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Quanto è naturale il monopolio naturale? Il caso del pericolante possesso cinese delle terre rare, di Ed Dolan (Economonitor, 13 maggio 2015)

 

How Natural is Natural Monopoly? The Case of China’s Crumbling Hold on Rare Earths

Author: Ed Dolan  ·  May 13th, 2015  ·

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Rare earth elements (REEs) are a group of seventeen elements with exotic names like neodymium and yttrium that are key ingredients in many high-tech products, many important for national defense. Imagine the consternation of Western officials when they woke up one morning in September 2010 to learn that China held a near-monopoly in the production of these vital materials. In retaliation for the collision of a Chinese fishing boat with a Japanese Coast Guard vessel near a group of disputed islands in the East China Sea, China threatened an embargo. Prices of REEs soared.

How did China become the world’s leading producer of REEs? Did the 97 percent market share it held in 2010 represent a true natural monopoly? At the time, I wrote that its hold on the market was more fragile than it appeared. The erosion of China’s dominance of REEs holds important lessons for all supposed natural monopolies.

The first clue should have been that rare elements are not really rare. All seventeen rare earth elements are more abundant in the earth’s crust than gold, and some of them are as abundant as lead. The thing that makes them hard to mine is the fact that they do not occur in highly concentrated deposits like gold and lead. Even the best REE ores have very low concentrations. On the other hand, such ores exist widely throughout the world. Until the 1960s, India, Brazil, and South Africa were the leading producers. From the 1960s to the 1990s, the Mountain Pass Mine in California was the biggest source. China’s began to dominate of REE production only in the late 1990s.

Ownership of natural resources turned out to be only one factor that led to China’s big share of the REE market. Yes, it had good ore deposits, but not uniquely good. It also had low labor costs, which helped China’s REE mines just as they help its toy factories. A further consideration may have been most important of all: Mining of REEs can produce very nasty waste products. For years, Chinese authorities were willing to turn a blind eye to environmental devastation caused by primitive, often illegal, but low-cost small-scale mines. Meanwhile, environmental problems were a major factor leading to the shutdown of the Mountain Pass Mine. Following a big spill of radioactive waste, U.S. authorities demanded new environmental safeguards. Already facing low-cost Chinese competition, the mine closed rather than undertake the needed investments.

Still, even if China never had a true natural monopoly, it did have considerable short-run market power. In the short run, supply of REEs is much less elastic than in the long run. Any short run increase in supply can only come from mines that are already open or, to a very limited extent, come from “urban mining”—that is, recycling of REEs from scrapped computers and the like.

Short-run demand is also inelastic. Once high-tech production lines are set up to produce hybrid cars or computer hard drives using REE-dependent technologies, it is not possible just to substitute nickel for the neodymium in a magnet and expect it still to do its job.

In the long run, though, elasticity of both supply and demand turned out to be much higher, as Eugene Gholz of the University of Texas notes in a recent report from the Council on Foreign Relations. After the 2010 run-up in REE prices, the U.S. mining company Molycorp quickly obtained a permit to reopen California’s Mountain Pass Mine, using newer, cleaner, and lower-cost technology. By 2013, it was filling market orders. Australia’s Lynas Corporation began developing an operation in Malaysia at about the same time. Other ventures in Kazakstan, South Africa, and Canada soon followed.

On the demand side, REEs turned out to be not quite as irreplaceable in high-tech products as it seemed at first. At least in many cases, producers use REE-dependent technologies not because they are the only way to do something but because they are a good way to do it given reasonable prices and reliable availability of the raw materials. Japanese, Korean, and U.S. companies soon began to develop alternative technologies like magnets that used only a fraction of the amount of the REE dysprosium as they had used before.

The bottom line: China still has a large market share—around 70 percent, Gholz estimates—but its apparent natural monopoly proved illusory. Its attempts to turn REEs into an economic weapon by exploiting low short-run elasticities only accelerated the development of alternative sources and new technologies.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quanto è naturale il monopolio naturale? Il caso del pericolante possesso cinese delle terre rare.

di Ed Dolan

Gli elementi delle terre rare (REEs) sono un gruppo di diciassette componenti con nomi esotici come il neodimio e l’ittrio che sono ingredienti fondamentali in vari prodotti ad alta tecnologia, molti dei quali importanti per la difesa nazionale. Si immagini la costernazione dei dirigenti dell’Occidente quando, un mattino del settembre del 2010, si svegliarono con la notizia che la Cina possedeva quasi il monopolio nella produzione di questi elementi vitali. Per ritorsione a seguito di una collisione di una barca da pesca cinese con una nave della Guardia Costiera giapponese presso un gruppo di isole contese nel Mare della Cina orientale, la Cina minacciò un embargo. I prezzi delle terre rare salirono alle stelle.

Come era diventata la Cina il principale produttore mondiale delle REEs? Il 97 per cento della quota di mercato che essa possedeva, rappresentava un effettivo monopolio naturale? All’epoca, scrissi che la sua presa sul mercato era più fragile di quanto sembrasse. L’erosione del dominio cinese sulle terre rare contiene importanti lezioni per tutti i presunti monopoli naturali.

Il primo indizio dovrebbe essere stato che gli elementi rari non sono realmente rari. Tutti i diciassette elementi di terre rare sono più abbondanti sulla crosta terrestre dell’oro, ed alcuni di loro sono abbondanti come il piombo. La cosa che rende difficile estrarli è il fatto che non si presentano altamente concentrati in depositi come quelli dell’oro o del piombo. Persino i migliori minerali grezzi contenenti terre rare hanno concentrazioni molto basse. D’altra parte, tali minerali si presentano in grandi quantità in tutto il mondo. Sino agli anni ’60, l’India, il Brasile e il Sudafrica erano i produttori principali. Dagli anni ’60 agli anni ’90, la Mountain Pass Mine in California era la riserva più grande. La Cina cominciò a dominare la produzione di terre rare soltanto alla fine degli anni ’90.

Si scoprì che la proprietà delle risorse naturali era soltanto un fattore che provocava la grande quota della Cina del mercato delle terre rare. È vero, aveva buoni depositi di minerale, ma non erano tutti buoni. Aveva anche bassi costi del lavoro, che aiutavano le miniere cinesi di terre rare nello stesso modo in cui aiutano le sue fabbriche di giocattoli. Una ulteriore considerazione può essere stata decisiva: l’escavazione di terre rare può produrre materiali di scarto assai sgradevoli. Per anni, le autorità cinesi sono state disponibili a chiudere gli occhi sulla devastazione ambientale prodotta da miniere di piccole dimensioni primitive, spesso illegali, ma a basso costo. Nel frattempo, i problemi ambientali diventavano il fattore principale per la chiusura della Mountain Pass Mine. A seguito di una grande diffusione di scarti radioattivi, le autorità statunitensi imposero nuove salvaguardie ambientali. Piuttosto che sostenere gli investimenti necessari, già gravata dalla competizione dei bassi costi cinesi, la miniera chiuse i battenti.

Tuttavia, anche se la Cina non ha mai avuto un effettivo monopolio naturale, ha avuto davvero un rilevante potere di mercato nel breve periodo. Ogni incremento di breve periodo nell’offerta può solo derivare da miniere che sono già aperte, oppure, in misura molto limitata, deriva da “miniere urbane” – vale a dire dal riciclaggio di elementi di terre rare da computer o oggetti simili rottamati.

Inoltre la domanda nel breve periodo è anelastica. Una volta che linee produttive ad alta tecnologia sono assemblate per produrre autoveicoli ibridi o dischi rigidi dei computer che utilizzano tecnologie dipendenti dalle terre rare, non è possibile semplicemente sostituire il nickel al neodimio in un magnete ed aspettarsi che funzioni come in precedenza.

Però, nel lungo periodo si è scoperto che l’elasticità sia dell’offerta che della domanda sono molto più elevate, come in un recente rapporto del Council of Foreign Relations [1] ha notato Eugene Gholz, dell’Università del Texas. Dopo la rapida crescita dei prezzi delle terre rare nel 2010, la società mineraria statunitense Molycorp ha rapidamente ottenuto un permesso per riaprire la Mountain Pass Mine, utilizzando una tecnologia rinnovata, più pulita e a costi più bassi. Con il 2013, essa stava facendo il pieno di ordini di mercato. Nello stesso periodo la australiana Lynas Corporation ha cominciato a sviluppare una iniziativa in Malesia. Sono presto seguite altre imprese in Kazakistan, Sud Africa e Canada.

Dal lato della domanda, si è scoperto che le terre rare non sono così insostituibili come sembrava in un primo tempo. Almeno in molti casi, i produttori utilizzano tecnologie dipendenti dalle terre rare non perché siano l’unico modo per fare qualcosa, ma perché sono un buon modo di farlo, dati i prezzi ragionevoli e la attendibile disponibilità dei materiali grezzi. Imprese coreane, giapponesi e statunitensi hanno rapidamente cominciato a sviluppare tecnologie alternative, quali i magneti che utilizzano soltanto un frazione dell’elemento di terra rara disprosio, rispetto a quanto ne utilizzavano in precedenza.

Morale della favola: la Cina ha ancora una ampia quota di mercato – secondo le stime di Gholz, circa il 70 per cento – ma il suo apparente monopolio naturale si è rivelato illusorio. I suoi tentativi di trasformare le terre rare in un’arma economica sfruttando la bassa elasticità di breve periodo ha soltanto accelerato lo sviluppo di fonti alternative e di nuove tecnologie.

 

[1] Il Council on Foreign Relations (consiglio sulle relazioni estere) è un’associazione privata statunitense. Creata nel 1921, ha sede a New York (58 East 68th Street, Park Avenue) e a Washington. Composta soprattutto da uomini d’affari e leader politici, attualmente conterebbe circa 1400 membri. Nell’Harper’s Magazine del luglio del 1958 si trova un articolo intitolato “school for statesman” (scuola per statisti), scritto da Joseph Craft, membro del CFR, che identifica il Colonnello americano Edward Mandell House come uno dei fondatori del gruppo. Nello stesso articolo Craft afferma che membri del CFR sono anche grandi banchieri americani, rettori universitari, direttori giornalistici, direttori delle fondazioni Ford, Rockefeller, i presidenti americani Hoover, Eisenhower, Johnson e Nixon, i segretari di stato americani Edward Reilly Stettinius, Dean Acheson, John Foster Dulles, Christian Archibald Herter e Dean Rusk. (Wikipedia)

In sostanza, pare che secondo alcuni non sia chiarissimo quanto svolga soltanto attività di ricerca.

 

 

 

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