere ammessi nel novero dei produttori di per sé è più che sufficiente a tacitare ogni dubbio sulla giustizia nella distribuzione dei redditi e ancor più della ricchezza. Ragionando così, mi sembra, il pauperismo dei primi decenni della rivoluzione industriale non sarebbe mai finito; saremmo rimasti al mondo di Dickens, il capitalismo, istituzionalmente e culturalmente, sarebbe stato una specie di nuova epoca feudale dotata di tecnologia. Ma, siccome non si possono tradurre neanche pezzi di un libro senza esserne autorizzati, mi sono dato una calmata. Prima o poi, suppongo, lo troveremo in libreria.

Ciononostante, mi chiedo quale sarà il destino della discussione sul libro di Piketty in Italia. Anche se provo a riflettere su alcune delle recensioni che lo hanno discusso all’estero e che sono tradotte in questo sito (Paul Krugman, Chris Giles del Financial Times e la replica di Piketty, Lawrence Summers, James Galbraith, Robert J. Shiller, Dani Rodrik e, appunto, Kenneth Rogoff), mi viene un dubbio. Suppongo che per far diventare un libro, in fondo, di teoria economica (Summers esplicitamente lo candida al prossimo Nobel) un best seller, debbano congiungersi due fattori: oltre il valore storico della ricerca che contiene, il fatto che essa risponda ad una curiosità viva dell’opinione pubblica. Il secondo aspetto non mi pare affatto scontato. Ora, non che la crisi non abbia provocato dubbi molto vasti sulla razionalità della svolta liberista dei decenni passati, o sulla ricetta della austerità. In effetti viviamo oggi in un periodo storico nel quale i dubbi sul modello prevalente di capitalismo sono ampi. Ma non sufficienti, mi pare, a far percepire diffusamente il problema della crescente ineguaglianza come un nodo effettivamente aggredibile, e neanche forse come il punto cruciale. Sarei tentato di dire che la difficoltà proviene, questa volta, da un ritardo della coscienza politica sulla analisi e sulla ricerca, come se i temi analizzati da Piketty chiedessero un ‘salto’ alla politica che non si capisce ancora bene da dove dovrebbe prendere le mosse.

Esaminiamo due aspetti. E’ interessante il fatto che molte delle recensioni che ho tradotto comincino dall’assunto sulla serietà ed sulla importanza della ricerca di Piketty, per poi passare piuttosto frettolosamente alla parte dei ‘rimedi’, spesso prendendo le distanze dalla scarsa praticabilità della proposta dell’economista francese di una tassa globale sulla ricchezza. Se non sono tradito dalle mie simpatie, direi che solo Krugman si intrattiene in modo ampio ed argomentato sul valore culturale e scientifico della analisi di Piketty; quasi tutti gli altri si occupano principalmente delle possibili terapie. Così è nel caso di Galbraith, di Shiller, ed anche di Summers, nonché naturalmente di Rogoff.

Ora, Piketty stesso – non saprei dire se facendo la cosa giusta – mette in dubbio la praticabilità della sua soluzione. Ma in che senso essa sarebbe scarsamente realistica? Su questo punto la risposta è unanime: perché appare illusorio ipotizzare che si possa ottenere un livello adeguato di collaborazione internazionale. Prima ancora della difficoltà a mettere tasse sulle grandi ricchezze, insomma, sarebbe difficile, evitare le condotte differenziate che garantiscono l’eternità dei ‘paradisi fiscali’ della comoda fiscalità globale. Si deve notare, però, che è lo stesso Piketty – in tutto il suo ragionamento, compresa la parte della storia dei secoli passati – a sottolineare come la ‘conoscibilità’ della ricchezza sia il problema principale dal punto di vista della democrazia. Dunque, la difficoltà, prima ancora che riguardare il livello della tassazione, riguarderebbe la ‘emersione’ del fenomeno nella sua interezza. Così pare che ci sia un quasi consenso, ad eccezione di Krugman, sul fatto che una sfida democratica sulla conoscibilità della ricchezza, o sul controllo dei suoi movimenti, sia irrealistica. Mi limito a constatarlo: concettualmente è un po’ singolare che una tesi del genere sia considerata pacifica. Poiché livelli assai più significativi di tassazione di redditi e ricchezze sono stati possibili nell’epoca delle due guerre mondiali, parrebbe che senza guerre mondiali la democrazia non abbia forza sufficiente per realizzare risultati su quel terreno.

Ma da cosa può derivare tale forza? Questo è il secondo aspetto, e mi pare, se posso dire così, che il problema stia dal lato della domanda. Un regime fiscale sulle ricchezze più rigoroso, dipende da quanto i bisogni di alimentazione, di civiltà, dei diritti di genere, di istruzione, di cultura, di salute ben assistita, diventano i cardini visibili di uno sviluppo necessario e più sano. Si considerino alcuni recenti interventi di Stiglitz sulle città dei paesi emergenti e sulla società dell’apprendimento; sono pezzi di un programma globale, senza il quale non è semplice neanche capire l’urgenza di invertire i processi dell’ineguaglianza. Oppure si rifletta, dopo aver letto il bell’articolo di Joschka Fisher sul Medio Oriente, a quanto sia insensato continuare a collocare sotto due registri distinti i temi della pace e delle guerre di religione e quelli di una nuova politica economica globale; come se non fosse anzitutto l’angustia di quest’ultima a lasciare il mondo disarmato rispetto ai fanatismi che ormai modificano la geopolitica.

Ora, siamo dentro una crisi nella quale le ragioni di un forte e qualificato intervento degli Stati e della spesa pubblica per ripristinare la domanda e difendere l’occupazione, non hanno prevalso in nessun paese. A me pare chiaro che le ragioni per considerare necessario l’impegno per una minore disuguaglianza possono solo andare di pari passo con la consapevolezza di un possibile nuovo ruolo trainante delle democrazie statali nell’avanzare nuovi obbiettivi sociali e civili. Se la difesa dalla fame e dalle malattie, l’istruzione, l’ambiente e la qualità delle società non sono cardini della economia necessaria, su cosa poggia la priorità di ridurre le ineguaglianze? Se il keynesismo resta una eresia della politica economica nella emergenza della crisi e nel breve periodo, come si costruisce il bisogno di una distribuzione più equa della ricchezza nel lungo periodo?

Non a caso, lo ripeto, la recensione di Krugman mi sembra l’unica che, piuttosto che liquidare frettolosamente la rilevanza teorica del contributo dell’economista francese per concentrarsi sul tema delle terapie, le ha dato il posto centrale. Certo non dipende da disinteresse sugli aspetti concreti della politica economica. La valutazione che in queste settimane Krugman offre della Presidenza di Obama è illuminante del suo approccio alla ‘concretezza’. Egli valorizza grandemente le due grandi sfide di quella Presidenza: la riforma sanitaria e, di recente, l’approccio ‘amministrativo’, attraverso i limiti da parte dell’Agenzia della protezione ambientale alle emissioni di anidride carbonica, al grande tema del cambiamento climatico. Solo assai più modestamente i temi della riforma del sistema finanziario americano rientrano in quel pacchetto di risultati. Discutere troppo in astratto di come contrastare la crescente ineguaglianza a livello globale può non portare lontano, se non si lavora anzitutto a come ricostruire, in tempi di pace almeno relativa, il quadro degli obbiettivi più urgenti e ragionevoli. Tra i quali, forse nessuno come lui ha combattuto una battaglia intellettuale per una politica economica keynesiana; ma in completa disillusione, direi. Su questo ultimo aspetto, il suo bilancio della Amministrazione Obama resta chiaramente negativo.

Piketty, dice però Krugman, “ha trasformato il nostro discorso economico”. E, a proposito del suo appello ad una tassazione, possibilmente globale, delle ricchezze “in modo da contenere il crescente potere della ricchezza ereditaria”, egli aggiunge che “(è) facile essere cinici su prospettive di questo genere. Ma certamente la diagnosi magistrale di Piketty sul punto a cui siamo e su dove ci stiamo dirigendo rende una cosa del genere considerevolmente più probabile.” Il punto è qua: un dibattito onesto ed auspicabile sul libro dell’economista francese dovrebbe anzitutto riguardare il nostro malandato discorso economico. I tempi ed i modi della lotta e della coscienza politica dovrebbero essere considerati su un piano diverso, perché l’economista francese dà anzitutto una scossa al nostro modello di comprensione dell’economia.

Come ne discuteremo in Italia, se mai sarà tradotto?

La politica e la difficoltà di narrare – Aprile 2014

z 40Questo pensiero sarà proprio ‘sparso’, ovvero collocato come al solito senza ordine tra gli altri, ma anche un po’ sparpagliato in se stesso, essendomi venuto in mente di accostare due cose molto lontane e diverse. Da una parte, gli appunti di Krugman sulla politica statunitense – non su quella economica, ma su quella del ‘ceto’ politico, delle sue logiche vere e presunte ed anche dei modi di pensare della gente comune; e dall’altra gli appunti, risalenti al 2001, di Cesare Garboli, nel paragrafo introduttivo (“Al lettore”) del suo piccolo libro “Ricordi tristi e civili”.

Cesare Garboli verrà ricordato il prossimo 17 maggio a Lucca, nel decennale della morte. Sono tornato a rileggere quelle pagine, nel mentre avevo deciso il tema di questa nota. Mi ricordavo che avevano risuonato nella mia coscienza come un grande punto interrogativo, una allusione profonda a domande che non mi ero mai fatto e di conseguenza a spiegazioni che non mi ero mai dato. Garboli scriveva in quel libro del nostro non facilmente definibile ‘essere italiani’, e mi sorprese scoprire che non ci avevo mai pensato in precedenza. Scriveva della politica italiana negli anni dell’omicidio di Aldo Moro ed era come se mi raccontasse una storia mai sentita. La sua riflessione ebbe l’effetto, su di me almeno, del suono misterioso di un ‘gong’, di qualcosa che sembra avere il potere di riempire tutti i vuoti dintorno. Più che capirlo, ebbi la sensazione di quanti vuoti avevo dentro e dintorno.

Ma prima, brevemente, alcune brevi notazioni sul Krugman, diciamo così, politologo. Come si sa, l’economista americano scrive, sul New York Times e sul suo blog, di una infinità di cose. In questi anni sono sempre più frequenti i suoi pensieri sulla politica; pensieri molto semplici, intuizioni ribadite in modo testardo, nel proposito non dichiarato di ricostruire un po’ alla volta il paesaggio delle attitudini e delle abitudini che normalmente non si vogliono dire, non si vogliono vedere, e che però sono buona parte della sostanza della politica, della quale sono anzi praticamente una parte delle regole fondamentali. Faccio alcuni esempi.

Il primo esempio, il giornalismo politico sedicente indipendente; la sua intrinseca tendenza a collocarsi in posizione ‘mediana’, a non assumersi la responsabilità della ricerca, a risolvere l’informazione con l’accostamento delle opinioni opposte. Al punto, disse con ironia strepitosa al tempo della guerra in Iraq, che se Bush se ne fosse uscito con l’affermazione che la Terra era piatta, molti giornali avrebbero titolato il giorno seguente “Punti di vista contrastanti sulla forma del Pianeta”. Ed è evidente che a questo genere di giornalismo Krugman presta una attenzione speciale, riconoscendolo ormai come un attore potente della scena politica. La sua interna ‘economia’, la sua convenienza a stare in mezzo, diventa un po’ alla volta un potente meccanismo di semplificazione, di censura, di costruzione di paradigmi; è lì che si decide nei tempi brevi almeno una parte dell’immagine che scegliamo per il paese in cui viviamo. Stare in un ‘mezzo’ che dipende da altri,  è uno dei modi della politica, va bene per i giornali ma può valere per chiunque. E non è la stessa cosa che essere ‘equidistanti’, è peggio. E’ rinunciare all’idea che ci possa essere qualcosa che si può capire meglio. E’ abituarsi all’idea della democrazia come rappresentazione, spettacolo senza partecipazione.

Un secondo esempio: quella che Krugman definisce come la ‘asimmetria’ delle ideologie politiche della destra e della sinistra. La sinistra può compiacersi di qualche semplificazione, anche se di solito mantiene una attitudine alla ‘verificabilità’ ed, alla fine, magari, alla auto correzione. La destra – lui parla di quella contemporanea americana – ha l’ardimento del “negazionismo”, che va di pari passo con la teoria del complotto. Il cambiamento climatico è un complotto; basta una stagione un po’ più fredda per dimostrare che gli scienziati del clima sono una cospirazione. Se la riforma di Obama, dopo un avvio penoso, sta ottenendo risultati insperati, con milioni di cittadini che si sono registrati ed altri milioni che hanno oggi una assistenza che prima non avevano, per la destra questo vuol dire che i dati vengono truccati. Addirittura, nel 2012, se i sondaggi elettorali complessivamente raccontavano un imminente successo di Obama su Romney, anche quello non era altro se non un complotto. E le teorie del complotto necessitano di una spiegazione maggiore, perché comportano una preferenza del rischio di essere prima o poi smentiti, piuttosto che misurarsi con la realtà. Il che significa una supposta convenienza a vivere dentro la propria ‘bolla’ immaginaria, anziché rischiare una contaminazione di punti di vista differenti. In questo modo la politica diventa definitivamente ‘tribale’; ciò che resta da stabilire è quanto la finzione potrà essere protratta nel tempo. Per i sondaggi elettorali sarà questione di giorni, per i risultati della Obamacare di mesi, per il mancato avverarsi della inflazione fuori controllo di anni, per il cambiamento del clima di decenni.

Un terzo esempio, un po’ più complesso: il ruolo degli interessi materiali, per non dire di classe (in quest’ultimo anno, per chi non se ne fosse accorto, è avvenuto questo strano rovesciamento, che parlare di interessi di classe è divenuto consueto per i liberals americani, mentre forse è sempre meno “correct” per i socialisti europei). Come capire lo scontro sulle politiche economiche, il ‘negazionismo’ sugli effetti disastrosi delle austerità, l’ostinazione a leggere la crisi in corso come si leggevano le brevi recessioni dei decenni passati? Naturalmente, più che il tempo passa e più che diventa evidente la natura peculiare di quello che sta avvenendo. Eppure la tendenza più diffusa resta quella del mettere la testa sotto la sabbia: si vede la luce della ripresa, si fanno esorcismi sulla deflazione … Krugman da tempo insiste a ragionare del ruolo materiale degli interessi, delle Fondazioni della destra statunitense che finanziano ricerche e movimenti e dietro loro dell’interesse generale di quella parte delle classi dominanti per la quale l’importanza del fattore “r” (tassi dei rendimenti degli assets) supera di gran lunga quella del fattore “g” (tassi di crescita). Tesi che oggi esplode con i risultati delle ricerche dell’economista francese Thomas Piketty e con il grande dibattito sul ritorno del “capitalismo ereditario” (avevamo due mesi orsono tradotto qualcosa, ed illustrato alcune fondamentali tabelle al proposito). Ma, a parte questi aspetti più attinenti all’analisi economica, quello che preme è sottolineare l’interesse di Krugman a questa quotidiana, concreta ‘fisiologia’ della politica statunitense.

Non è difficile misurare la distanza tra quel suo sforzo e quanto sinora riusciamo ad esprimere qua da noi. Si tratta di un progetto lineare: l’economia è ad un nuovo versante della storia, quello che accade non si può definire in altro modo. Occorre capire quale teoria economica ci dia più strumenti per intenderlo, e questa è inevitabilmente cosa da esperti. Ma occorre anche una riforma della politica dei progressisti, partendo dal tentativo di comprendere in quali e quanti modi essa, come era inevitabile, è rimasta indietro ed ha subito lesioni da trasformazioni materiali che non è riuscita a leggere. Per questo, suppongo, il suo impegno è così ampio. E per questo non si trastulla con cinguettii (“tweet”).

Ed ora passerei, facendo un bel salto, a Cesare Garboli.

Cesare Garboli, come è noto, scriveva raramente e molto sinteticamente. Mi guardo bene dal ripercorrere le dieci paginette introduttive ai suoi “Ricordi tristi e civili”; mi pare un impresa impossibile, perché ognuno dovrebbe farlo per suo conto,  cercando di annotare i vuoti che quel risuonare gli mette in evidenza. Ma, in sostanza, Garboli ci parlava di come fosse stato possibile, all’indomani di quella primavera del 1978 del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro,  vivere quell’epilogo sanguinoso di un racconto lontano iniziato con la Liberazione – la “carneficina” degli Ambrosoli,  Rossa, Alessandrini, Terranova, Bachelet, Pio la Torre, Dalla Chiesa, con in mezzo gli 85 morti ed i 200 feriti della Stazione di Bologna, e in aggiunta il cosiddetto ‘suicidio’ di Calvi e l’areo precipitato ad Ustica.  “Ricordo gli anni del dopo-Moro come un incubo. Lo spettacolo della festosa vita italiana, in quella congiuntura così cruciale, non finiva mai di meravigliarmi. Una misteriosa parola d’ordine era schizzata da un capo all’altro della penisola, promossa non si sa da dove, per sedare e sdrammatizzare …”.

Garboli se ne dava due spiegazioni. Che l’omicidio di Moro fosse stato per gran parte dell’opinione pubblica “un sacrificio orribile, ma in qualche modo aspettato e dovuto, una passione e un rogo: il rogo in cui veniva finalmente immolato il ricatto, il sogno, l’equivoco, il richiamo, il tormentone della cosiddetta diversità comunista …” E la seconda, non meno impressionante della prima: che in fondo esistesse “un silenzioso muro fatto di curiosità umana, di comprensione spirituale e sociale, di pietà, non dico di complicità, con il terrorismo e la lotta armata”. Ma, chiariva, questa attitudine aveva una origine lontana e diversa da quei fatti, nasceva da “un’eterna protesta, ribellione, diffidenza verso lo Stato, sentito non come una federazione di cittadini, ma come una realtà punitiva, estranea e usurpatrice.” “Come se – aggiungeva – all’atavico ed ancestrale qualunquismo italiano fossero state messe in mano da qualcuno, che so, per un infausto sortilegio, anche le armi …” E questo, in fondo, oltre a spiegare la non impossibile convivenza con quella carneficina, spiegava anche, secondo lui, la precedente e successiva convivenza con le organizzazioni criminali di stampo mafioso.

Non so se quelle spiegazioni risultino convincenti per tutti, neanche so in quanti oggi le percepiscano come domande e risposte così necessarie. Ma vorrei dire in che senso a me fecero l’impressione  del riconoscimento di un vuoto che avevo dentro e dintorno, una impressione che oggi, a ripensarci, è ancora più forte. Perché è assolutamente esatto che si poté attraversare quegli anni con un senso di normalità, o meglio con il senso che la normalità consisteva nell’andare oltre. L’immagine del rogo sacrificale mi pare assolutamente precisa, se si prova ad immaginare il meccanismo potente di trasferimento alla concreta passione di persone in carne ed ossa di qualcosa d’altro, quando esse sono condannate ad immolarsi alla continuità di una astratta e più grande identità. Il nostro essere, così difettosamente ma così indispensabilmente, una nazione, ci chiamava ad andare oltre; pur senza poter  dare una spiegazione accertata e collettiva. E neanche eravamo granché sfiorati dal pensiero del prezzo che tutti i roghi del genere comportano. A pensarci, una esperienza enorme, vissuta in un vuoto di spiegazioni.

C’è un nesso tra quella esperienza e la crisi di questi anni? Forse non grande, ma c’è un tema comune ad entrambe: cosa accade quando la politica non riesce ad esprimere quella che oggi si ama definire come una narrazione, pur restando l’unico edificio nel quale siamo tenuti a coabitare? Davvero, riformare una politica di progresso non può essere un compito ‘leggero’, da affrontare con strumenti ‘leggeri’, senza un quotidiano riarmo di una intelligenza collettiva che recuperi il ritardo su quello che accade. Garboli concludeva il suo ragionamento citando due parole di Guido Ceronetti, di “intelligenza fulminea”: “L’Italia non è una patria”. Ma questi, aggiungeva, “sono pensieracci, incubi, arpie che hanno invaso la casa …”.

Pensiero economico e politica – marzo 2014

 

Capire come si evolve il rapporto tra il pensiero degli economisti e la politica, forse, non è mai stato complicato, ma anche importante, come in questi anni.

Krugman ha definito quello che è accaduto nel dibattito economico nel corso del 2013 come una clamorosa sconfitta delle posizioni conservatrici, seppure con effetti sulla politica abbastanza lievi. Tali posizioni conservatrici, potrebbero un po’ tutte – sia pure con gradi diversi di intensità – essere fatte risalire al nucleo centrale del pensiero di derivazione ‘austriaca’, secondo il quale le crisi sono sempre fenomeni che provengono da una modifica delle condizioni  ‘reali’ delle economie (per reale si intende tutto quello che deriva dall’influsso di fenomeni storici oggettivi come le grandi innovazioni tecnologiche, i cambiamenti geopolitici, oppure le guerre, le calamità naturali, i duraturi mutamenti climatici etc.). Le crisi vanno dunque assecondate, gli Stati debbono star lontani dall’idea di condizionarle con politiche attive, della spesa e del lavoro o monetarie; le crisi, come diceva Schumpeter, devono fare il loro lavoro e se la ‘pulizia’ viene pietosamente rinviata od ostacolata dalle politiche statali, in seguito  le conseguenze saranno anche più dolorose.

Si comprende il nesso tra questa originaria impostazione teorica e le dottrine dell’austerità, anche se i difensori delle politiche dell’austerità quasi mai l’hanno riconosciuto, se non altro perché la radicalità di quelle teorie uscì, per riconoscimento di quasi tutti, sconfitta dalla prova delle depressione degli anni Trenta. Ma l’austerità non è mai state suffragata da particolari prove; ci si è basati sull’idea elementare che, se le crisi sono sirene di allarme di qualcosa di profondo, la cosa migliore è affrontarle ‘purificandosi, ovvero mettendo più in ordine possibile i conti pubblici. L’unica “fiducia” degli operatori economici alla quale si è mirato è consistita nel presunto effetto rassicurante di tali correzioni. Sono abbastanza note le disfatte che hanno conosciuto nel 2012 e 2013 i pochi tentativi di corredare tali politiche di sensate spiegazioni economiche (le teorie della ‘austerità espansiva’ smentite dalla analisi sul campo dello stesso FMI, la teoria di Reinhart-Rogoff sul limite invalicabile di un rapporto debito-PIL del 90 per cento).

Il punto è che quella impostazione aveva bisogno di trovare conferma in una uscita assai più rapida dalla crisi, dato che l’austerità aveva in effetti prodotto effetti vistosi di diminuzione della spesa pubblica. E invece così non è stato; i fenomeni recessivi sono proseguiti, i livelli di disoccupazione sono rimasti elevati (in notevole misura più elevati di quanto hanno raccontato le statistiche ufficiali, che non censiscono tra i disoccupati coloro che non cercano più attivamente il posto di lavoro che non troverebbero), il PIL è calato dappertutto per un periodo assai più lungo di quello che si prevedesse. E se il PIL diminuisce più del debito, il  peso del debito non migliora ma peggiora. Dunque, l’austerità non ha incontrato quella “fata della fiducia” che si presumeva incontrasse; gli effetti non ci sono stati.

Questa sintesi è un po’ più semplice di quello che è però accaduto. I sostenitori dell’austerità, perché le loro tesi stessero in piedi, non avevano solo bisogno che dalla crisi si uscisse rapidamente. Avevano anche bisogno che i tentativi di fare politiche diverse – come quello di Obama con lo stimulus americano, e della politica monetaria della Fed – producessero gli effetti di un forte incremento dell’inflazione e dei tassi di interesse. Se la situazione fosse stata ordinaria, un forte incremento della base monetaria per le politiche di sostegno pubblico avrebbe dovuto produrre tali effetti. Invece è accaduto il contrario: i tassi di interesse sono rimasti dappertutto ai minimi storici e l’inflazione non si è accesa; semmai cominciano a delinearsi seri sintomi di deflazione. A quel punto doveva apparire chiaro che quelle politiche erano prive di fondamento, che l’errore – oltre a riguardare quei rimedi – riguardava evidentemente la natura della malattia, la diagnosi.

Sul campo è rimasta solo la teoria economica che prefigura la possibilità di una crisi derivante da una grave flessione della domanda. Cosa significa? Significa che occorreva ammettere una malattia che non era mai stata prevista dalle teorie economiche conservatrici: che un shock dell’economia derivante da vari fattori (le bolle immobiliari e finanziarie scoppiate nel 2007 e seguenti) non solo potesse portare i soggetti privati ad un veloce tentativo di ridurre i rapporti di indebitamento, ma anche ad un tale peggioramento delle aspettative economiche – che si materializza in tassi di interesse vicini al limite dello zero – da ridurre in modo generalizzato la voglia di investire. Invece della “fata della fiducia” si è materializzata la “strega della trappola di liquidità”. La teoria economica che è rimasta sul campo, dunque, è quella di Keynes. Si può aggiungere anche di Minsky, per quanto attiene all’idea che le crisi nascano da tendenze intrinseche del settore della finanza, e di Irving Fisher, per quanto riguarda il rapporto tra gli shock provocati dallo scoppio delle bolle e la simultanea tendenza a ridurre il debito da parte dei soggetti privati. E si può tranquillamente aggiungere anche di Krugman ed altri, per quanto riguarda il fatto che – dopo le crisi dei decenni passati e soprattutto la lunga decadenza del Giappone – tracolli di questa natura siano del tutto possibili anche in questo millennio.

Qua entra in ballo la politica, o meglio le politiche. Come se nel corso di un pericolo di naufragio, in una barca nella quale il timone non comanda, i marinai in coperta dovessero all’improvviso spostarsi da una parte all’altra dell’imbarcazione, ai nostri marinai è mancato il coraggio di riconoscere i fatti. Si sono date versioni molteplici. Per limitarsi ai paesi avanzati, negli USA ci si incoraggia per una migliore reazione dell’economia, anche in conseguenza di quello che si è fatto, sia pure insufficientemente, ma si nasconde il fatto che la spesa pubblica reale americana è notevolmente calata anch’essa, perché allo stimulus di Obama ha fatto contrasto il contro-stimulus derivante dalle misure non approvate per la contrarietà dei repubblicani, con effetti pesanti sugli Stati e sulle comunità locali. E si cerca di non vedere che i dati pure non entusiasmanti sull’occupazione sarebbero assai peggiori se si mettessero nel conto coloro che il lavoro non lo cercano perché non lo trovano. In Inghilterra (vedi il post di Wren-Lewis sull’argomento) quando ci si è accorti che l’austerità non funzionava, la si è in pratica interrotta con qualche effetto, ma non quello di ritrovare una rotta definitiva. E, nel contempo, si è addirittura cercato di negare la correzione, perché sarebbe stato politicamente sconveniente. La Commissione Europea che dall’inizio aveva stabilito di aggrapparsi, nel naufragio, agli andamenti della Germania, ha semplicemente continuato a farlo; trascurando il fatto che se la Germania non fosse nell’euro, il marco tedesco sarebbe salito molto in alto, ovvero che il paese più forte ha ora una rendita indiscutibile. Nel frattempo, in attesa delle prossime elezioni,  l’incoraggiamento ai più deboli si limita ad una sorta di training autogeno fondato su miglioramenti invisibili (il caso più clamoroso è quello dell’Irlanda, presunto ‘ragazzo prodigio’ dell’austerità, dalla quale emigrano 80.000 persone all’anno e che ora si trova dinanzi all’enorme problema di rinunciare a tutte le facilitazioni fiscali che avevano consentito una enorme presenza di imprese multinazionali). Il Giappone, che con incertezze sta cercando politiche nuove, se non altro perché un quindicennio di deflazione non debellata lo ha reso abbastanza immune dai racconti illusori. Per finire con l’Italia, il cui racconto – in pratica ‘scivolato’ senza tante spiegazioni dall’austerità alla crescita – si basa  per il momento solo su un simultaneo trasferimento di risorse, da dove possono essere raschiate ai fattori della produzione. Oltre a ciò, la insondabile speranza che in Europa prima o poi qualcosa cambi.

Quindi, mi pare che la spiegazione di Krugman sia precisa. Sono anni preziosi per il pensiero economico, ma il pensiero economico non ha affetti automatici sulla politica. La politica non dipende solo da quello che si accerta essere più conveniente. Un tema importante, nel pensiero economico, è quello che viene chiamato la ‘vischiosità’ dei salari nominali. Ebbene, la politica è vischiosa nello stesso modo. La strada per quello che si potrebbe definire un ‘laicismo’ della politica economica è lunga, molto più lunga di quello che sembrava più di mezzo secolo fa. Non a caso gli economisti progressisti nel mondo cominciano a chiedersi quanto questo non dipenda semplicemente da interessi di classe.

Infine propongo un libro che avevo letto mesi orsono e, alla luce di questi pensieri, ho riletto.  Si tratta di “L’immaginazione economica”, di Sylvia Nasar (Garzanti, 2013). Il titolo originale sarebbe “La storia del genio economico”, ma il termine ‘immaginazione’ nella versione italiana è molto appropriato. Pagine di biografia, di intuizione scientifica e di storia collettiva, tra di loro intrecciate in modo spesso affascinante. Malthus, Ricardo, Marx e Engels, Marshall, Schumpeter, Fisher e Keynes, Rosa Luxemburg e Joan Robinson, Samuelson ed altri ancora. Immaginare, ovvero “configurare immagini nella propria mente”:  intrecciare brani di realtà, modelli di interpretazione, verificabili risultanze collettive, derivarne intuizioni sul senso della storia. Non mi dilungo, perché risulterebbe assai pretenzioso, a spiegare perché l’ho trovato così utile. E’ un bel racconto delle coerenze e delle vie di uscita fuorvianti nella storia del pensiero economico. Che ha, mi pare, un solo difetto: manca il capitolo finale di questo disgraziato ventennio, che pure appare così importante in quella storia complessiva. Come se i nodi fossero tornati tutti al pettine.

NOTA 1: peraltro, alcuni giorni dopo queste mie modeste note riassuntive, è apparso un nuovo breve post di Krugman – “Memorie dell’austerità”, del 31 marzo – che torna in modo molto efficace sul tema del rapporto tra ricerche economiche e scelte politiche in questi anni.

NOTA 2: e un altro testo apparso successivamente (Simon Wren-Lewis, “La sinistra e la politica economica, del 31 marzo 2014) del quale raccomanderei la lettura è ora tradotto ed appare in “Altri economisti” ed anche in “Selezione della settimana”. 

La salute della Grecia nel rapporto di “The Lancet” – 9 marzo 2014

 

zzzz 89La salute della Grecia nel rapporto di “The Lancet” – Presentiamo qua una sintesi del rapporto della rivista inglese ‘The Lancet’ sulle condizioni sanitarie della Grecia. Barbara Spinelli ha scritto su questo rapporto un bell’articolo su La Repubblica dal titolo ‘Gli invisibili d’Europa’; può essere utile leggere direttamente ampi brani di quello studio di esperti di politica sanitaria. L’invisibilità della Grecia è una delle vergogne  dell’informazione; un episodio cruciale di tale vergogna fu, nel maggio del 2013, il modo in cui venne trattato un altro rapporto, questa volta del Fondo Monetario Internazionale, in particolare relativo ad alcuni abbagli (“failures”, ammetteva il secondo rapporto) nel trattare il caso greco da parte dei supposti medici della Troika. Il FMI fu l’unico a tornare meritoriamente su quei temi, ammettendo (sia pure in un remoto paragrafo 41) che erano stati mal calcolati gli effetti negativi – di moltiplicatore – dell’austerità. Si era usato un farmaco di dimensioni pressoché doppie. Nel frattempo, i farmaci veri e propri cominciavano a sparire dalla vita di molte persone comuni. Leggiamo come.

I ricercatori di “The Lancet” ci forniscono anzitutto una breve premessa del contesto che portò la Troika ed il Governo greco ad alcune decisioni di austerità sanitaria.

 

“La Grecia aveva accumulato gravi problemi strutturali prima della crisi. Tra l’ingresso nell’eurozona e l’inizio della crisi, la crescita economica annua era stata in media il 4,2%, alimentata da flussi di capitali dall’estero. Tuttavia, una spesa eccessiva era rimasta celata all’attenzione pubblica con il contributo delle banche di investimento e per effetto di una resocontazione impropria dei dati.

Quando la crisi finanziaria colpì le banche statunitensi nel 2008, il Primo Ministro greco Kostas Karamanlis dichiarò che l’economia greca era “corazzata” contro il rischio del contagio. Tuttavia, gli eventi successivi spostarono il paese nell’epicentro della tempesta finanziaria. Un nuovo Governo, eletto nel 2009, ridefinì il deficit da un previsto 3,7% al 15,8% del PIL. Quando le dimensioni della cattiva gestione economica apparvero evidenti, i costi dell’indebitamento fecero un balzo a livelli insostenibili. Gran parte del debito del paese era in possesso di banche e di fondi pensionistici in altri paesi europei che erano già in condizioni di fragilità e la comunità internazionale temette che la Grecia potesse essere costretta ad un default sul debito, con profonde implicazioni per l’economia globale. Agli inizi del 2010 il Governo greco avviò i colloqui con la comunità internazionale su un possibile salvataggio. Nel mese di maggio venne concordato il primo complesso di misure: in cambio di 110 miliardi di euro di prestiti, il Governo avrebbe messo in atto misure a lunga scadenza e riforme strutturali sotto la supervisione della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale (comunemente conosciuti come la ‘Troika’). Una seconda serie di misure di salvataggio vennero concordate nell’ottobre del 2011, chiedendo ulteriori tagli e riforme, ma fornendo ulteriori 130 miliardi di euro di finanziamenti, e fu approvato da un Governo ad interim nel febbraio del 2012.”

Il rapporto analizza la condizione sanitaria greca sotto due profili: gli effetti diretti e quelli indiretti della austerità sulla salute delle persone. In termini generali, gli effetti diretti furono conseguenza di alcune decisioni direttamente stabilite nel cosiddetto ‘Accordo di salvataggio’ dell’economia greca.

“Nella sanità, l’obbiettivo chiave fu ridurre, rapidamente e drasticamente, la spesa pubblica  fissando un tetto al 6% del PIL. Per raggiungere questa soglia, stipulata nell’accordo per il salvataggio della Grecia, la spesa pubblica per la sanità è oggi inferiore a quella di tutti gli altri membri dell’Unione Europea precedentemente al 2004. Nel 2012, nello sforzo di raggiungere obbiettivi specifici, il Governo greco andò oltre le richieste della Troika quanto a tagli sui costi operativi negli ospedali e nella spesa farmaceutica. Il precedente Ministro della Salute Andreas Loverdos, ammise che “la pubblica amministrazione greca …. usa coltelli da macellaio (per realizzare i tagli)”. Gli effetti negativi di questi tagli stanno già cominciando a manifestarsi.”

Non è sorprendente che il primo livello al quale gli effetti delle scelte hanno prodotto effetti nefasti sia stato quello dei gruppi di popolazione più marginali: dove tagliare anzitutto se non su coloro che sono ‘invisibili’ per definizione? Sennonché si rischia di non considerare che anche questi ultimi divengono presto a loro modo visibili, nelle statistiche sull’AIDS, sulla tubercolosi ed anche su casi di malaria.

“I programmi per la prevenzione ed il trattamento dell’uso illecito di stupefacenti conobbero ampie riduzioni, in un periodo di bisogni crescenti connessi con le difficoltà economiche. Nel 2009 – il primo anno dell’austerità, un terzo dei programmi degli interventi di strada vennero tagliati a causa della scarsità dei finanziamenti, nonostante una crescita documentata della prevalenza dell’uso di eroina. Contemporaneamente, il numero di siringhe e di preservativi distribuiti agli utilizzatori di droghe scesero rispettivamente del 10% e del 24%. Questi fatti hanno prodotto gli effetti previsti sulla popolazione a rischio: il numero di nuove infezioni da HIV  sugli utilizzatori di droghe per iniezione è salito da 15 nel 2009 a 484 nel 2012, e i dati preliminari del 2013 sulla incidenza della tubercolosi su questa popolazione è più che raddoppiato rispetto al 2012. Sebbene la distribuzione di aghi e siringhe sia da allora cresciuta, in parte per rispondere ai resoconti giornalistici ed alla pressione popolare, la distribuzione è ancora molto al di sotto dell’obbiettivo minimo di 200 unità all’anno per utilizzatore di droghe raccomandata dal Centro Europeo per il Controllo delle Malattie. Nella sua prima iniziativa alla fine di giugno del 2013, Adonis Georgiadis, il nuovo Ministro alla Salute (il quarto in poco più di un anno), ha reintrodotto una legge controversa che stabilisce test obbligatori per le malattie infettive sotto il controllo della polizia per i tossicodipendenti, le prostitute e gli immigranti – una scelta che non è solo immorale ma anche controproducente, perché scoraggia i gruppi marginalizzati dal richiedere i test durante l’insorgenza del HIV. Il Programma Congiunto delle Nazioni Unite sul HIV/AIDS si è pronunciato a favore di una abrogazione della legge, giacché essa “potrebbe servire a giustificare azioni che violano i diritti umani”. (….)

In aggiunta, drastiche riduzioni ai bilanci dei Comuni hanno portato ad una retrocessione di molte attività (ad esempio, dei programmi di disinfestazione degli insetti) che, in combinazione con altri fattori, hanno permesso, per la prima volta dopo 40 anni, il riemergere localmente di casi di contagi di malaria.”

Un secondo livello che le politiche di austerità si erano proposte di aggredire era quello della spesa farmaceutica. Anche qua il problema gigantesco che si apre è che quando si opera con strumenti ‘da macelleria’ i danni sono molto più vasti del previsto, giacché si opera con persone, con redditi che stanno già calando per loro conto, con scelte quotidiane tra farmaci ed alimenti o affitti da pagare ….

“Un altro costo fondamentale preso ad oggetto da parte della Troika è stata la spesa farmaceutica con finanziamenti pubblici, per la quale è stata necessaria una riforma a causa delle percentuali molto elevate di prescrizioni di medicinali di marca. L’obbiettivo fissato era quello di ridurre la spesa da 4,37 miliardi di euro nel 2010 a 2,88 miliardi di euro nel 2012 (obbiettivo raggiunto), e a 2 miliardi di euro nel 2014. Tuttavia, ci sono stati molti risultati non voluti ed alcune medicine sono diventate inottenibili a causa dei ritardi nei rimborsi da parte delle farmacie, che stanno accumulando debiti insostenibili. Molti pazienti debbono ora pagare di tasca propria ed aspettare i successivi rimborsi da parte dei fondi assicurativi. I risultati di una ricerca nella provincia di Acaia hanno mostrato che il 70% degli intervistati afferma di non aver avuto redditi sufficienti per acquistare i farmaci prescritti dai loro medici. Le società farmaceutiche hanno ridotto l’offerta a causa di conti non pagati e di bassi profitti.”

Naturalmente, come ben sappiamo anche noi italiani, un terreno fondamentale di possibile erosione della spesa pubblica sanitaria è quello di chiamare i cittadini a contribuire, a pagare si tasca propria. Ed anche in quel caso, puntualmente, accade che gli interventi non siano esattamente chirurgici. Il rapporto tra i cittadini e la cura della salute si può deteriorare drammaticamente per varie ragioni connesse: perché i disoccupati di lungo periodo crescono enormemente e perdono l’assicurazione sanitaria; perché i redditi sono crollati e contribuire al costo di un farmaco è cosa diversa da ieri; perché un anziano deve raggiungere il posto di cura ed i mezzi di trasporto non sono quelli che erano. Ed i danni sarebbero assai più devastanti se non ci si potesse giovare dell’aiuto gratuito delle associazioni, dei loro ambulatori e dei loro medici volontari.

“ … molte politiche hanno spostato i costi sui pazienti, comportando riduzioni nell’accesso alla assistenza sanitaria.

Nel 2011, i contributi furono aumentati dai 3 ai 5 miliardi di euro per le visite ambulatoriali ai pazienti (con qualche eccezione per i gruppi vulnerabili), ed i co-pagamenti per certe medicine sono aumentati del 10% o più, a seconda della malattia. I nuovi contributi per le prescrizioni (1 euro ciascuna) sono entrati in vigore nel 2014. Nel gennaio del 2014 è stato introdotto un contributo addizionale di 25 euro per l’ammissione ai ricoveri, ma è stato ridotto in una settimana dopo una crescente mobilitazione dell’opinione pubblica e dei parlamentari. Costi aggiuntivi nascosti – ad esempio, gli incrementi nei prezzi delle chiamate telefoniche per programmare gli appuntamenti presso i medici – hanno anch’essi creato barriere agli accessi.

Un’altra preoccupazione è la erosione della copertura sanitaria. La copertura sociale della assicurazione sanitaria è connessa alla condizione occupazionale, con le persone recentemente disoccupate di età tra i 22 ed i 55 anni coperte per una massimo di due anni. La rapida crescita della disoccupazione a partire dal 2009 sta aumentando il numero delle persone non assicurate. I non assicurati possono risultare idonei dopo le verifiche sul reddito, ma i criteri per tali verifiche non sono stati aggiornati per mettere nel conto la nuova realtà sociale. 800.000 potenziali beneficiari che venivano stimati sono rimasti senza sussidi di disoccupazione e senza copertura sanitaria. Per rispondere ad un bisogno insoddisfatto, molti ambulatori sociali (pratiche di assistenza primaria delle quali si fanno carico medici volontari) sono spuntate fuori in molti centri urbani. ‘Médecins du Monde’ ha incrementato la propria operatività in Grecia, e dà conto di un numero crescente di cittadini greci che ricevono servizi sanitari e farmaci dai propri ambulatori a seguito dell’aggravarsi della crisi economica; prima della crisi, tali servizi riguardavano in massima parte la popolazione immigrata.

Per esaminare se queste politiche hanno influenzato l’accesso ai servizi sanitari, abbiamo analizzato i dati più recenti dell’ European Union Statistics on Income and Living Conditions, un sondaggio rappresentativo su scala nazionale. A confronto con il 2007 (il punto di riferimento precedente alla crisi), un numero di persone significativamente aumentato risulta non soddisfatto nei suoi bisogni sanitari nel corso del 2011. L’impossibilità ad ottenere assistenza è cresciuta soprattutto per le persone più anziane. Questi cambiamenti per la maggior parte risultano da aumenti negli intervistati che testimoniano l’impossibilità a permettersi la assistenza, oppure a raggiungere i servizi a causa della scarsità dei trasporti. Le difficoltà nei trasporti si sovrappongono alle ragioni sanitarie, particolarmente nel caso delle persone più povere, ed i pazienti che potevano permettersi cliniche private prima della crisi ora hanno bisogno di utilizzare mezzi di trasporto per accedere a servizi forniti pubblicamente.”

 

Nella seconda parte del rapporto, si passa a considerare gli effetti indiretti sulla salute delle politiche di austerità, ovvero gli effetti non ascrivibili direttamente al sistema sanitario, ma comunque registrabili nelle condizioni generali di tutela sanitaria dei cittadini. In realtà, la distinzione non è sempre così netta, giacché, ad esempio, in una certa misura il numero dei casi di depressione o dei suicidi può anche derivare da una efficacia notevolmente ridotta dei servizi di assistenza alla salute psichica. Ed è proprio da quel settore che il rapporto prende le mosse.

 

“I servizi della salute mentale sono stati seriamente coinvolti. Un rapido mutamento socio-economico può danneggiare la salute mentale, se non è alleviato da appropriate politiche sociali. Tuttavia, in Grecia coloro che forniscono servizi pubblici o non-profit di salute mentale  hanno diminuito i loro interventi, chiuso o ridotto gli organici: i programmi per lo sviluppo dei servizi psichiatrici dei bambini sono stati abbandonati; ed i finanziamenti per la salute mentale dello Stato sono calati del 20% tra il 2010 ed il 2011 e di un ulteriore 55% tra il 2011 ed il 2012. Le misure di austerità hanno gravemente limitato la possibilità dei servizi di salute mentale di far fronte a un incremento del 120% delle richieste nel corso degli ultimi tre anni. Le prove a disposizione indicano un sostanziale deterioramento delle condizioni di salute mentale. Risultati di studi sulla popolazione indicano una accresciuta diffusione di forme importanti di depressione per due volte e mezzo – dal 3,3% della popolazione nel 2008 all’8,2%  nel 2011 – con le difficoltà economiche che sono un importante fattore di rischio. Altre ricerche indicano, tra il 2009 ed il 2011, un incremento del 36% delle persone che tentano il suicidio nel mese precedente al sondaggio, con una più alta probabilità per coloro che sono alle prese con sostanziali difficoltà economiche. Tra il 2007 ed il 2011 le morti per suicidio sono aumentate del 45%, anche se a partire da un dato iniziale modesto. L’incremento è stato inizialmente più pronunciato per gli uomini, ma i dati del 2011 della ‘Autorità statistica ellenica’ indica un vasto incremento anche per le donne.”

Infine, il rapporto considera il problema delle condizioni di salute dei bambini e la situazione drammatica di vari indicatori relativi alle nascite.

“Le misure di austerità della Grecia hanno anche riguardato la salute dei bambini, a causa dei ridotti redditi delle famiglie e della disoccupazione dei genitori. La quota dei bambini a rischio di povertà è cresciuta dal 28,2% nel 2007 al 30,4% nel 2011, ed un numero crescente riceve nutrizione inadeguata. Il rapporto delle Nazioni Unite del 2012 sottolinea che “il diritto alla salute e l’accesso ai servizi sanitari (in Grecia) non è rispettato per tutti i bambini”. Gli ultimi dati disponibili indicano una crescita del 19%, tra il 2008 ed il 2010, del numero dei bambini nati sotto peso. Ricercatori della Scuola Nazionale sulla Sanità Pubblica greca informano di una crescita del 21% dei bambini nati morti tra il 2008 ed il 2011, che attribuiscono all’accesso ridotto delle donne incinte ai servizi di sanità pre-natale. La caduta nel lungo periodo della mortalità infantile si è invertita, crescendo del 43% tra il 2008 ed il 2010, con incrementi sia nei decessi neonatali che post-neonatali. I decessi neonatali indicano barriere nell’accesso ad una assistenza puntuale ed efficace durante la gravidanza e nei primi momenti di vita, mentre i decessi post-neonatali  indicano un peggioramento delle condizioni socioeconomiche.”

Il rapporto si conclude con un paragrafo sul cosiddetto “negazionismo” a proposito degli effetti inquietanti delle politiche di austerità. Il negazionismo degli ambienti governativi ufficiali si basa sul fatto che inefficienze, distorsioni, clientelismi e ruberie erano piuttosto frequenti nella sanità greca; di conseguenza si poteva non illegittimamente ipotizzare che decrementi della spesa pubblica fossero accompagnati da effetti di moralizzazione e razionalizzazione. Ma, come si è visto, la realtà è sensibilmente diversa; travolgere i presidi minimi di funzionalità ha prodotto danni immensi sulla popolazione greca e non ha certa favorito processi di riforma.

Ed anche il breve capitolo finale sul “negazionismo” delle autorità ha il suo interesse, se ci si riflette. Perché la morale di questo studio può essere, alla fine, così sintetizzata: considerare le reti della sicurezza sociale, in primis quelle sanitarie, come “variabili” della civiltà europea contemporanea – solleva un enorme interrogativo sulla nostra comune democrazia. Alcuni economisti americani si sono spesso sorpresi nel constatare, diciamo così, l’attaccamento dei gruppi dirigenti europei all’euro ed al loro progetto. La spiegazione di quella ostinazione è la storia europea: si può sbagliare molto, come in effetti si sbaglia, ma da questo non ne consegue una rinuncia semplicistica  all’idea di fondo di istituzioni e politiche comuni. Sennonché quella ostinazione, pur nella sua modestia, è un valore se la consapevolezza di una civiltà comune non entra in crisi per altre ragioni, se il tessuto comune non si lacera altrove. Non voler vedere i problemi sempre più drammatici della sanità pubblica in Grecia è una violazione molto più grave delle nostre supposte regole comuni, che non un qualsiasi indicatore finanziario.   

 

 

Le ricerche sull’ineguaglianza di Picketty – Saez. 14 Gennaio 2014

 

Ho pensato che poteva essere utile sintetizzare i principali risultati delle ricerche sull’ineguaglianza dei redditi – negli Stati Uniti e in altre nazioni avanzate – che sono al centro del dibattito attuale. Per evitare problemi (per me) complicati di editing nel passaggio da un programma all’altro dei vari testi, pubblico i risultati in questa rubrica; in realtà mi limito ad un riassunto, a citazioni ed alla presentazione delle tre tabelle più significative.

I testi ormai classici sono quelli di Thomas Picketty (Paris School of Economics) e di Emmanuel Saez (University of California, Berkeley). Utilizzo in questo caso lo studio presentato al Convegno del FMI a Washington nel novembre del 2012, integrato da una ricerca successiva che include i dati del 2012 a cura di Emmanuel Saez. I due ricercatori sono tra i fondatori del “World Top Incomes Database”, che è il nome del progetto in corso di attuazione relativo alla registrazione delle statistiche sui redditi più elevati e sulle ineguaglianze a livello mondiale: il progetto riguarda almeno 67 nazioni.

 

  1. La distribuzione del reddito negli Stati Uniti nel 2010.

Come si sa, le analisi sui redditi solitamente dividono la popolazione statistica in decimi di percentile, percentili, quintili o decili (un percentile è un centesimo della scala sociale, un quintile equivale al 20%, un decile al 10%). Esaminiamo quella situazione sulla base dei dati del 2010 (vedremo meglio successivamente gli effetti complessivi del periodo della Grande Recessione ed anche il confronto molto significativo con un periodo precedente al 2010, ad esempio gli anni ‘70).

Il massimo  “top income” è lo 0,1 per cento della popolazione con il reddito più elevato; la soglia di ingresso nel 2010 in quel decimo di percentile era stabilita negli USA in 7.890.307 dollari all’anno. Per questa fascia di ‘straricchi’ si deve però considerare che i redditi medi erano nel 2010 molto più elevati della semplice soglia di ingresso: per lo 0,1 per cento la media era di 23.846.950 dollari. Assai diversa la situazione per i percentili che vanno dal 10%  al 5%  e dal 5% all’1% dei redditi più elevati. Per queste fasce, il reddito di ingresso veniva stabilito a 108.204 dollari per la prima ed a 150.400 dollari per la seconda; le relative medie di reddito erano di 125.627 nel primo caso e di 205.529 nel secondo. Se si riflette su queste prime informazioni, già si comprende per quale ragione i dati dell’1 per cento delle famiglie straricche, o meglio ancora dello 0,1 di esse, sono spesso considerati particolarmente significativi. Il punto è che la quota complessiva di reddito nazionale coperta da queste categorie è la seguente:

 

Percentili (o decimi) Numero delle famiglie Reddito medio Reddito totale
Popolazione totale 156.167.000        51,550 8.050.408.850.000
Il 90 per cento della popolazione con redditi più bassi. 140.550.300        29.840 4.194.020.952.000
Dal 90° al 95° percentile     7.808.350      125.627   980.939.585.450
Dal 95° al 99° percentile     6.246.680      205.529 1.283.873.893.720
Centesimo percentile        156.167   4.906.553   766.241.729.150
Ultimo decimo di percentile (0,1°)          15.617 23.846.950    372.417.818.150

 

Ovvero, se non faccio male i conti, poco più di un centesimo di tutte le famiglie ricche – tanti sono i componenti dell’ultimo decimo di percentile rispetto all’ultimo decile – realizzavano all’incirca il 16 per cento del reddito di tutte quelle ricche. O, per dirla in un altro modo, un millesimo di tutte le famiglie dell’intera popolazione americana realizzava il 4,6 del reddito complessivo del paese e circa il 10 per cento del reddito complessivo della classe media, dei lavoratori più poveri e dei poveri in assoluto, ovvero del 90 per cento “bottom”. E, come si vede più avanti, dopo il 2010 la situazione è in ulteriore forte movimento.

Questi comunque, diciamo così, sono i ‘numeri assoluti’ entro i quali si comprende meglio l’evoluzione delle percentuali della partecipazione al reddito delle varie categorie della popolazione.

Al di là del fatto che essi sono impressionanti in sé, è evidente che si tratta di numeri che, per la loro rilevanza oggettiva,  possono giustificare il risultato finale per il quale, nel corso del tempo: a) il reddito è cresciuto notevolmente per i più ricchi; b) il reddito è invece rimasto molto più stabile per tutti gli altri, e per qualcuno è addirittura sceso; tra a) e b) c’è stata dunque una relazione obbligata, nel senso che la ricchezza aggiuntiva è andata semplicemente per intero a vantaggio dei più ricchi.

2. L’evoluzione dell’ineguaglianza negli anni recenti.

In questi ultimi anni di ripresa ‘incostante’, negli Stati Uniti, “il reddito reale medio è cresciuto modestamente di un 6% per famiglia. La maggior parte degli incrementi si sono determinati nell’ultimo anno, quando i redditi medi sono cresciuti del 4,6% dal 2011 al 2012. Tuttavia gli incrementi sono stati molto dissimili. I redditi dell’1% dei più ricchi sono cresciuti del 31,4%, mentre i redditi del restante 99% sono cresciuti soltanto dello 0,4% dal 2009 al 2012” (Saez). Questi dati hanno confermato ed accentuato sensibilmente l’andamento generale degli ultimi decenni. “La quota nazionale di reddito che è maturata per i gruppi superiori di reddito è cresciuta bruscamente negli ultimi decenni … La quota del decile di reddito superiore è cresciuta dal 35,3% degli anni ’70 al 50,3% negli anni recenti. Questo è derivato in gran parte dai redditi dei più ricchi. La quota del percentile più alto di reddito è più che raddoppiata, da meno del 10,3% negli anni ’70 a più del 20,3% degli anni recenti. Come conseguenza i redditi bassi e medi sono aumentati molto meno di quanto suggerirebbero le statistiche sulla crescita del PIL aggregato” (Picketty e Saez).

In sostanza, dicono i due ricercatori, la Grande Recessione non ha modificato il trend dei decenni passati, semmai lo sta accentuando. C’è stato un biennio di forte contrazione nel decile di reddito più alto, il 2008/2009, ma c’è stata poi una ripresa sensibilissima che ha, nonostante sia stata tardiva e lenta, fortemente accentuato i processi della ineguaglianza, anche perché per i redditi medio bassi un vero e proprio recupero non è avvenuto. E questo fenomeno, aggiungono, “è coerente con l’esperienza dei precedenti andamenti negativi dell’economia: le percentuali di reddito caddero nel 2001-2002, ma ripresero rapidamente e tornarono al trend precedente nel periodo 2003-2007”. Peraltro, lo stesso andamento negativo negli anni dello scoppio della crisi era soprattutto attribuibile, comprensibilmente, alla componente dei profitti di capitale. Se si tolgono dal calcolo questi ultimi, si scopre che nel 2011 la quota del decile più alto di reddito era pari al 46,33%, un livello superiore a quello del 2007.

Inoltre, concludono, merita di essere attentamente considerato che gli ordini di grandezza che riguardano i decenni passati “sono stati davvero enormi. Nei passati trenta anni più del 15% del reddito nazionale statunitense si è spostato dal 90% della parte più bassa della scala dei redditi degli Stati Uniti, al 10% delle fasce più alte. In sostanza, l’1% dei più ricchi ha assorbito quasi il 60% della crescita del reddito aggregato degli Stati Uniti, dal 1976 al 2007”. E, come si è visto, la crisi ha accentuato il fenomeno, se non altro perché i più ricchi non hanno perso niente nella loro velocità di incremento, mentre tutti gli altri hanno ulteriormente decelerato e peggiorato la loro condizione.

E’ molto interessante notare che questo andamento negli Stati Uniti è stato fondamentalmente provocato dai movimenti di reddito della popolazione, diciamo così, straricca, come si vede chiaramente dalla tabella successiva che suddivide gli andamenti dell’ultimo percentile, dei percentili dal 90° al 95° e di quelli dal 95° al 99°. Come si vede, il fattore che fornisce all’intero periodo a partire dagli anni Venti un andamento a “U” è l’1 per cento dei più ricchi, che da una quota del reddito totale inferiore al 10% negli anni ’70 balza a più del 20% nel periodo più recente; mentre i percentili dal 90° al 95° e dal 95° al 99° mantengono una quota del reddito totale tra il 10 ed il 15% in circa novanta anni:

 

 

 

 

 

3. Un confronto con gli altri paesi avanzati.

Un secondo aspetto che appare molto rilevante è che gli andamenti sopra descritti sembra accomunino le situazioni delle economie avanzate, per così dire, del ‘blocco di lingua inglese’ – ovvero Stati Uniti, Regno Unito e Canada – ma risultano notevolmente diversi dalle situazioni dell’Europa e del Giappone.

Come si vede nella tabella sottostante, gli Stati Uniti, dove l’ultimo decile dei redditi più elevati già sulla fine degli anni ’20 si era collocato su una quota di circa il 50% di tutti i redditi (per perdere poi con la crisi degli anni ’30 e con il dopoguerra circa quindici punti), è tornato negli ultimi anni alla quota delle metà dei redditi complessivi. Una tendenza analoga, anche se con quote un po’ più basse, ha caratterizzato l’esperienza del Regno Unito. Molto diversa appare, invece, la situazione della Germania e della Francia, che tra loro hanno un andamento abbastanza simile. Per queste due ultime nazioni la quota di reddito della quale si appropriano i ceti più ricchi, nell’intero periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, è rimasta di 15-20 punti inferiore ai paesi anglofoni, sia pure con un andamento un po’ più dinamico negli anni recenti nel caso della Germania.

 

 

Osservano Picketty e Saez: “Secondo noi, il fatto che paesi con evoluzioni simili della tecnologia e della produttività siano passate attraverso schemi così diversi di ineguaglianza dei redditi – specialmente per le fasce più ricche – indica con forza che le differenze istituzionali e politiche giocano un ruolo fondamentale in queste trasformazioni. Ricostruzioni meramente tecnologiche basate  unicamente sull’offerta e sulla domanda di competenze professionali difficilmente possono spiegare andamenti così divergenti. Le diversità nelle politiche fiscali sembrano una spiegazione più persuasiva”.

Anche in questo caso – cioè nell’ambito di un confronto tra USA ed Europa – si può notare come l’andamento decisivo sia stato quello dell’ultimo percentile dell’1% dei più ricchi. Se infatti si confronta la tabella successiva, nella quale, nel periodo tra i primi anni 70 ed il 2010 compare anche l’Italia, con la tabella 1C precedente, relativa agli Stati Uniti, si nota che l’andamento a “U” è sostituito con un andamento a “L”. Questo perchè la quota di reddito del redditi più alti che nei paesi europei, dell’Europa del Nord come in quella del Sud, aveva avuto il picco secolare negli anni Venti, regredì sino al dopoguerra e da allora è rimasta sostanzialmente stabile.

 

 

 

“Re:Vision- l’economia, la sinistra, l’Europa”. Una buona notizia. Gennaio 2014

 

zzzz 34 “Re:vision” è il nome di un nuovo blog che ha pochi mesi di vita. Curato da giovani economisti italiani – i primi interventi sono di Massimo D’Antoni, Gianluigi Nocella, Emanuele Felice, Fedele De Novellis, Ronny Mazzocchi, Giandomenico Piluso – mi pare che abbia intenzioni e qualità per raggiungere un duplice anche se non dichiarato obbiettivo:

1) rompere una sorta di misteriosa cortina di genericità e inconsistenza della discussione economica nazionale, al tempo stesso effetto e conseguenza di un presidio interamente giornalistico sulla disciplina e di una identità oscurissima della politica quanto a idee economiche. Per cui, con eccezioni molto rare, non si va mai oltre un “sentito dire” – si tratti di una critica al pensiero unico europeo, di cunei e di riforme fiscali, di IMU, di Mezzogiorno, di industria automobilistica, di mercato del lavoro – che ad un osservatore curioso provocano più incertezza che conoscenza, più sconforto che percezione di verità. Leggendolo, si ha il senso di una battaglia delle idee che la sinistra potrebbe condurre. Di una cultura e di una politica possibili;

2) aprire implicitamente una comunicazione con idee e discussioni vive nel mondo, in particolare americano ed inglese – per dirne una o due, il tema recente della “stagnazione secolare” o quello dei fittizi entusiasmi per le uscite dal tunnel irlandesi o spagnole, nonché della nostra.

“Fataturchinaeconomics” in questi mesi ha cercato di offrire scorci di quel dibattito mondiale offrendo, a chi aveva difficoltà a procurarselo direttamente, una specie di ‘buco della serratura’. Ovvero una occasione di partecipazione attenta ma silenziosa, da spettatori (tant’è che i frequentatori di questo spazio sono numerosi, ma i commenti languono, anzi domina direi una specie di silenzio carbonaro!). Mi permetto dunque di segnalare il nuovo blog e di fare tanti auguri ad esso ed ai suoi redattori. E’ una iniziativa che certamente riempirà un vuoto anche ai lettori di queste pagine.

 

 

 

Le diseguaglianze e la politica progressista. 2 gennaio 2014.

 

Disuguaglianze: l’evoluzione della  riflessione di Krugman.

6 giugnoProvo a ripercorrere i ragionamenti di questi ultimi mesi di Krugman sul tema delle ineguaglianze di reddito e dei loro effetti, sia sulla crisi che sulla debole ripresa. All’origine, nel mese di gennaio di quest’anno, appariva sulla pagina dei commenti del New York Times un articolo  di Joseph Stiglitz, dal titolo “L’ineguaglianza sta trattenendo la ripresa”. La tesi era quella di una forte connessione tra la crescita storica delle ineguaglianze di reddito e la debolezza della ripresa economica. In realtà, gran parte degli argomenti erano relativi più in generale alla connessione tra ineguaglianze e crisi. I “quattro argomenti” di Stiglitz erano:

– è stata l’ineguaglianza che ha spinto negli Usa ad un forte indebitamento della famiglie; la classe media colpita dalle diseguaglianze di reddito “è troppo debole per sostenere le spese di consumo che hanno storicamente guidato la nostra crescita economica”;

– l’indebolimento della classe media ha comportato una incapacità ad “investire nel futuro”, in educazione ed investimenti sulle proprie attività;

– le entrate fiscali hanno anch’esse subito il colpo di una classe media più debole, anche perché gli aumentati redditi dell’1 per cento dei più ricchi sono stati protetti da sgravi e da elusioni, con la conseguenza di una spesa pubblica insufficiente in infrastrutture, istruzione, ricerca e sanità;

– come confermato dal FMI, c’è storicamente una relazione stretta tra crescita delle ineguaglianze ed instabilità delle economie, chiarissima sin dagli anni ’20 e ’30.

Krugman – in due posts del 20 e del 21 gennaio – si concentrava sulla pretesa connessione tra ineguaglianza e debole ripresa, e considerava questo aspetto opinabile. L’argomento era, per così dire, minuzioso: nel passato recente, di pari passo con la crescita dell’ineguaglianza il risparmio privato era in calo, non in crescita; dunque non è detto che i consumi dei più ricchi siano sempre meno rilevanti sulla domanda effettiva di quelli dei meno ricchi. Può non piacere, scriveva Krugman, ma non è detto (la domanda può essere trainata anche dai superyachts). Il ragionamento poteva sembrare un po’ capzioso, almeno in relazione all’articolo di Stiglitz, considerato che la connessione tra ineguaglianza e stentata ripresa sembrava appartenere più al titolo che al testo vero e proprio dell’articolo. Il tema di Stiglitz, in fondo, era che l’ineguaglianza era risultato un ‘modello’ per le crisi, piuttosto che per uno sviluppo sano.

Ma il 25 luglio, con un terzo post dal titolo “Stiglitz, Minsky ed Obama”, Krugman ritornava sulla questione, forse chiarendo meglio la sua preoccupazione di natura politica: “… c’è un pericolo nell’approccio stiglitziano, e precisamente che la gente potrebbe concludere che riparare la caduta nel breve termine della domanda possa attendere, nel mentre ci applichiamo a riformare i problemi di lungo periodo dell’ineguaglianza, la qual cosa sarebbe destinata ad essere assai difficile ed a chiedere tempi lunghi. Noi abbiamo bisogno adesso di misure di sostegno, o almeno di porre fine all’austerità, anche se ripristinare una società della classe media non è cosa destinata ad accadere nel breve periodo.” Più in generale, Krugman esprime così la sua preoccupazione politica: “…io sono intimamente sospettoso di ogni storia che faccia diventare l’economia una specie di racconto morale, nel quale tutti i cattivi risultati derivano da cose che si considerano deplorevoli anche per altre ragioni; diciamo così, far diventare il picco dell’ineguaglianza la causa dei nostri guai economici è un po’ troppo facile per noi progressisti”.

E’ su quel tema politico che negli ultimi giorni del 2013 Krugman ha dato conto di una rielaborazione complessiva della questione, spiegando  in che senso e modo sia pervenuto ad una opinione chiaramente diversa. Nell’articolo del 15 dicembre sul New York Times e nell’intervento del giorno prima  (“L’ineguaglianza come una sfida distintiva”) egli spiega perché aderisce pienamente a quella definizione contenuta in un recente discorso di Obama, augurandosi che il Presidente sappia essere coerente con i fatti.

Intanto, perché si tratta di una “faccenda davvero grossa”. Il reddito del 90 per cento della popolazione – quella non-ricchissima, meno-ricca o semplicemente povera – è oggi 8 punti percentuali inferiori di quanto sarebbe, se a partire dall’anno 2000 i redditi non fossero continuamente stati erosi dal fenomeno dell’ineguaglianza, ovvero del continuo arricchimento dell’1 per cento della popolazione. Il che significa che l’ineguaglianza ha provocato, sulla cosiddetta “classe-media”, un danno superiore a quello provocato dalla crisi stessa.

In secondo luogo – forse anche in conseguenza di recenti studi, che egli riconosce hanno contribuito a fargli superare lo scetticismo precedente – c’è il fatto che effettivamente la domanda negli anni precedenti alla crisi sembra essersi concentrata soprattutto nei debiti della classe media, mentre l’ineguaglianza a favore dei redditi più alti comportava soprattutto maggiori risparmi.

Si potrebbero anche aggiungere alcuni riferimenti agli scritti più recenti  – in particolare l’articolo sul New York Times del 27 dicembre – nei quali si constata come una moderata depressione, in fondo, permetta alle imprese un notevole potere di contrattazione nei confronti di lavoratori indeboliti dalla crisi, assieme ad un picco di profitti e di risultati sui mercati azionari.

In ultima analisi, gli aspetti che lo convincono definitivamente a concordare sulla necessità di dare al tema di una maggiore eguaglianza dei redditi un peso centrale nella politica progressista, sono di natura politica. L’ineguaglianza è stata sostanza e conseguenza di una ‘egemonia’; da quella egemonia è dipesa prima l’epoca della finanziarizzazione e della deregolamentazione del sistema finanziario, poi l’epoca più recente della ossessione per il debito e della austerità. Non si può reagire in modo pieno a tali ideologie, se – oltre a contestarle sul terreno del fondamento macroeconomico – non le si attaccano sul terreno propriamente sociale e politico.  E, per dare un senso concreto a tale ragionamento, egli cita due esempi di quella evoluzione della politica: la piattaforma di giustizia sociale del nuovo Sindaco di New York Bill DeBlasio e l’iniziativa della Senatrice Elizabeth Warren a favore di un potenziamento dei programmi pensionistici pubblici. Ma basterebbe a provare la coerenza della sua posizione l’attenzione quotidiana che da anni egli riserva alla complicata evoluzione della riforma della assistenza sanitaria di Obama.

Dunque, temi e preoccupazioni squisitamente politici. A ben vedere, è come se  in un caso parlasse l’analista che sin dagli anni ’90 non ha mai dimenticato di condurre la sua polemica anche nei confronti di un ‘semplicismo’ di sinistra (si potrebbe tornare al suo saggio sugli eccessi della sinistra francese in materia di orari di lavoro, su Foreign Affairs del settembre/ottobre del 1997); mentre nel secondo caso parlasse un Krugman più recente, che si riferisce fondamentalmente e definitivamente al blocco sociale e politico progressista, del quale è ormai un punto di riferimento tutt’altro che secondario. Per anni ha battuto il tasto del vero e proprio ‘abbaglio’ macroeconomico di una politica di restrizione della finanza pubblica in economie depresse, con una insistenza ostinata e agli inizi anche un po’ solitaria; da mesi egli ha spostato l’attenzione anche verso uno scenario più vasto. Una tecnologia nei settori di punta che prepara una nuova epoca a favore dei profitti di monopolio, il contrasto tra una ripresa che non provoca grandi effetti sulla disoccupazione ed effetti enormi sui profitti, il ruolo delle ‘bolle’ nel mascherare una situazione di ‘stagnazione secolare’ (secondo una espressione rimessa in circolazione da Larry Summers), il tema delle disuguaglianze come distintivo della svolta reale che spetta ai progressisti di pensare, nel senso che alle grandi imprese una moderata depressione potrebbe  anche risultare conveniente per un bel po’.

In un parola: da una battaglia che aveva al centro il tema immediato della politica economica dei governi, ad una analisi e ad un impegno che si amplia ai temi più generali di una grande riforma sociale delle economie avanzate.  Che è compito dei governi, ma anche delle forze sociali, delle forze politiche, della ricerca teorica e della battaglia delle idee.

 

Altri approcci più radicali: il libro di Luciano Gallino. 

 

zz 20Se volessimo dar conto di un punto di vista abbastanza estraneo agli ‘scrupoli’ dell’economista americano, e semmai interessato ad esprimere con il massimo vigore possibile il radicalismo di un punto di vista progressista, si potrebbe citare Luciano Gallino nel suo “Il colpo di Stato di banche e Governi” (2013). Nel bel secondo capitolo del suo libro, Gallino non ha alcun dubbio nell’indicare le disuguaglianze come causa della crisi. Il periodo neoliberista è stato, in ultima istanza, un’epoca nella quale i più ricchi hanno moltiplicato, nel processi di finanziarizzazione, la propria disponibilità di capitali liquidi in cerca di investimenti redditizi, mentre i più poveri, gli “individui a scarso valore netto”, dovevano indebitarsi per avere una casa, una automobile e gli studi dei figli. Come scrive Gallino: “Il sistema finanziario elaborò gli strumenti idonei per far affluire in massa il denaro dei ricchi  al conto corrente dei poveri ….” In questa ricostruzione tutto si tiene: i profitti dell’1 per cento degli straricchi, i debiti della classe media, profitti e debiti che diventano i veicoli sociali dell’avventurismo del sistema finanziario come risposta alla stagnazione del capitalismo. E, si potrebbe aggiungere, un ultimo passaggio: quell’avventurismo che crea la crisi, al tempo stesso, in Europa, deve provocare un vero e proprio ‘colpo di Stato’ per costringere gli Stati nazionali ad obbedire alle regole di un politica economica di austerità che scarica tutti gli effetti della crisi sui meno abbienti.

Se dovessi dire cosa mi lascia perplesso in questa descrizione, direi che è proprio il radicalismo del linguaggio, dietro il quale mi pare ci sia qualcosa d’altro. Proprio il capitolo VII (“Colpo di Stato in Europa”) è indicativo del problema. Gallino stesso si chiede se sia appropriato utilizzare quel termine forte di ‘colpo di Stato’ per descrivere la situazione dell’Europa, e lo giustifica con un minuzioso ragionamento semantico (pag. 188 e seguenti);  in sostanza ritiene che sia  un modo utile per esprimere la radicalità oggettiva e letterale del problema. Di fatto, in Europa, la crisi è stata usata per uno stravolgimento delle Costituzioni a favore di una austerità imposta dal nuovo potere non costituzionale della Commissione. Le forze che avevano voluto la finanziarizzazione selvaggia, si sono prima assicurate i ‘salvataggi’ ed hanno poi imposto uno  spostamento radicale dei poteri fuori dagli Stati Sovrani.

Può darsi. Ma cosa è stato caratteristico di questo ‘colpo di Stato’, cosa è stato cruciale negli avvenimenti che lo hanno contrassegnato? Direi, la difficoltà ad opporre un diverso contesto di scelte, una diversa direzione possibile, una diversa egemonia. Perché di norma i colpi di Stato provocano resistenze più o meno grandi,  e comunque shocks politici e sociali grandi a prescindere dalla efficacia delle resistenze. Mentre in questo caso è come se la ‘controrivoluzione’ si fosse potuta giovare di un crollo generale delle difese immunitarie. E siccome da ogni colpo di Stato alla fine si esce costruendo nuovi assetti e direi mai semplicemente tornando a quelli precedenti; quanto meno è stata possibile una resistenza, tanto più è necessario considerare cruciale il tema della debolezza delle idee e delle forze di progresso. Prima di uno spostamento radicale dei poteri dagli Stati alla Commissione Europea ed alle varie ‘troike’, era successo molto altro. Le forze di progresso non avevano visto la fragilità dell’impianto istituzionale dell’Europa, la critica macroeconomica a quell’impianto l’avevano lasciata ad altri e non si erano neppure granché curati di quelle diagnosi, all’interno dei vari paesi i benefici di un’Europa che nella espansione pareggiava i tassi di interesse ai livelli dei paesi più forti aveva fatto la fortuna un po’ di tutti, era stata anche un modo per fingere di ignorare la violenza dei processi di finanziarizzazione,  nessuno si era preoccupato delle bolle immobiliari e delle crescenti ineguaglianze almeno sinché disoccupazione e povertà non hanno bussato alle porte.

Vorrei avanzare un esempio degli effetti che possono derivare, sul piano della politica quotidiana, dal distrarre l’attenzione dalla debolezza e più in generale dalla responsabilità dei progressisti. Nella seconda parte del libro Gallino si occupa dei temi di fondo di una politica alternativa: creare occupazione mentre il lavoro scompare, riportare la finanza al servizio della economia reale, etc. Pagine stimolanti, indicative del vero e proprio mutamento di contesto generale che a lui pare indispensabile. Ma non è semplice dedurne una piattaforma concretamente attuale per una battaglia politica in Europa. Le condizioni di quella battaglia politica è chiaro che non possono prescindere da una sorta di preliminare ‘analisi logica’ del campo sul quale ci si misura. Le scelte alle quali Gallino fa riferimento, chiedono alcune condizioni preliminari. Ad esempio, è probabile che tra le prime condizioni preliminari vi sia: eliminare l’assurdità dell’obbiettivo, per i prossimi anni, di una riduzione del debito pari ad un ventesimo all’anno dell’eccesso di debito sul PIL oltre il livello del 60%; eliminare la mera prescrizione per tutti di un tetto del deficit al 3% annuo; contrattare nuove condizioni alle quali pur sottoporre una riduzione delle sovranità di bilancio; risolvere il tema della mutualizzazione del debito (si veda più in generale l’articolo di Stiglitz qua tradotto del 4 dicembre). Direi che sono tutte premesse indispensabili, oltre le quali ha un po’ di ragionevolezza collocare le priorità suggerite da Gallino.

E’ anche troppo facile notare che al momento attuale quelle condizioni preliminari appaiono dirompenti; il che, del resto, non significa che non siano necessarie. Ora, quello che qua interessa non è tanto l’acutezza dello scontro politico tra conservatori e progressisti che sarà necessaria. Il tema che viene prima ancora è quanto siano pronte a comprendere quei temi le forze politiche progressiste, a cominciare dall’Italia (per inciso, se si ritenesse che tali forze politiche oggi in Italia non esistano, o che si riducano a qualche improbabile ‘populismo’ di sinistra, il problema ‘logico’ sarebbe evidentemente più arduo ancora; si tratterebbe in quel caso di capire quale altro scenario vi sia se non quello anzitutto di uscire dal contesto europeo … E in quel caso la cosa più urgente da stabilire sarebbe cosa fare per sopravvivere). Ebbene, stiamo forse assistendo ad un qualche dibattito su come realizzare quelle condizioni preliminari? Non sembra. E non sta accadendo perché il gap di intelligenza politica che ereditiamo dalla sconfitta dei recenti passati, è semplicemente ancora un macigno che lo impedisce.

Ecco i punti di contatto e le diversità che vedo tra la metodica riflessione di Krugman ed un approccio radicale. Entrambi rispondono ad un problema simile: come far superare ad una politica di progresso il ritardo che viene da una sconfitta storica, precipitata in un crisi economica che, tra l’altro, ha materializzato decenni di ritardi intellettuali. Il punto è quale sia la strada migliore per recuperare quella parte di forza che dipende dalla intelligenza della realtà.

I capitoli di una possibile ‘agenda’ di rinnovamento che Gallino elenca nella seconda parte del libro sono un po’ come se uno psichiatra indicasse possibili salutari comportamenti futuri, senza leggere la reale malattia di un paziente che non ha mai capito la natura del suo problema. La prima medicina dovrebbe essere capirsi, e non è detto che lo si faccia usando espressioni forti nel deprecare i danni. Il che non toglie che il libro sia interessante, e che sia esemplare il modo in cui Gallino si sforza di aiutare il lettore alla comprensione di temi complicati.

 

Una storia delle mafie in Europa – 8 dicembre 2013

 

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Jacques de Saint Victor, nato nel 1963, è uno storico francese, professore alla Università Paris 8 Vincennes-Saint-Denis, studioso del pensiero liberale, dei sistemi giuridici, della criminalità organizzata, della storia giuridica della mondializzazione. Nonché critico letterario su Le Figaro. Giorni orsono ho scorto il suo ultimo libro, semiseppellito tra interviste ai personaggi politici del momento; e la ragione per la quale continuo ad avventurarmi in esperienze di acquisto di questo genere è che non mi ha mai abbandonato la fortuna di trovare libri molto belli. Ormai la considero una specie di magia, non perché sia impossibile trovare bei libri, ma perché è una battaglia disseppellirli. Del resto, la modesta cultura degli autodidatti dipende in buona misura da quella magica fortuna.

Il titolo italiano (in francese “Un pouvoir invisible”, 2012, Editions Gallimard) è forse un tentativo di trarre qualche vantaggio dalla prevedibile connessione con la abbondante cronaca sull’ultimo presunto patto scellerato tra potere politico e mafia. Ma è anche un titolo appropriato, per una diversa ragione. Il problema di una definizione corretta dei fenomeni mafiosi è molto complicato; si può leggere il primo capitolo (“Introibo”)  della “Storia della mafia” di Salvatore Lupo (Donzelli Editore, 1993), per farsene una idea. De Saint Victor incardina la sua storia nello scorrere dei rapporti tra mafie e potere nel corso di due secoli, nei “patti” dunque, in un certo senso. Sennonché quello che lo interessa non è tanto una storia morbosa della patologia della “contiguità” delle classi dirigenti; piuttosto è una descrizione di come le aree della impresa mafiosa si evolvono, cambiano nel tempo, in relazione a quello che cambia nella economia, nei processi democratici, nelle emergenze della violenza (guerre e rivolte) e nella ordinaria violenza del controllo della società, nei modi nei quali la gente partecipa alla evoluzione e ai fallimenti di quelle economie e di quelle forme di assistenza, nei consumi vietati e nella più recente apoteosi dei crimini finanziari. Scegliere il punto di vista dei “patti” equivale ad offrire una storia dei fenomeni mafiosi incardinata nella evoluzione di economie, di società e di politiche alle quali si applica il parassitismo e l’invenzione predatoria delle mafie.  Con il risultato di offrire sullo stesso piano una storie delle mafie  ed una storia di tutto il resto, nella loro naturale e comprensibile connessione. A me è parso un libro illuminante, peraltro molto ben scritto (non solo le frasi sono ben scritte, ma la logica è ben strutturata, vale a dire che è uno di quei libri nei quali è evidente che l’autore si è proposto un “racconto”, ha dipanato le cose da dire dal punto di vista di chi le legge; cosa, questa, probabilmente difficile a fronte di un materiale immenso, come quello di due secoli di storie che da paesini e quartieri balzano al mondo e tornano ai luoghi di partenza).

Accade così di comprendere bene come possano stare in un medesimo racconto l’utilizzo risorgimentale del “malandrinaggio” (il prefetto napoletano Liborio Romano che escogita il primo “patto scellerato” al fine di mobilitare le bande camorriste per tenere sotto controllo il popolino sanfedista per evitare una guerra civile nell’imminenza dell’ingresso dell’esercito di Garibaldi!); le forme di collaborazione intensa tra borghesie e mafiosi nella dialettica di minacce e protezioni, dall’economia degli agrumeti a quella delle catene di supermercati; i meccanismi del nascondimento della mafiosità durante il fascismo e la aperta politicità nei sostegni elettorali dell’epoca democristiana; l’avvento dello Stato assistenziale e la collaborazione nel dispiegarne gli effetti e nel predarne fette cospicue (chiave di lettura sostanziale in tutte le storie delle “cattedrali nel deserto”); i diversi effetti del contenimento delle mafie con una crescita democratica ed assistenziale, nella sua versione virtuosa in Francia (Marsiglia) e nella nostra Sicilia; la incontenuta follia  omicida degli anni ’80, guerra interna alla mafia scatenata dalla furiosa gelosia corleonese contro gli enormi arricchimenti delle dinastie mafiose palermitane con i traffici della droga; sino ai paradossi recenti di una criminalità finanziaria che, a partire dagli Stati Uniti, inventa una mafiosità senza bande. Insomma, una storia della mafia come faccia della storia del mondo; capace di impossessarsi di prede rese disponibili da economie e da istituzioni antiche e contemporanee, da mercati di beni che vanno dagli aranci alle autostrade, dalla cocaina ai resti del comunismo sovietico ed ai mutui “subprime”.

Secondo me, un bel libro. A conferma che si può sempre andare in libreria contando di aver fortuna.

 

La conferenza  di Krugman al Convegno del FMI – 5 novembre 2013

6 giugno

Ho di recente tradotto la conferenza di Paul Krugman al convegno annuale di ricerca del FMI a New York, che ora è presentata al primo posto nella sezione relativa ai saggi di questo blog. E’ un testo complesso, in particolare il suo paragrafo terzo, purtroppo non comprensibile per chi è debole in matematica come il sottoscritto. Ma credo che la traduzione sia corretta, che i concetti di fondo espressi in lingua comune siano chiari e che sia anche possibile fare alcune considerazioni.

Il punto di vista di Krugman è quello che deriva dal quesito se nei paesi avanzati del mondo – in particolare Stati Uniti, Regno Unito e Giappone –  che dispongono della loro valuta ed hanno debiti più o meno grandi espressi di norma nella loro valuta, siano possibili gli effetti di crisi di fiducia degli investitori che hanno interessato i paesi della periferia europea e in particolare la Grecia. Krugman ha constatato che la grande “guerra civile” tra gli economisti, che aveva sperato virtualmente conclusa mesi orsono,  in realtà si riproponeva non solo tra le “persone influenti”, ma tra gli economisti medesimi. Ne era stata un prova la recente discussione con Rogoff, nella quale erano anche intervenuti Wren-Lewis e Skidelsky. Il suo sforzo è quello di portare ulteriori argomenti, e certamente non è privo di significato se nel convegno newyorkese del FMI alla sua relazione sia stato riconosciuto il ruolo centrale da un sorprendente Fondo Monetario che, sotto la direzione di Olivier Blanchard, sembra l’unica istituzione attualmente dotata almeno di curiosità intellettuale.

Ma è particolarmente interessante valutare questi suoi nuovi contributi, dal punto di vista della situazione reale e del dibattito politico in Europa ed anche in Italia.

Anzitutto: da anni Krugman ed altri avevano insistito nel mettere in evidenza una “lettura alternativa” della crisi europea; crisi della bilancia dei pagamenti, degli squilibri non governati dei conti correnti dei paesi centrali e di quelli periferici, del blocco improvviso dei generosi e convenienti flussi di capitali dagli uni agli altri dopo la crisi finanziaria del 2008. Tutti questi argomenti sono elencati nella prima parte di questa relazione: la analisi di DeGrauwe (ormai anche di tanti altri) sulla fragilità di sistemi monetari unitari nei quali non è definito con chiarezza il ruolo di “prestatore di ultima istanza” di un soggetto regolatore unitario della politica monetaria; il fatto che, di conseguenza, si sia dovuta attendere la determinazione di Mario Draghi per avere effetti di qualche efficacia nel frenare i fenomeni speculativi; il fatto che i paesi della cosiddetta Europa periferica avessero una marcata somiglianza non negli eccessivi debiti sovrani, ma negli squilibri della bilancia dei pagamenti etc.

Con questo studio, però, quel punto di vista acquista un significato teoricamente più definitivo, o almeno questo è quanto io capisco. Si comprende meglio non solo che questo fenomeno – dei “blocchi improvvisi” dei flussi dei capitali – è una forma consueta delle grandi crisi moderne caratterizzate da un ruolo enorme della finanza (l’espressione era stata coniata a seguito della crisi asiatica della fine degli anni ’90 dall’economista Guillermo Calvo), ma anche che l’azione della fluttuazione dei tassi di cambio è  una condizione fondamentale  per impedire, prevenire e comunque governare crisi di quella natura. Scrive agli inizi Krugman: “è probabilmente degno di nota che l’acquisizione centrale di Mundell e Fleming era che i regimi valutari sono di enorme importanza per la macroeconomia – che gli effetti e l’efficacia della politica monetaria e della finanza pubblica sono abbastanza diversi nella condizione di cambi fissi e fluttuanti. Sostenere, come io farò, che i regimi valutari hanno anche un largo impatto sulla natura e sulle probabilità delle crisi finanziarie è davvero molto nello spirito di Mundell e Fleming.” Ovvero: coloro che avevano espresso “scetticismo” sulla possibilità di funzionamento dei meccanismi della moneta unica europea nel momento in cui si fosse entrati in un fase di improvvisa inversione della tendenza e di recessione, lo avevano fatto non solo sulla base di una lettura delle difficoltà specifiche di quell’esperimento in Europa – diversi mercati del lavoro e diversi bilanci pubblici – ma sulla base di una idea assai più generale del funzionamento delle economie. Se posso dirlo in modo magari un po’ semplicistico: non solo ci è mancato sul momento il ruolo di una banca centrale che dichiarasse di voler e poter fare il suo mestiere, dinanzi alla quale gli spazi per la speculazione finanziaria o anche solo per la espressione di paure da parte degli investitori sarebbero stati ridotti. Più in generale, abbiamo rinunciato a strumenti naturali di politica monetaria, perché non li abbiamo più come nazioni singole e siamo lontani dall’averli  come federazione di nazioni diverse. Il che, in sostanza, significa che è ormai all’ordine del giorno o un definitivo fallimento, o uno storico balzo in avanti nella costruzione dell’unità europea. Che è il tema fondamentale di un importante libro recente, “Il teorema del lampadario” di Jean-Paul Fitoussi, sul quale vorrei prossimamente dire le mie impressioni.

E’ chiaro che si tratta in fondo di una conseguenza di tutti gli argomenti che erano stati messi in fila nel corso di questi ultimi anni. Ciononostante, questa definitiva messa a punto arriva in un momento significativo. La Commissione Europea (con una mossa nella quale parrebbe di poter leggere un po’ di saggezza, se non si trattasse, come è più probabile, di solo equilibrismo) “apre una procedura” nei confronti delle esportazioni eccessive della Germania …. Non è curioso che sotto accusa siano le esportazioni eccessive, senza che in precedenza a nessuno fosse venuto in mente di aprire procedure sulla domanda interna insufficiente o sulla inflazione troppo bassa? E’ un po’ come mettere sotto inchiesta un atleta perché corre troppo veloce, anziché per sospetto ‘doping’.  A nessuno viene in mente che, tra le cose “eccessive”, c’è il fatto che la Germania è considerevolmente premiata da un tasso di cambio favorevole in virtù delle sofferenze di una discreta parte dell’Europa, del quale cambio certamente non godrebbe se ancora avesse il marco (si veda il post di Krugman del 27 settembre, “La Germania come manipolatrice di valuta”)? Per non dire del catastrofico linguaggio curiale europeo: dire che si apre una “procedura” sul tema del futuro di tutti (“si può ancora sognare d’Europa?”, si chiede Fitoussi) non è lo specchio della ineffabile incompetenza democratica della Commissione Europea?

Insomma, i nodi vengono sempre più al pettine, e con essi il dubbio che il pettine non basti.

 

Letture dell’americanismo: un libro di Victoria de Grazia. 27 ottobre 2013.

 

www 64“L’impero irresistibile” (Einaudi 2006) di Victoria de Grazia (nata a Chicago, nonno paterno siciliano, studiosa del fascismo italiano e docente alla Columbia University) è una lettura importante, se si hanno in mente interrogativi del genere di quelli ai quali ho fatto cenno nell’appunto precedente a proposito delle riflessioni di Krugman sul capitalismo americano di questi anni. Il libro, in America nel 2005, è precedente al nuovo ‘scalino’ della informatica ‘wireless’ degli ultimi anni; più in generale si ferma alle soglie dell’avvento delle tecnologie della informazione e della comunicazione della metà degli anni ’90. Ma abbraccia l’intero secolo precedente: una miniera di informazioni e di storie sulla egemonia commerciale e sociale americana, dal fordismo ai grandi magazzini, alle strategie dei marchi, dall’industria cinematografica alle catene del commercio al dettaglio, dall’avvento dei supermercati, compresi quelli di iniziativa americana di Milano e di Firenze,  alla  storia della Fiera di Dresda, dal ‘fast food’ allo ‘slow food’ (indicato come un crepa non insignificante in quella egemonia).

Evitando sistematicamente di perdersi in una trattazione, diciamo così, teorica dell’americanismo – unica eccezione una pagina nella quale si coglie la singolarità, per acutezza e passione, degli appunti di Antonio Gramsci su “Americanismo e fordismo” – il libro fornisce tutto il resto, con un gusto piacevole e sempre acuto dell’aneddotica e delle storie locali.

Intanto, non solo di americanismo e fordismo si tratta, ma di americanismo/fordismo e “filenismo”, quest’ultimo da Edward Albert Filene, anche definito l’ “Apostolo della distribuzione”. La descrizione di questo curioso personaggio, di madre ebrea bavarese e di padre ebreo polacco, perenne pendolare tra Stati Uniti ed Europa ed ispiratore di studi, ricerche, intuizioni ed esperimenti  sulle nuove frontiere del commercio, ci introduce ad un percorso nel quale profitto ed ideologia  vanno di pari passo, o meglio si misurano l’uno con l’altra sul terreno delle reciproche concrete prestazioni. E il democratico Filene, probabilmente, esprime meglio ancora il verso di quella egemonia rispetto all’antisemita Henry Ford (non a caso Ford, nei primi anni Venti, venne sopravanzato da Alfred Sloan, a capo della General Motors, proprio sull’idea di produrre autovetture “per tutte le tasche e per tutti gli usi”; e l’idea era quella di Filene).

Quello che, in generale, si comprende meglio è la connessione di tante storie diverse all’interno di quell’ “impero irresistibile”. La De Grazia la esprime in vari modi: la “middleness”, ovvero l’invenzione materiale di una classe media, dei suoi consumi e delle sua cultura; oppure quella che chiama la “sociabilità” dei settori più innovativi del capitalismo americano, che è come dire la permeabilità dell’industria ad una idea di mercato focalizzata sui quella continua evoluzione dei bisogni della classe media. Il “welfare” che in Europa è nato sul fallimento dei nazionalismi e sul successivo ruolo degli Stati, in America appare in grande misura come un processo interno alle dinamiche dell’economia. Con la grande eccezione, però, del “rooseveltismo”, ovvero di una politica che prende il sopravvento nel momento in cui l’economia deraglia (nel mentre in Europa il rimedio keynesiano fu allora soprattutto affidato all’industria degli armamenti ed alla preparazione della Seconda Guerra Mondiale).

E’ inevitabile che quella storia solleciti qualche ricordo su altre letture dell’ “americanismo” che abbiamo avuto a disposizione. Il primo si connette proprio alle pagine di Antonio Gramsci alle quali la De Grazia si riferisce ed al progetto di studio che egli sintetizzò in un concetto fondamentale: la differenza tra America ed Europa, soprattutto consistente nel fatto che nel primo paese “non esistono classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie”. Gramsci accennava agli esempi italiani di questo parassitismo, anzitutto “la media e piccola proprietà terriera (che) non è in mano a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo”, ed anche la “amministrazione dello Stato”, del cui bilancio viveva “un decimo della popolazione”. Scriveva Gramsci: “La non-esistenza di queste sedimentazioni vischiosamente parassitarie, lasciate dalla fasi storiche passate, ha permesso (negli Stati Uniti) una base sana all’industria e specialmente al commercio e permette sempre di più la riduzione della funzione economica rappresentata dai trasporti e dal commercio a un reale attività subalterna della produzione …” E’ evidente che egli non potesse immaginare sino a che punto tale “subalternità” non sarebbe stata una semplicistica riduzione della società alle tecniche della ‘catena di montaggio’, ed avrebbe in particolare aperto un campo enorme di nuova produzione di cultura e di bisogni. Ma non era un caso se indicava proprio nel commercio lo sviluppo potenzialmente più innovativo e se, in altre pagine, si occupava senza alcun pregiudizio di temi (come la libertà di pensare pur stando alla catena, il tempo libero e la sessualità) che in fondo sentiva più di tanta retorica attinenti ad un processo di creazione di un ‘ordine nuovo’. Il pieno operare del motore del profitto poteva produrre l’effetto di una egemonia vasta, capace di permeare la società intera; e Gramsci non aveva timore ad indicarlo come un elemento di progresso. Il tutto poi accadeva in un carcere, quasi prima che tutta quella storia cominciasse.

Altre pagine che mi sono venute alla mente sono quelle di Keynes sul ruolo della “speculazione” nell’economia e nella società americana. Egli non usava il termine speculazione nel senso più ordinario; ne parlava nell’ambito di un capitolo della Teoria Generale nel quale si occupava della difficile previsione degli effetti degli investimenti nel lungo termine. Distingueva, appunto, tra la speculazione,  intesa come “l’attività di prevedere la psicologia del mercato”,  e l’intraprendenza, intesa come “l’attività di prevedere il rendimento prospettico dei beni capitali per tutta la durata della loro vita”. Si tratta delle pagine che precedono il famoso esempio di quello che accade “quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di una casa da gioco”. In quel caso, quando la speculazione così intesa domina l’intraprendenza, concludeva “è probabile che vi sia qualcosa che non va bene”. A me ha sempre colpito, un passaggio di poche righe precedente, nel quale paragonava l’investimento ai vecchi concorsi di bellezza che avevano luogo sui giornali, nei quali il lettore sceglieva il ‘volto più grazioso’ non tanto per i suoi gusti, ma cercando di avvicinarsi “con la sua scelta, alla media fra tutte le risposte”, giacché quello avrebbe deciso sulla probabilità di scegliere la candidata vincente. E questa capacità di scommettere su quello che sarebbe stata l’opinione media la considerava una caratteristica fondamentale della società americana: “Anche fuori del campo finanziario, gli americani sono eccessivamente propensi ad interessarsi di scoprire come l’opinione media immagina che sarà l’opinione media stessa …”

Ebbene, il libro della De Grazia mi pare in fondo tutto attinente a questa definizione dell’ “americanismo”. Che certamente è una “croce”, dato che sistematicamente quel genere di speculazione porta alla crisi finanziarie ed ai collassi sistemici, nonché spesso ad una particolare rozzezza delle classi dominanti; ma è anche almeno in parte una “delizia”, quando la scommessa sulla psicologia indovina, nel bene e nel male,  i probabili modi di essere della nostra vita futura.

Temi tanto più affascinanti, se si considera che l’ultimo ventennio di rivoluzione informatica, dinanzi al quale il racconto della De Grazia si arresta, è in fondo il capitolo più sensazionale di quella stessa storia.

 

Rogoff e Osbornia. 27 ottobre 2013.

 

Abbiamo tradotto l’intero  dibattito provocato dall’articolo del 2 ottobre di Kenneth Rogoff (“Il Regno Unito non dovrebbe considerare garantito il suo status di creditore”). Ovvero, in sequenza: Simon Wren-Lewis il 3 ottobre ( “Ken Rogoff sull’austerità inglese”); Paul Krugman, ancora 3 ottobre (“Crisi fantasma”); la replica a entrambi di Kenneth Rogoff del 7 ottobre (“Tre sbagli non fanno una cosa giusta”);  la controreplica di Krugman del 7 ottobre (“Credibilità fino in fondo”); l’intervento di Robert Skidelsky del 21 ottobre (“Un’opinione distorta dell’austerità inglese 21 ottobre”).  A parte l’interesse in sé dell’argomento – se la politica economica di austerità di questi anni del Regno Unito fosse giustificata dal rischio di essere travolti da un collasso dell’euro – confesso che quella discussione mi aveva attirato per una diversa ragione: quale evoluzione ci sarebbe stata nel confronto tra Rogoff e Krugman, dopo le polemiche abbastanza aspre a seguito della scoperta di alcuni errori piuttosto clamorosi che Rogoff e la Reinhart avevano commesso nel sostenere la tesi della “soglia pericolosa” di un rapporto debito-PIL del 90 per cento? Quelle polemiche avevano provocato una eco abbastanza vasta; si erano registrate prese di posizione ostili alla “ruvidezza” di Krugman da parte di altri economisti (ad esempio, Raghuram Rajan, il 7 agosto); Krugman stesso, del resto, pur con la nettezza con la quale conduce le sue polemiche, non aveva mai taciuto il rispetto per le ricerche di Rogoff sulla storia del debiti pubblici nazionali. E, nel passato, nello schieramento di Krugman non erano certo mancati inviti – in una occasione proprio da parte di Wren-Lewis – a condurre il dibattito con maggiore accortezza; segni, diciamo così, di differenza di valutazioni ‘tattiche’ che mi avevano interessato. Insomma: il tema di come si evolve la ‘politica degli economisti’, soprattutto angloamericani.

Non ripercorro qua dettagliatamente  i contributi – talora specialistici – di quest’ultima discussione. In estrema sintesi si potrebbero riassumere in questo modo: da Rogoff una giustificazione con qualche distinguo alle politiche di austerità dei conservatori inglesi, perché il rischio di essere coinvolti in una débâcle dell’euro  non sarebbe stato, in questi anni, immaginario (nel testo si ironizza su un Signor Pangloss del debito pubblico, che avrei giurato essere il Premio Nobel americano …); Wren-Lewis pare soprattutto interessato a ricucire una discussione meno aspra, incassa i riconoscimenti di Rogoff alla possibilità di maggiori investimenti in questi anni e ricorda che la Banca di Inghilterra avrebbe potuto tranquillamente fronteggiare una poco verosimile ‘fuga’ degli investitori; Krugman, suppongo a fatica non raccogliendo la provocazione su Pangloss e dicendosi  interessato ad un confronto serio, mette in evidenza i modelli che indicano come le paure di Rogoff siano infondate; Rogoff replica insistendo che se l’euro si avviasse ad un esito calamitoso le sue tesi sarebbero possibili anche con i modelli indicati da Krugman; Krugman controreplica osservando che nessun diverso modello è stato offerto e che il tema della credibilità sembra trattato da Rogoff in modo un po’ ossessivo; Skidelsky rigetta e ridimensiona tutto l’impianto storico degli argomenti di Rogoff – ovvero la pretesa consuetudine del Regno Unito con rischi di default – mostrando in modo convincente la sua esagerazione ed infondatezza. E ognuno ne tragga le conclusioni che più gli aggradano.

Ma ci sono due aspetti che non ho compreso.

Il primo: in Rogoff c’è un assunto implicito, che il Regno Unito sia un continente a sé, non un membro dell’Unione Europea dal 1973. Voglio dire, non si tratta solo del fatto che abbia mantenuto la sua moneta, ma che non abbia alcuna parte e alcun interesse a partecipare come partner alle sorti economiche dell’Europa; come se camminasse necessariamente adiacente al muro della costruzione europea, con l’unico pensiero che gli possa crollare addosso. In termini politici è un assunto piuttosto curioso; tanto varrebbe, allora, per essere credibili verso gli investitori, allontanarsi da tutta l’impresa, scansarsi in modo più vistoso. Invece si siede nel secondo scranno dell’ “Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”, che è anche Vicepresidente della Commissione Europea. Ammetto che possa essere un pensiero ingenuo, ma perchè non essere nemmeno sfiorati dall’idea che un progetto sensato di Europa possa essere tra i temi di interesse anche economico del Regno Unito?

Il secondo, sicuramente meno ingenuo: quella politica di austerità ha migliorato le prestazioni finanziarie del Regno Unito? Ha reso più solida quella credibilità? Al proposito, il 10 marzo 2013 Krugman pubblicava sul suo blog un post (“Il FMI sulla trappola di liquidità”) con una interessante elaborazione, consistente nel simulare due possibili andamenti del debito in un paese scherzosamente definito “Osbornia”. Una delle due simulazioni (quella coerente con politiche di austerità)  veniva fatta sulla base di una ipotesi di una perdita per effetto di tali politiche dell’1 per cento del PIL potenziale all’anno, con un effetto moltiplicatore dell’1,3; l’altra invece prevedeva che il deficit di bilancio venisse lasciato a se stesso. Nel secondo caso il debito (in rosso) sarebbe rimasto simile, nel primo (in blu)  avrebbe avuto  l’evoluzione seguente:

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Il calcolo veniva fatto sulla base della intervenuta ammissione da parte del FMI di una clamorosa sottostima dell’effetto di moltiplicatore che era invalsa nel passato, e quindi adottando una stima finalmente realistica (appunto, 1,3). Come si vede, al sesto anno la situazione del debito risultava in peggioramento. E “Osbornia”, se non si fosse capito, sarebbe il Regno Unito del Cancelliere dello Scacchiere George Osborne. Ma allora di che si parla?

 

Cosa è cambiato in questa Grande Recessione  (3 ottobre 2013)

 

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Come forse si sarà notato, negli ultimi mesi sono apparsi vari contributi di Krugman che indicano novità importanti nel suo orizzonte di ricerca. Dopo alcuni anni di insistenza tenace sul tema delle politiche monetarie e della finanza pubblica effettivamente antirecessive e di denuncia del disastro delle politiche di austerità – periodo ed argomenti raccolti poi nel libro “Fuori da questa crisi, adesso!” – sembrava quasi di poter intuire che nuove domande si sarebbero fatte avanti. Siamo nella seconda più grave crisi della storia dell’ultimo secolo e dalla prima si venne definitivamente fuori, in termini economici, con il riarmo e con la guerra; ovvero, rischiando tutto in termini di umanità e di cultura. La discussione sul come uscirne non può esaurire le risposte sul perché è avvenuto di nuovo, ed anche sulle diversità odierne.

In particolare con l’articolo sul NYT del  20 giugno (“Profitti senza produzione) Krugman ha affrontato la questione in modo esplicito: è cambiato qualche elemento di fondo negli assetti contemporanei dell’economia? Più precisamente, nel mondo di oggi, è cambiato qualcosa di sostanziale nel confronto tra una terapia keynesiana della depressione ed una ‘non-terapia’ ispirata all’idea di schumpeteriana memoria della “crisi salutare”? O addirittura: il fatto che una parte rilevante della produzione manifatturiera si sia spostata dai paesi avanzati ai mercati emergenti, ha modificato alla radice la stessa possibilità di concepire una ripresa come un puro e semplice ritorno alla produzione potenziale precedente alla crisi?

Oltre all’articolo suddetto, e sotto altre angolazioni, Krugman ha affrontato il tema in varie occasioni. Si vedano, nell’ordine:  “I robot e i ‘padroni del vapore’”, New York Times 9 dicembre 2012;  “Simpatia per i Luddisti”, New York Times 13 giugno 2013;  “Globalizzazione e macroeconomia”, post del 18 giugno 2013;  “In che senso questi sono tempi diversi?”, post del 19 giugno 2013;  “Sulla economia politica della stagnazione permanente”, 5 luglio 2013;  “La Dinamo e Big Data”, post del  18 agosto 2013; “Commercio e stagnazione secolare”, post del 26 settembre 2013; “Dovrebbe preoccuparci un rallentamento della crescita commerciale?”, post del 30 settembre 2013.

Gli argomenti sono molteplici e qua vorrei ricordare solo quello che sinora sembra il principale.

Osserva Krugman che il volume del commercio mondiale di beni manifatturieri come percentuale della produzione manifatturiera è certamente cresciuto notevolmente a partire dagli anni ’70 (in precedenza aveva solo recuperato i crolli bellici e post bellici ed era tornato ai valori dei primi dieci anni del secolo); ma tale crescita in misura prevalente ha portato giovamento nei paesi più avanzati, dove è rimasta la parte fondamentale della ideazione, del commercio e del consumo dei nuovi beni. Inoltre, non è detto che non possano aver luogo, a seguito della automazione, fenomeni di ritorno di segmenti manifatturieri di alta specializzazione.

Quello che però è cambiato è certamente il modo nel quale il primato dei mercati avanzati, e degli Stati Uniti anzitutto, si esprime. Per dirlo con le parole di Krugman: “Cosa c’è dunque realmente di diverso nell’America del ventunesimo secolo? La risposta più rilevante, direi, è l’importanza crescente delle rendite monopolistiche: profitti che non rappresentano ritorni degli investimenti, e riflettono invece il valore del dominio sui mercati. Qualche volta il dominio sembra meritato, qualche volta no; ma, in ogni caso, l’importanza crescente delle rendite sta producendo una nuova sconnessione tra profitti e produzione e può essere una causa del protrarsi della crisi.

E ancora: “Cosa intendo per il ruolo delle rendite? Si consideri quanto è cambiata l’identità della società di maggior valore in America. Per un lungo periodo fu la General Motors, poi la Exxon, poi la IBM. Erano imprese con attività produttive molto visibili: la GM aveva più di 400.000 occupati, il che era impressionante se si considera che la complessiva forza lavoro nazionale era molto più piccola di quella che abbiamo oggi. La Exxon aveva le raffinerie del petrolio. La IBM era un società della tecnologia dell’informazione, ma aveva ancora molte delle caratteristiche di un tradizionale gigante manifatturiero, con molti stabilimenti ed ampie maestranze ben pagate. Ma ora abbiamo la Apple, che a fatica ha degli occupati ed a fatica fa qualcosa di manifatturiero. La società cerca, con sforzi disperati di pubbliche relazioni, di sostenere che essa ha la responsabilità indiretta di una quantità di posti di lavoro negli Stati Uniti, ma non è importante. La realtà è che la società è fondamentalmente costruita sulla tecnologia, sul design e sul marchio”.

Sicuramente ci sarà il modo di seguire attentamente questa nuova fase di ricerca. Ma il punto di partenza sembra chiaro: molto è cambiato. Ma quei cambiamenti non significano che ridurre la spesa pubblica in un periodo di depressione sia oggi meno insensato di quanto fosse nel passato. Piuttosto significano che potrebbero essere entrati in gioco fattori ulteriori – oltre alla finanziarizzazione senza regole, una forza crescente delle rendite di monopolio – che in fondo rendono anche più grande ed urgente il tema della qualità dell’indirizzo pubblico dell’economia.  O, se vogliamo dirlo in modo meno impegnativo, il tema della ampiezza e della qualità della domanda pubblica, del riconoscimento dei diritti ai quali la spesa pubblica deve corrispondere: di lavoro, di salute, di istruzione, di ambiente.

Un libro uscito in queste settimane anche in Italia: “Big Data”, di Viktor Meyer-Schönberger e Kenneth Cukier, ha implicazioni dirette con il ragionamento di Krugman sulla relativa ‘immaterialità’ dei monopoli americani di questi decenni. E’ un libro che si legge con piacere; realistico e per niente fantascientifico nelle sue previsioni, nonché moderatamente preoccupato per gli effetti di questa nuova frontiera. Soprattutto i primi capitoli, diciamo la spiegazione della ‘teoria’ del Big Data, fanno impressione. In sostanza, mettendo assieme gli oceani di informazioni che si possono organizzare e che ormai esistono, raccolte da miliardi di ‘agenti’ sul territorio (Internet, telefoni, sistemi informatizzati sugli autoveicoli, satelliti, attività commerciali, assicurazioni, televisioni, sistemi sanitari …. insomma, tutto)  si possono scoprire ‘correlazioni’ con domande alle quali cerchiamo di rispondere. Correlazioni significa una cosa del tutto diversa dal procedere cercando le concatenazioni logiche di cause e di effetti; una correlazione può essere istruttiva totalmente a prescindere con il nesso diretto che ha con quanto si sta cercando di capire. Appunto, come un battito d’ali d’una farfalla e un terremoto dall’altra parte del mondo (espressione che mi ha sempre provocato come una fanciullesca meraviglia per tutto quello che non ho mai saputo della scienza odierna) . Il punto è che queste correlazioni esistono – non quella della farfalla, spero! –  e un po’ alla volta disegnano nuovi orizzonti dell’economia, perché danno risposte più precise ed anticipate delle quali l’economia può fare uno straordinario uso.

 

Il dibattito del 2009 sullo “stimulus” (25 settembre 2013)

Agli inizi del 2009 il tema principale per Krugman divenne quello della critica all’insufficienza dello “stimulus” di Obama. Praticamente tutti gli ingredienti del dibattito economico degli anni successivi si stavano disponendo sul tavolo: quanto tempo ci sarebbe voluto per tornare davvero alla “produzione potenziale” ed alla piena occupazione; quanto intervento pubblico sarebbe stato necessario per coprire il “buco” della domanda privata; stava per innescarsi un processo inflattivo oppure era vero il contrario, e si era entrati in un periodo prolungato di bassa inflazione e di bassi tassi di interesse; la mancanza di determinazione di Obama in quei mesi non avrebbe comportato una prolungata latenza della crisi e, in aggiunta, non avrebbe comportato un prevedibile insuccesso alle elezioni di medio termine? Mi permetto di consigliare una lettura, o una rilettura, di quegli articoli del gennaio 2009; essi, tra l’altro, aiutano a comprendere la più recente forte presa di posizione di Krugman a favore della candidatura di Janet Yellen  alla presidenza della Fed, e in particolare la sua chiara e tenace ostilità alla candidatura di Larry Summers.

Nei primi giorni di gennaio 2009, che erano anche i primi giorni della sua Presidenza,  Obama aveva dichiarato: “Io non credo che sia troppo tardi per cambiare direzione, ma sarà così se non prenderemo una iniziativa drastica prima possibile. Se non sarà fatto niente, questa recessione potrà trascinarsi per anni”. Krugman apprezzò quelle parole, ma notò,  nell’articolo sul NYT dell’8 gennaio 2009, che il programma copriva circa un terzo della caduta complessiva della domanda. E solo per il 60 per cento erano interventi di incremento effettivo della spesa, per il resto si trattava di riduzioni fiscali alle imprese ad ai singoli, assai meno direttamente efficaci su investimenti e consumi. Si delineava inoltre un confronto nel Congresso che avrebbe ulteriormente ridotto l’efficacia delle misure di sostegno; in particolare non si sarebbe fatto niente per dare sostegno agli Stati, che senza aiuti avrebbero addirittura dovuto ridurre la spesa, con forti tagli dell’occupazione pubblica, particolarmente nel settore educativo. Per finire, il piano concentrava in un anno o due le misure di sostegno, nell’ipotesi che il resto del lavoro lo avrebbe fatto una ripresa dell’economia, che si supponeva realistica sin dalla fine del 2010.

Capita da noi di leggere spesso ricostruzioni assai sommarie sulla politica economica americana di quegli anni. Oggi che la prosopopea dell’austerità europea è abbastanza declinante, il giudizio più frequente è che l’America capì l’urgenza di un intervento sulla domanda e che questo le ha consentito, diversamente dall’Europa, di  uscire più rapidamente dal periodo recessivo. Ma le cose sono assai più controverse.

Intanto, l’andamento reale della spesa pubblica americana – cioè, quella federale, ma anche quella degli Stati e delle comunità locali – è complessivamente diverso da quello che si racconta. Per farsene un’idea si veda la tabella pubblicata col post del 13 settembre scorso di Krugman, nella quale si paragona l’andamento degli acquisti in beni e servizi in questi anni con quello che si avrebbe avuto se si fossero messi in atto interventi simili a quelli successivi alla recessione del 2001, quando era Presidente Bush:

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In pratica, c’è stata anche una austerità americana, nella misura in cui le misure federali di sostegno all’economia non sono state sufficienti, non hanno compensato la riduzione di spesa ai livelli degli Stati e delle comunità locali e sono durate per un periodo troppo breve. Krugman calcola che un incremento della spesa pubblica come quello del 2001 avrebbe prodotto una conseguenza sul PIL tra il 3 ed il 3,75 per cento del PIL. Il tasso di disoccupazione sarebbe oggi “ben al di sotto del 6 per cento, forse al di sotto anche del 5,5 per cento”.

Del resto, in quei giorni, Christy Romer e Jared Bernstein, due economisti di spicco del gruppo di consulenti presidenziali, prevedevano che con quel programma nell’ultimo trimestre del 2011 il tasso di disoccupazione sarebbe stato ancora insufficiente a definire una vera e propria ripresa, attorno al 6,3 per cento. Sennonché le cose sono andate ancora peggio, considerato che nel 2013 i tasso di disoccupazione è ancora sopra il 7 per cento e considerato soprattutto che c’è un quantità di “scoraggiati” – nella popolazione adulta nella principale età lavorativa (24, 54 anni) – che non cerca attivamente lavoro perché non lo troverebbe.

Se un bilancio dello stimolo venisse poi espresso in relazione al PIL potenziale (ovvero, quale effetto le misure di sostegno hanno avuto in relazione al PIL quale sarebbe se la crisi non tenesse ferma una parte del potenziale produttivo statunitense), il risultato è in questo grafico che proviene dalla Fed e che Krugman commenta nel post del 3° agosto 2013, dal sintetico titolo “Troppo piccolo e scomparso troppo presto”):

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In conclusione, gli scritti del 2009 erano purtroppo profetici. Semmai, si dovrebbe forse aggiungere, per difetto.

Quanto alla ostilità esplicita alla candidatura di Summers alla Presidenza della Fed (come è noto, Summers si è successivamente ritirato dalla corsa), c’è da considerare che in quelle decisioni del 2009 egli ebbe un ruolo principale.

 

La spiegazione di Kalecki (settembre 2013)

 

Michal Kalecki

Michal Kalecki

Nel 1943 l’economista polacco di orientamento marxista Michal Kalecki scriveva un breve saggio (“Aspetti politici del pieno impiego”, Editori Riuniti, 1975) nel quale dava una sua versione dei motivi per i quali i gruppi imprenditoriali, e con essi i variegati interessi delle conservazione economica e politica, avevano “una avversione … al mantenimento del pieno impiego attraverso le spese statali”. Tale avversione, notava Kalecki, era stata generalizzata negli anni Trenta, forse con l’unica eccezione del capitalismo tedesco (dove l’eccezione aveva soprattutto riguardato una grande crescita delle spese militari). Perché, se in fondo quelle politiche di piena occupazione favorivano anche una piena ripresa dei profitti? Come ricorda Krugman, la risposta di Kalecki era semplice: perché i gruppi capitalistici hanno, nelle crisi, un sorta di potere di veto e sembra logico che la ripresa debba passare attraverso la loro ‘fiducia’. Se lo Stato trova una soluzione a prescindere dalla loro fiducia, quei gruppi diventano meno forti, sia nella affermazione dei loro interessi quotidiani (fiscali, ad esempio), che in generale in termini politici. Tutto qua.

Krugman nei mesi recenti è tornato frequentemente sulla questione, in particolare con l’articolo sul New York Times dell’8 agosto (“Il fattore della paura fasulla”).

Non avendo mai letto niente di Krugman che somigliasse ad una qualche approvazione di un punto di vista di un marxista, e ricordandomi di quel libro degli “Editori Riuniti” in qualche zona profonda della mia gioventù, ho avuto un soprassalto. Ma c’è una spiegazione duplice: la prima, come Krugman scrive nel suo articolo, è che Kalecki non gli era mai sembrato un marxista ortodosso. E, in effetti, andando a rileggerlo, mi sono finalmente accorto che era uno dei pochi casi di una lettura della crisi degli anni Trenta che, da quel versante, veniva condotta con simpatia e piena assonanza con gli argomenti keynesiani. La seconda, che Krugman dice con il suo divertente stile assertorio, è più semplice ancora: in sostanza, chi non avesse capito che dalla crisi di questi anni ne deriva una qualche rivalutazione di punti di vista più radicali, forse in questi anni dormiva!

Ma, a parte lo stile, vorrei sottolineare un aspetto più di fondo che attiene al modo nel quale procede la ricerca di Krugman, direi alla trasparenza del suo lavoro intellettuale. Il blog, come si è capito, è la sede principale di tale ricerca e della sua evoluzione politica; diciamo che è il luogo nel quale egli studia, riflette, e si assume giorno per giorno il rischio di prendere posizione. Nel frattempo, si giudichi questo aspetto come si vuole, è un fatto che egli abbia colto con una chiarezza quasi unica gli elementi di fondo della crisi che viviamo; ed anche che di conseguenza sia diventato (il giudizio e nientemeno del Wall Street Journal) l’economista-giornalista più influente negli Stati Uniti e nel mondo. Se posso esprimermi in questo modo: il tema delle sue opinioni politiche – dentro quella scelta di totale e quotidiana trasparenza – si è ingigantito. Mi pare che la sua risposta sia chiara, e consista nel non sottrarsi alle domande più grandi. Occorre anche ripensare alla grande questione degli interessi e delle classi, di come tutto ciò influisce e in parte determina la politica. Occorre fare i conti con Kalecki o, per altri aspetti, con Minsky (un economista americano del quale Krugman in questi anni ha sottolineato un grande debito mai ammesso in precedenza). Temi che un tempo appartenevano forse alla storia dei movimenti e dei Partiti, per la dilatazione enorme delle forme della comunicazione e per la crisi delle istituzioni della politica, diventano cruciali nella ricerca individuale di alcune persone.

 

Statistiche, diagrammi e linguaggi (settembre 2013)

Dopo un po’ che si legge il blog di Krugman, e naturalmente anche di qualche altro economista, si scopre che esiste una dimensione del comprendere che non utilizzavamo quasi per niente: grafici, statistiche, proiezioni, pezzi di storia passata e futura che entrano nella memoria in quella forma. Ci si può chiedere se sia semplicemente naturale che questa dimensione non appaia su giornali e riviste; alla fine, non parrebbe un linguaggio così difficile per i non esperti. Alcuni di questi materiali, certamente, non sono di immediata comprensione; ma spesso sono solo soluzioni più precise e sintetiche per raccogliere informazioni che sarebbe meno efficace descrivere con il linguaggio ordinario. In fondo, la differenza è tra il leggere tali informazioni una ad una, oppure il leggerle mettendole a confronto assieme in una certo numero ed ordinate in una certa prospettiva; una tabella, fondamentalmente, confronta dati tra di loro e/o li misura nel tempo. Forse non si trovano nel normale linguaggio dei giornali e delle riviste semplicemente perché è più comodo scrivere parole, senza bisogno di fornire prove o di misurarsi con dati che impongono pensieri più complicati? O è una conseguenza di una forma di dominio del più frequente vaniloquio della politica? Non saprei. E’ certo che dietro una apparente questione di grafica, ci sono molte conseguenze di sostanza, come per ogni problema di linguaggio. E’ tutto il nostro ragionare di politica e di economia che normalmente è povero di prove. Ovvero, povero di domande e inaffidabile nelle risposte.

Se si vuole un magnifico esempio di questa forma di linguaggio si veda il post del 31 agosto “I banchieri, i lavoratori, Obama e Summers” di Paul Krugman. Egli deve mostrare come esistano due modi per leggere una politica di una banca centrale, e gli interessi sui quali essa si fonda: quello delle banche e quello dell’economia nel suo complesso. Per farlo vuole mostrare come le politiche che sono state perseguite dal 2008 ad oggi abbiano avuto significati diversi e prodotto effetti diversi in quei due settori di riferimento. E il problema lo risolve con due semplicissimi diagrammi:

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Il primo indica gli interesse delle banche, il loro stress ha avuto un picco con la crisi del 2008 e le cose sono subito tornate a posto. Il secondo indica gli interessi dei lavoratori occupati, che non sono mai tornati a posto. Concetto chiarissimo, con l’aggiunta che si è acquisita una informazione fondamentale ed incontrovertibile.

 

Disturbi della personalità (agosto 2013)

Rajan (8 agosto) se la prende con lo stile paranoide di Krugman, ovvero quello stile derivante da “un disturbo della personalità di chi, diffidente e sospettoso, interpreta gli altri in modo eternamente malevolo”. Vagheggia poi di un dibattito accademico che sarebbe superiore al ‘dibattito pubblico’; il secondo, avendo bisogno di ‘seguaci’ da appassionare, sarebbe intrinsecamente più povero. Dunque: troppa polemica.

Un esempio preso a caso: nel disastro greco il FMI ha riconosciuto che le decisioni della troika erano viziate da due errori di fondo: non si era considerato che “la Grecia semplicemente non poteva ripagare interamente il suo debito”, e si era “grandemente sottostimato il danno economico che l’austerità avrebbe provocato” (dal blog di Krugman, 5 giugno 2013). Sembrerebbe materia per accademici; stimare bene o male l’effetto ‘moltiplicatore’ di quelle politiche dovrebbe essere pane quotidiano per gli economisti. Alcuni economisti in effetti l’hanno considerata assai importante (Simon Wren-Lewis, 13 giugno 2013). Ma i teorici della ‘austerità espansiva’ se ne sono lavati le mani. Al tempo stesso quella notizia è una enormità sul piano politico: da quella vicenda è dipeso non poco il successivo disastro europeo. Ma la Commissione Europea  l’ha senza esitazione alcuna seppellita nel silenzio.

Troppa polemica o poca polemica, allora? Nella Prefazione alla sua Teoria Generale Keynes scriveva nel 1936: “Se .. l’economia ortodossa è in difetto, l’errore va trovato non nella sovrastruttura, che è stata eretta con gran cura di coerenza logica, ma nella scarsa chiarezza e generalità delle sue premesse. Non posso quindi raggiungere il mio scopo … se non mediante … molta polemica.”

Il dubbio: Keynes era paranoide? O piuttosto  Olli-Rehn è schizoide? (“personalità il cui tratto principale è la mancanza del desiderio di relazioni strette con altri esseri umani, e il “distacco” emotivo rispetto alle persone e alla realtà circostante.”)

 

La trappola di liquidità: una caso di censura? (agosto 2013)

A proposito della ‘eleganza’ del dibattito tra le diverse scuole economiche, o più precisamente dei modi nei quali una di esse (la si può definire in tanti modi:  neoclassica, ‘austriaca’, della teoria del ‘ciclo economico reale’, degli economisti dell’ “acqua dolce” o di Chicago; oppure, per semplicità, conservatrice e talora, più onestamente, reazionaria) tende a seppellire l’altra – quella keynesiana – col silenzio, il caso più sinteticamente paradossale è quello della espressione ‘trappola di liquidità’. Chi legge queste pagine trova di continuo quella espressione. Per una spiegazione, la cosa più sicura è risalire a quella che fornì Krugman nel 1998, nel saggio “La depressione del Giappone ed il ritorno della trappola di liquidità”. Un po’ lunga ma ben comprensibile:

“La ‘trappola di liquidità’ – quella difficile condizione nella quale la politica monetaria perde la sua capacità di presa, perché il tasso di interesse nominale è sostanzialmente pari a zero, e nella quale la quantità di moneta diventa irrilevante, perché il denaro e le obbligazioni sono sostanzialmente perfetti sostituti – ebbe un ruolo centrale nei primi anni della disciplina macroeconomica. John Hicks, nel presentare sia il modello IS – LM che la trappola di liquidità, identificò l’assunto della inefficacia della politica monetaria