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Quella sensazione che ricorda il 1914, di Paul Krugman (New York Times 1 giugno 2015)

 

That 1914 Feeling

JUNE 1, 2015

Paul Krugman

z 584

 

 

 

 

 

 

 

 

U.S. officials are generally cautious about intervening in European policy debates. The European Union is, after all, an economic superpower in its own right — far too big and rich for America to have much direct influence — led by sophisticated people who should be able to manage their own affairs. So it’s startling to learn that Jacob Lew, the Treasury secretary, recently warned Europeans that they had better settle the Greek situation soon, lest there be a destructive “accident.”

But I understand why Mr. Lew said what he did. A forced Greek exit from the euro would create huge economic and political risks, yet Europe seems to be sleepwalking toward that outcome. So Mr. Lew was doing his best to deliver a wake-up call.

And yes, the allusion to Christopher Clark’s recent magisterial book on the origins of World War I, “The Sleepwalkers,” is deliberate. There’s a definite 1914 feeling to what’s happening, a sense that pride, annoyance, and sheer miscalculation are leading Europe off a cliff it could and should have avoided.

The thing is, it’s pretty clear what the substance of a deal between Greece and its creditors would involve. Greece simply isn’t going to get a net inflow of money.

At most, it will be able to borrow back part of the interest on its existing debt. On the other hand, Greece can’t and won’t pay all of the interest coming due, let alone pay back its debt, because that would require a crippling new round of austerity that would inflict severe economic damage and would be politically impossible in any case.

So we know what the outcome of a successful negotiation would be: Greece would be obliged to run a positive but small “primary surplus,” that is, an excess of revenue over spending not including interest. Everything else should be about framing and packaging. What will be the mix between interest rate cuts, reductions in the face value of debt, and rescheduling of payments? To what extent will Greece lay out its spending plans now, as opposed to agreeing on overall targets and filling in the details later?

These aren’t trivial questions, but they’re second-order, and shouldn’t get in the way of the big stuff.

Meanwhile, the alternative — basically Greece running out of euros, and being forced to reintroduce its own currency amid a banking crisis — is something everyone should want to avoid. Yet negotiations are by all accounts going badly, and there’s a very real possibility that the worst will, in fact, happen.

Why can’t the players here reach a mutually beneficial deal? Part of the answer is mutual distrust. Greeks feel, with justification, that for years their nation has been treated like a conquered province, ruled by callous and incompetent proconsuls; if you want to see why, look both at the incredible severity of the austerity program the country has been forced to impose and the utter failure of that program to deliver the promised results. Meanwhile, the institutions on the other side consider the Greeks unreliable and irresponsible; some of this, I think, reflects the inexperience of the coalition of outsiders that took power thanks to austerity’s failure, but it’s also easy to see why, given Greece’s track record, it’s hard to trust promises of reform.

Yet there seems to be more to it than lack of trust. Some major players seem strangely fatalistic, willing and even anxious to get on with the catastrophe – a sort of modern version of the “spirit of 1914,” in which many people were enthusiastic about the prospect of war. These players have convinced themselves that the rest of Europe can shrug off a Greek exit from the euro, and that such an exit might even have a salutary effect by showing the price of bad behavior.

But they are making a terrible mistake. Even in the short run, the financial safeguards that would supposedly contain the effects of a Greek exit have never been tested, and could well fail. Beyond that, Greece is, like it or not, part of the European Union, and its troubles would surely spill over to the rest of the union even if the financial bulwarks hold.

Finally, the Greeks aren’t the only Europeans to have been radicalized by policy failure. In Spain, for example, the anti-austerity party Podemos has just won big in local elections. In some ways, what defenders of the euro should fear most is not a crisis this year, but what happens once Greece starts to recover and becomes a role model for anti-establishment forces across the continent.

None of this needs to happen. All the players at the table, even those much too ready to accept failure, have good intentions. There’s hardly even a conflict of interest between Greece and its creditors — as I said, we know pretty much what a mutually beneficial deal would involve. But will that deal be reached? We’ll find out very soon.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quella sensazione che ricorda il 1914, di Paul Krugman

New York Times 1 giugno 2015

I dirigenti degli Stati Uniti sono in genere cauti nell’intervenire nei dibattiti politici europei. L’Unione Europea, in fondo, è una superpotenza a pieno titolo – fin troppo grande e ricca perché l’America abbia una particolare influenza diretta – guidata da individui raffinati che dovrebbero essere capaci di gestire gli affari loro. È dunque sorprendente apprendere che Jacob Lew, il Segretario al Tesoro, abbia di recente ammonito gli Europei a dare in tempi rapidi una sistemazione migliore alla situazione greca, nel timore che possa accadere un “incidente” distruttivo.

Ma capisco per quale ragione Lew ha detto quello che ha detto. Una uscita obbligata dall’euro determinerebbe grandi rischi economici e politici, eppure l’Europa sembra dirigersi come un sonnambulo verso un esito del genere. Dunque, Lew sta facendo del suo meglio nel lanciare un segnale di allarme.

Riconosco che l’allusione al recente magistrale libro di Christopher Clark sulle origini della Prima Guerra Mondiale, “I sonnambuli” [1], è intenzionale. In quello che sta accadendo c’è una precisa sensazione che rimanda al 1914, la sensazione che l’orgoglio, l’insofferenza e un mero errore di calcolo stiano portando l’Europa giù per un precipizio che avrebbe potuto e dovuto evitare.

Il punto è il seguente: è abbastanza chiaro su che cosa, in sostanza, dovrebbe vertere un accordo tra la Grecia ed i suoi creditori. Semplicemente, la Grecia non è destinata ad avere un flusso netto di denaro.

Nel migliore dei casi, essa sarà capace di restituire una parte dell’interesse sul suo debito esistente, prendendola a prestito. D’altra parte, la Grecia non può e non vorrà pagare tutto l’interesse che va in scadenza, per non dire restituire il suo debito, perché farlo richiederebbe un nuovo periodo rovinoso di austerità che infliggerebbe un grave danno economico e sarebbe in ogni caso politicamente insostenibile.

Dunque sappiamo in cosa dovrebbe consistere un risultato positivo dei negoziati: la Grecia sarebbe obbligata a gestire un “avanzo primario” positivo ma modesto, vale a dire un eccesso delle entrate sulle spese, al netto degli interessi. Tutto il resto dovrebbe riguardare il contesto e il confezionamento. In cosa consisterà la combinazione tra tagli ai tassi di interesse, riduzione del valore nominale del debito e riprogrammazione dei pagamenti? In quale misura la Grecia esporrà in questo momento i suoi piani di spesa, oppure concorderà su obbiettivi generali e fornirà i ragguagli dettagliati successivamente?

Queste non sono questioni banali, ma sono secondarie, e non dovrebbero mettersi di mezzo rispetto alle cose importanti.

Nel frattempo, l’alternativa – fondamentalmente, che la Grecia esaurisca i suoi euro e venga costretta a reintrodurre la propria valuta nel contesto di una crisi bancaria – è qualcosa che tutti dovrebbero voler evitare. Eppure, a detta di tutti, i negoziati stanno andando male, e c’è la reale possibilità, di fatto, che si giunga al peggio.

Perché i protagonisti non riescono a raggiungere un accordo reciprocamente benefico? In parte, la risposta sta in una reciproca sfiducia. I Greci sentono, in modo giustificato, che per anni la loro nazione è stata trattata come una provincia conquistata, controllata da proconsoli brutali e incompetenti; se volete capire la ragione, considerate sia l’incredibile durezza del programma di austerità che il paese è stato costretto ad adottare, che il completo fallimento di quel programma nel raggiungimento dei risultati promessi. Contemporaneamente, le istituzioni dell’altro versante considerano i greci inaffidabili e irresponsabili; in parte, penso, questo rifletta l’inesperienza di una coalizione di outsider che ha conquistato il potere grazie al fallimento dell’austerità, ma è anche facile capire perché, dati i precedenti, sia difficile aver fiducia nelle promesse di riforma.

Eppure, sembra esserci qualcosa in più di un difetto di fiducia. Alcuni tra i principali protagonisti sembrano stranamente fatalisti, disponibili e persino ansiosi di lasciare a se stessa la catastrofe incombente – una sorta di versione moderna dello “spirito del 1914”, grazie al quale in molti erano galvanizzati dalla prospettiva della guerra. Questi protagonisti si sono convinti che il resto dell’Europa possa trascurare una prospettiva di uscita della Grecia dall’euro, e che un esito del genere potrebbe persino avere un effetto salutare, mostrando il prezzo dei cattivi comportamenti.

Ma stanno facendo un errore terribile. Persino nel breve periodo, le misure di tutela finanziarie che si suppone contengano gli effetti di un’uscita della Grecia non sono mai state messe alla prova, e potrebbero facilmente fallire. Oltre a ciò, la Grecia, che piaccia o meno, è parte dell’Unione Europea, e i suoi guai sicuramente si trasmetterebbero al resto dell’Unione, anche se gli argini finanziari tenessero.

Infine, i Greci non sono gli unici europei che stanno sperimentando una radicalizzazione a seguito di fallimenti politici. In Spagna, ad esempio, il partito contro l’austerità Podemos ha appena vinto alla grande nelle elezioni amministrative. In qualche modo, quello che i difensori dell’euro dovrebbero temere maggiormente non è una crisi in quest’anno, ma ciò che accadrà una volta che la Grecia cominci a riprendersi e divenga un esempio guida per le forze ostili alle classi dirigenti nel continente.

Un esito del genere non è indispensabile. Tutti quelli che siedono al tavolo da protagonisti, persino coloro che sono troppo disponibili ad accettare il fallimento, hanno buone intenzioni. Tra la Grecia e i suoi creditori non c’è nemmeno un chiaro conflitto di interessi – come ho detto, conosciamo abbastanza cosa una accordo reciprocamente benefico dovrebbe riguardare. Ma sarà raggiunto un tale accordo? Lo scopriremo molto presto.

 

 

[1] Il libro è stato pubblicato nel 2013 ed è stato giudicato tra i dieci migliori libri dell’anno nella classifica del New York Times:

z 739

 

 

 

 

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