MAY 4, 2015
Every time you’re tempted to say that America is moving forward on race — that prejudice is no longer as important as it used to be — along comes an atrocity to puncture your complacency. Almost everyone realizes, I hope, that the Freddie Gray affair wasn’t an isolated incident, that it’s unique only to the extent that for once there seems to be a real possibility that justice may be done.
And the riots in Baltimore, destructive as they are, have served at least one useful purpose: drawing attention to the grotesque inequalities that poison the lives of too many Americans.
Yet I do worry that the centrality of race and racism to this particular story may convey the false impression that debilitating poverty and alienation from society are uniquely black experiences. In fact, much though by no means all of the horror one sees in Baltimore and many other places is really about class, about the devastating effects of extreme and rising inequality.
Take, for example, issues of health and mortality. Many people have pointed out that there are a number of black neighborhoods in Baltimore where life expectancy compares unfavorably with impoverished Third World nations. But what’s really striking on a national basis is the way class disparities in death rates have been soaring even among whites.
Most notably, mortality among white women has increased sharply since the 1990s, with the rise surely concentrated among the poor and poorly educated; life expectancy among less educated whites has been falling at rates reminiscent of the collapse of life expectancy in post-Communist Russia.
And yes, these excess deaths are the result of inequality and lack of opportunity, even in those cases where their direct cause lies in self-destructive behavior. Overuse of prescription drugs, smoking, and obesity account for a lot of early deaths, but there’s a reason such behaviors are so widespread, and that reason has to do with an economy that leaves tens of millions behind.
It has been disheartening to see some commentators still writing as if poverty were simply a matter of values, as if the poor just mysteriously make bad choices and all would be well if they adopted middle-class values. Maybe, just maybe, that was a sustainable argument four decades ago, but at this point it should be obvious that middle-class values only flourish in an economy that offers middle-class jobs.
The great sociologist William Julius Wilson argued long ago that widely-decried social changes among blacks, like the decline of traditional families, were actually caused by the disappearance of well-paying jobs in inner cities. His argument contained an implicit prediction: if other racial groups were to face a similar loss of job opportunity, their behavior would change in similar ways.
And so it has proved. Lagging wages — actually declining in real terms for half of working men — and work instability have been followed by sharp declines in marriage, rising births out of wedlock, and more.
As Isabel Sawhill of the Brookings Institution writes: “Blacks have faced, and will continue to face, unique challenges. But when we look for the reasons why less skilled blacks are failing to marry and join the middle class, it is largely for the same reasons that marriage and a middle-class lifestyle is eluding a growing number of whites as well.”
So it is, as I said, disheartening still to see commentators suggesting that the poor are causing their own poverty, and could easily escape if only they acted like members of the upper middle class.
And it’s also disheartening to see commentators still purveying another debunked myth, that we’ve spent vast sums fighting poverty to no avail (because of values, you see.)
In reality, federal spending on means-tested programs other than Medicaid has fluctuated between 1 and 2 percent of G.D.P. for decades, going up in recessions and down in recoveries. That’s not a lot of money — it’s far less than other advanced countries spend — and not all of it goes to families below the poverty line.
Despite this, measures that correct well-known flaws in the statistics show that we have made some real progress against poverty. And we would make a lot more progress if we were even a fraction as generous toward the needy as we imagine ourselves to be.
The point is that there is no excuse for fatalism as we contemplate the evils of poverty in America. Shrugging your shoulders as you attribute it all to values is an act of malign neglect. The poor don’t need lectures on morality, they need more resources — which we can afford to provide — and better economic opportunities, which we can also afford to provide through everything from training and subsidies to higher minimum wages. Baltimore, and America, don’t have to be as unjust as they are.
Razze, classi ed incuria, di Paul Krugman
New York Times 4 maggio 2015
Ogni volta che si è tentati di dire che l’America sta facendo passi avanti sul razzismo – che il pregiudizio razziale non è più così importante come un tempo – arriva qualcosa di atroce che sgonfia il nostro compiacimento. Spero che quasi tutti comprendano che la vicenda di Freddie Gray [1] non è stata un incidente isolato, che è stata straordinaria solo nella misura in cui sembra esserci la reale possibilità che sia fatta giustizia.
E i disordini di Baltimora, nella loro distruttività, sono almeno stati utili ad uno scopo: attrarre l’attenzione sulle grottesche ineguaglianze che avvelenano le esistenze di troppi americani.
Tuttavia io mi preoccupo che il ruolo centrale della razza e del razzismo in questa storia particolare, possa trasmettere la falsa impressione che una povertà debilitante e la emarginazione dalla società siano esperienze della sola gente di colore. Di fatto, una buona parte, sebbene di sicuro non tutto, l’orrore che si osserva a Baltimora e in altre località ha realmente a che fare con le classi, con gli effetti devastanti di una ineguaglianza estrema e crescente.
Si prenda, ad esempio, il tema della salute e della mortalità. Molti hanno messo in evidenza che c’è un certo numero di quartieri negri a Baltimora nei quali l’aspettativa di vita appare più sfavorevole delle nazioni povere del Terzo Mondo. Ma quello che realmente impressiona su basi nazionali è il modo in cui le disparità di classe nei tassi di mortalità stanno salendo alle stelle anche tra i bianchi.
È ancora più considerevole che la mortalità tra le donne bianche sia cresciuta bruscamente dagli anni ’90, una crescita che certamente si è concentrata tra le donne povere e più sprovviste di istruzione; l’aspettativa di vita tra le bianche meno istruite è caduta a livelli che ricordano il collasso della aspettativa di vita nella Russia post-comunista.
Ed è vero, queste morti evitabili [2] sono il risultato dell’ineguaglianza e della mancanza di opportunità, persino nei casi nei quali la causa diretta consiste in comportamenti auto distruttivi. L’abuso nella prescrizione di farmaci e l’obesità hanno un peso considerevole nelle morti precoci, ma c’è una ragione per la quale tali comportamenti sono generalizzati, e la ragione dipende da un’economia che lascia indietro decine di milioni di individui.
È stato disarmante constatare come alcuni commentatori scrivono di povertà come se fosse ancora una faccenda di valori, come se i poveri facessero scelte negative per ragioni sostanzialmente misteriose e come se tutto andrebbe nel migliore dei modi se adottassero i valori della classe media. Forse, soltanto forse, era un argomento sostenibile quattro decenni orsono, ma a questo punto dovrebbe essere evidente che i valori della classe media prosperano unicamente in un’economia che offre posti di lavoro da classe media.
Il grande sociologo William Julius Wilson [3]sosteneva molto tempo fa che i mutamenti sociali ampiamente denunciati nella popolazione di colore, come il declino delle famiglie tradizionali, erano effettivamente provocati dalla scomparsa di posti di lavoro ben pagati nei quartieri poveri. Il suo argomento conteneva una implicita previsione: se altri gruppi razziali avessero dovuto fronteggiare una analoga perdita di opportunità di lavoro, i loro comportamenti sarebbero mutati in modi simili.
E così si è dimostrato. Salari che ristagnano – per la verità che diminuiscono in termini reali per la metà degli uomini che lavorano – e l’instabilità del lavoro sono stati seguiti da brusche cadute nei matrimoni, dalla crescita delle nascite fuori dal matrimonio, e da altro ancora.
Come scrive Isabel Sawhill del Brooking Institution: “Le persone di colore hanno fatto fronte, e continueranno a far fronte, a sfide uniche. Ma quando osserviamo le ragioni per le quali i negri con minore formazione professionale non si sposano e non raggiungono le condizioni della classe media, sono in gran parte le stesse ragioni per le quali il matrimonio e uno stile di vita da classe media non riguardano un numero crescente di bianchi.”
È disarmante, dunque, dover ancora osservare commentatori che indicano che i poveri sono la causa della loro povertà, e potrebbero facilmente venirne fuori se agissero come i componenti delle classi medio alte.
Ed è anche scoraggiante vedere commentatori che ancora attingono ad un altro mito smascherato, secondo il quale abbiamo speso grandi somme per combattere la povertà che non sono servite a niente (sapete, sempre per via dei valori).
In realtà, sono decenni che le spese sui programmi della assistenza sociale sulla base di requisiti di reddito diversi da Medicaid, fluttuano tra l’uno e il due per cento del PIL, salendo durante le recessioni e scendendo durante le riprese. Non si tratta di tanti soldi – sono molti di meno di quello che spendono altri paesi avanzati – e non tutti vanno a famiglie collocate al di sotto della linea della povertà.
Nonostante questo, accorgimenti che correggono i difetti ben noti nelle statistiche mostrano che qualche progresso contro la povertà è stato fatto. E dovremmo fare molti più progressi se fossimo anche minimamente altrettanto generosi verso chi ha bisogno, come ci immaginiamo di essere.
Il punto è che non ci sono scusanti per il fatalismo, quando guardiamo i mali della povertà in America. Scrollare le spalle e attribuirli tutti ai valori è un atto di incuria colpevole. I poveri non hanno bisogno di ramanzine sulla moralità, hanno bisogni di maggiori risorse – che possiamo permetterci di fornire – e di migliori opportunità economiche, che anch’esse possiamo permetterci di fornire in tanti modi, dalla formazione professionale, ai sussidi ed a salari minimi più alti. Baltimora, e l’America, non sono obbligate ad essere ingiuste come sono.
[1] Il 12 aprile 2015 un venticinquenne afro americano, Freddie Gray, è stato arrestato dalla polizia di Baltimora. Mentre veniva trasportato nella camionetta della polizia, Gray è caduto in coma ed è stato trasportato in ospedale, dove è deceduto il 19 aprile per ferite alla spina dorsale. Sei funzionari della Polizia di Baltimora sono stati sospesi temporaneamente.
[2] Mi ricordo che l’espressione “morte evitabile” è usata negli studi di statistica sanitaria; ed è una espressione più significativa, mi pare, della traduzione letterale di ‘morti eccedenti’.
[3] William Julius Wilson è un sociologo statunitense nato nel 1935, che ha insegnato all’Università di Chicago, dal 1972 al 1996, e poi a quella di Harvard. I suoi studi sulla povertà, particolarmente sulle condizioni degli afroamericani, hanno contribuito in particolare a mettere in evidenza la complessa interazione di fenomeni politici e culturali – la cultura dei ghetti e l’intera storia dei diritti civili – e di fenomeni socioeconomici, quali quelli della evoluzione di molte metropoli americane, che hanno conosciuto grandi fenomeni di decentramento dell’occupazione. Tra l’altro mostrò come il fenomeno delle donne afroamericane sole e con figli spesso derivasse semplicemente dalla resistenza delle donne di colore a riconoscere i padri dei loro figli attraverso regolari matrimoni, sinché i padri non potevano mantenere una famiglia con redditi almeno paragonabili agli aiuti delle famiglie di origine.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"