Blog di Krugman

Tariffe in rapporto alle valute (21 maggio 2015)

 

May 21 8:26 am

Tariffs Versus Currencies

While it’s not remotely in the same league as the execrable Daley op-ed, the CEA report in support of TPP is, as Josh Bivens notes, an odd document. It’s not wrong, or not mostly wrong — I don’t even share all of Bivens’s complaints. It’s just off-topic; at best, it’s a celebration of the results of all the trade liberalization that has taken place since the 1930s, and tells us nothing about policy when trade barriers are already very low, and “trade” agreements are actually about investment and intellectual property.

As I said, the report doesn’t make any clearly false claims — I do think Furman et al are too scrupulous for that. But there is some missing context. The very first bullet point declares, in bold type, that

U.S. businesses must overcome an average tariff hurdle of 6.8 percent, in addition to numerous non-tariff barriers (NTBs), to serve the roughly 95 percent of the world’s customers outside our borders.

You’re clearly meant to think of 6.8 as a big number. Is it?

Actually, no. There are various ways to think about that; one is to compare those tariffs with the kind of currency fluctuations that occur all the time. Here’s the recent history of the dollar:

z 726

 

 

 

 

 

 

 

 

That’s a 20 percent rise between the summer of last year and early 2015, partly given back recently. Since inflation is low everywhere, that’s more or less one-for-one a loss in competitiveness by US exporters, and far bigger than the tariff barriers.

Non-tariff barriers (NTBs) add to the wedge, of course. But even they are no big deal.

 

Tariffe in rapporto alle valute

Pur non essendo neanche lontanamente della stessa serie dell’abominevole commento di Daley [1], il rapporto del Comitato dei Consulenti Economici a sostegno del TPP, come osserva Josh Bivens, è un documento bizzarro. Non è sbagliato, o non è principalmente sbagliato – io neppure condivido tutte le lamentele di Bivens. È soltanto fuori tema; nel migliore dei casi è una celebrazione dei risultati della liberalizzazione del commercio che ha avuto luogo a partire dagli anni ’30, e non ci dice niente a proposito della politica allorquando le barriere sono già molto basse, e gli accordi “commerciali” in effetti riguardano gli investimenti e la proprietà intellettuale.

Come ho detto, questo rapporto non avanza alcun argomento chiaramente falso – penso davvero che Furman e i suoi colleghi siano troppo scrupolosi per cose del genere. Ma in qualche modo manca il contesto. Il primissimo elenco, in grassetto, dichiara che:

“le imprese statunitensi devono superare l’ostacolo di una tariffa media del 6,8 per cento, in aggiunta a numerose barriere non-tariffarie (NTBs), per essere a disposizione di circa il 95 per cento della clientela mondiale fuori dai confini.”

Chiaramente siete indotti a pensate al 6,8 per cento come ad una gran cifra. È così?

No, per la verità. Ci sono vari modi di riflettere sulla cosa; uno è quello di confrontare quelle tariffe con il genere di fluttuazioni valutarie che intervengono in continuazione. Ecco la storia recente del dollaro:

z 726

 

 

 

 

 

 

 

Tra l’estate dell’anno passato e gli inizi del 2015 c’è stata una crescita del 20 per cento, in parte regredita di recente. Dal momento che l’inflazione è dappertutto bassa, quella è una perdita di competitività per gli esportatori statunitensi più o meno di uno ad uno, ed è molto più grande delle barriere tariffarie.

Naturalmente, le barriere non tariffarie si aggiungono al cuneo. Ma persino esse non sono una gran cosa.

 

[1] Dell’articolo di Daley, Krugman si è occupato in un post del 19 maggio.

 

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