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L’ombra lunga della schiavitù, di Paul Krugman (New York Times 22 giugno 2015)

 

Slavery’s Long Shadow

JUNE 22, 2015

Paul Krugman

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America is a much less racist nation than it used to be, and I’m not just talking about the still remarkable fact that an African-American occupies the White House. The raw institutional racism that prevailed before the civil rights movement ended Jim Crow is gone, although subtler discrimination persists. Individual attitudes have changed, too, dramatically in some cases. For example, as recently as the 1980s half of Americans opposed interracial marriage, a position now held by only a tiny minority.

Yet racial hatred is still a potent force in our society, as we’ve just been reminded to our horror. And I’m sorry to say this, but the racial divide is still a defining feature of our political economy, the reason America is unique among advanced nations in its harsh treatment of the less fortunate and its willingness to tolerate unnecessary suffering among its citizens.

Of course, saying this brings angry denials from many conservatives, so let me try to be cool and careful here, and cite some of the overwhelming evidence for the continuing centrality of race in our national politics.

My own understanding of the role of race in U.S. exceptionalism was largely shaped by two academic papers.

The first, by the political scientist Larry Bartels, analyzed the move of the white working class away from Democrats, a move made famous in Thomas Frank’s “What’s the Matter With Kansas?” Mr. Frank argued that working-class whites were being induced to vote against their own interests by the right’s exploitation of cultural issues. But Mr. Bartels showed that the working-class turn against Democrats wasn’t a national phenomenon — it was entirely restricted to the South, where whites turned overwhelmingly Republican after the passage of the Civil Rights Act and Richard Nixon’s adoption of the so-called Southern strategy.

And this party-switching, in turn, was what drove the rightward swing of American politics after 1980. Race made Reaganism possible. And to this day Southern whites overwhelmingly vote Republican, to the tune of 85 or even 90 percent in the deep South.

The second paper, by the economists Alberto Alesina, Edward Glaeser, and Bruce Sacerdote, was titled “Why Doesn’t the United States Have a European-style Welfare State?” Its authors — who are not, by the way, especially liberal — explored a number of hypotheses, but eventually concluded that race is central, because in America programs that help the needy are all too often seen as programs that help Those People: “Within the United States, race is the single most important predictor of support for welfare. America’s troubled race relations are clearly a major reason for the absence of an American welfare state.”

Now, that paper was published in 2001, and you might wonder if things have changed since then. Unfortunately, the answer is that they haven’t, as you can see by looking at how states are implementing — or refusing to implement — Obamacare.

For those who haven’t been following this issue, in 2012 the Supreme Court gave individual states the option, if they so chose, of blocking the Affordable Care Act’s expansion of Medicaid, a key part of the plan to provide health insurance to lower-income Americans. But why would any state choose to exercise that option? After all, states were being offered a federally-funded program that would provide major benefits to millions of their citizens, pour billions into their economies, and help support their health-care providers. Who would turn down such an offer?

The answer is, 22 states at this point, although some may eventually change their minds. And what do these states have in common? Mainly, a history of slaveholding: Only one former member of the Confederacy has expanded Medicaid, and while a few Northern states are also part of the movement, more than 80 percent of the population in Medicaid-refusing America lives in states that practiced slavery before the Civil War.

And it’s not just health reform: a history of slavery is a strong predictor of everything from gun control (or rather its absence), to low minimum wages and hostility to unions, to tax policy.

So will it always be thus? Is America doomed to live forever politically in the shadow of slavery?

I’d like to think not. For one thing, our country is growing more ethnically diverse, and the old black-white polarity is slowly becoming outdated. For another, as I said, we really have become much less racist, and in general a much more tolerant society on many fronts. Over time, we should expect to see the influence of dog-whistle politics decline.

But that hasn’t happened yet. Every once in a while you hear a chorus of voices declaring that race is no longer a problem in America. That’s wishful thinking; we are still haunted by our nation’s original sin.

 

L’ombra lunga della schiavitù, di Paul Krugman

New York Times 22 giugno 2015

L’America è una nazione molto meno razzista di un tempo, e non sto solo parlando del fatto pur considerevole che un afro americano occupi la Casa Bianca. Il crudo razzismo legalizzato che prevaleva prima che il movimento dei diritti civili mettesse la parola fine all’epoca delle leggi “Jim Crow [1]” se n’è andato, sebbene persistano discriminazioni più sottili. Sono anche cambiati gli orientamenti delle persone, in alcuni casi in modo spettacolare. Ad esempio, non più addietro della metà degli anni ’80 la metà degli americani si opponeva ai matrimoni interrazziali, una posizione che adesso è condivisa da una minuscola minoranza.

Tuttavia l’odio razziale è ancora una forza potente, come ci è appena stato ricordato in modo orribile. E, mi dispiace dirlo, ma la divisione razziale è ancora una caratteristica che demarca la nostra politica economica, la ragione per la quale l’America tra le nazioni avanzate è un caso unico per la durezza con cui tratta le persone meno fortunate e per la sua indifferenza nel tollerare sofferenze non necessarie tra i suoi cittadini.

Naturalmente, dir questo comporta il rifiuto adirato di molti conservatori, cosicché consentitemi in questo caso di essere cauto e scrupoloso, e di citare alcune delle prove schiaccianti che mostrano il perdurante ruolo centrale della razza nella politica nazionale.

Il modo il cui io stesso ho compreso il ruolo della razza nei tratti straordinari della società americana è stato in gran parte influenzato da due studi accademici.

Il primo, da parte del politologo Larry Bartels, analizzava lo spostamento dei lavoratori bianchi che lasciarono i democratici, e che divenne famoso con la espressione di Thomas Frank “Cosa succede nel Kansas?[2]. Frank sosteneva che la classe dei lavoratori bianchi era stata indotta a votare contro i propri stessi interessi per effetto dello sfruttamento da parte della destra di tematiche culturali. Ma Bartels mostrò che la rivolta della classe lavoratrice nei confronti dei democratici non era un fenomeno nazionale – era quasi per intero limitata al Sud, dove i bianchi passarono in modo schiacciante ai repubblicani dopo l’approvazione della Legge sui Diritti Civili e la cosiddetta adozione da parte di Richard Nixon della cosiddetta strategia ‘sudista’.

E questo cambiamento di partito, a sua volta, provocò lo spostamento a destra della politica americana dopo il 1980. La questione razziale rese possibile il reaganismo. E sino a quest’oggi i bianchi del Sud votano in modo schiacciante repubblicano, per qualcosa come l’85 e persino il 90 per cento nel profondo Sud.

Il secondo studio, da parte degli economisti Alberto Alesina, Edward Glaeser e Bruce Sacerdote, aveva come titolo “Perché gli Stati Uniti non hanno uno Stato assistenziale sul modello di quelli europei?” I suoi autori – che non sono, per inciso, particolarmente progressisti – hanno esaminato un certo numero di ipotesi, ma alla fine hanno concluso che il ruolo della razza è centrale, perché in America i programmi che aiutano le persone bisognose sono troppo spesso considerati programmi che aiutano “Quella Gente” [3]: “Negli Stati Uniti, la razza è il più importante singolo indicatore del sostegno alle politiche sociali. Chiaramente, in America le difficili relazioni razziali sono un motivo importante che spiega la mancanza di uno Stato assistenziale”.

Ora, questo studio venne pubblicato nel 2001, e potreste ritenere che da allora le cose siano cambiate. Sfortunatamente, la risposta è che non lo sono, come potete constatare osservando come i singoli Stati stanno mettendo in atto – o rifiutandosi di mettere in atto – la riforma sanitaria di Obama [4].

Per coloro che non hanno seguito questa tematica, nel 2012 la Corte Suprema diede ai singoli Stati la possibilità, se così avessero scelto, di bloccare la espansione di Medicaid prevista dalla Legge sulla Assistenza Sostenibile, una parte cruciale del programma rivolto a fornire la assicurazione sanitaria agli americani a reddito più basso. Ma per quale ragione qualche Stato dovrebbe scegliere se esercitare o no tale opzione? Dopo tutto, agli Stati è stato offerto una programma finanziato al livello federale che fornirebbe importanti sussidi a milioni di loro cittadini, riverserebbe miliardi nelle loro economie e contribuirebbe a sostenere i loro fornitori di assistenza sanitaria. Chi rifiuterebbe un’offerta del genere?

Al momento attuale, la risposta è: 22 Stati, anche se alla fine qualcuno potrebbe cambiare idea. E che cosa hanno in comune questi Stati? Principalmente, una storia di pratiche schiavistiche: soltanto un passato componente della Confederazione ha autorizzato l’espansione di Medicaid, e mentre anche pochi Stati del Nord fanno parte della compagine, più dell’80 per cento della popolazione della parte di America che rifiuta Medicaid vive in Stati che praticavano la schiavitù prima della Guerra Civile.

E non si tratta soltanto della riforma sanitaria: una storia di schiavitù è un forte indicatore per tutto quello che va dal controllo delle armi (o piuttosto la sua assenza), ai minimi salariali ed all’ostilità verso i sindacati, alla politica del fisco.

Sarà dunque sempre così? L’America è condannata per sempre a vivere politicamente nell’ombra di una passato schiavista?

Mi piacerebbe pensare di no. Per un aspetto, il nostro paese sta crescendo con maggiori diversità etniche, e la vecchia polarizzazione bianchi-neri sta diventando lentamente superata. Per un altro aspetto, come ho detto, stiamo davvero diventando molto meno razzisti, e più in generale una società su molti fronti assai più tollerante. Con il tempo, ci dovremmo aspettare di constatare un declino delle politiche basate su messaggi di intolleranza [5].

Ma questo non è ancora successo. Ogni tanto si sente un coro di voci che affermano che la razza non è più un problema in America. È una pia illusione; siamo sempre infestati dal peccato originale nella nostra nazione.

 

 

 

 

[1] Le leggi Jim Crow furono delle leggi locali e dei singoli stati degli Stati Uniti d’America emanate tra il 1876 e il 1965. Di fatto servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di “separati ma uguali” per i neri americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi dai bianchi.

Alcuni esempi di leggi Jim Crow furono la separazione nelle scuole pubbliche, nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto e la differenziazione dei bagni e dei ristoranti tra quelli per bianchi e quelli per neri. Anche all’interno dell’esercito venne applicata la segregazione razziale. Le leggi Jim Crow erano distinte dai Codici neri del periodo 180066 che a loro volta avevano ridotto i diritti e le libertà civili degli afroamericani. La segregazione razziale organizzata dagli stati nelle scuole fu dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 1954, con la sentenza Brown v. Board of Education. In generale, le leggi Jim Crow rimaste furono abrogate dal Civil Rights Act del 1964 e dal Voting Rights Act del 1965.

L’origine della frase “Jim Crow” è stata spesso fatta risalire a Jump Jim Crow, una canzone-balletto caricatura degli afroamericani comparsa per la prima volta nel 1832. Le vere origini potrebbero però essere anteriori. La frase si trasformò in un aggettivo verso il 1838 e la locuzione Legge Jim Crow comparve per la prima volta sul Dizionario di Inglese Americano nel 1904. (Wikipedia)

 

[2] Thomas Frank è un analista politico, storico e giornalista americano nato nel 1962.

[3] “Quella Gente” è l’espressione con la quale a destra frequentemente si sottintende la gente di colore. Ma, appunto, è una espressione discretamente popolare, in alcuni Stati.

[4] In un post preparatorio di questo articolo, Krugman mostra questa cartina (a sinistra), nella quale gli Stati in blu sono quelli che hanno aderito all’aspetto della riforma sanitaria relativo al potenziamento del programma Medicaid; quelli in celeste sono quelli che stanno discutendone; mentre in arancione sono quelli che si sono rifiutati. Come Krugman ha spiegato in varie altre occasioni, gli Stati che non aderiscono a tale possibilità, ancorché praticamente gratuita dal loro punto di vista (il finanziamento è federale) in pratica costringono un numero più elevato di cittadini a restare sprovvisti della assicurazione sanitaria, giacché l’espansione di Medicaid è un modo in cui coloro che hanno i redditi più bassi possono ricevere assistenza gratuita.

Nello stesso post, Krugman mette a confronto tale cartina con quella che pubblichiamo accanto a destra, che mostra gli Stati che nel 1860 erano liberi dalla schiavitù (in celeste); quelli nei quali era giuridicamente possibile (in giallo) e quelli nei quali era intensamente praticata (in rosa).

Come si vede, sono due situazioni quasi per intero sovrapponibili.

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[5] La “dog-whistle politics” – letteralmente la “politica del fischietto per cani” si riferisce alla pratica di utilizzare in politica linguaggi ‘allusivi’ (ovvero, selettivi, come alcuni fischietti per cani che emettono ultrasuoni che gli umani non percepiscono). Ma storicamente per tali linguaggi ‘allusivi’ ci si intende riferire per l’appunto a messaggi che ‘parlano’ soltanto ad alcune categorie precise di individui, come quelli basati sulla paura o sull’odio razziale.

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