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Quello che ancora non riusciamo a far nostro di Minsky (dal blog di Krugman, 1 giugno 2015)

 

The Case of the Missing Minsky

June 1, 2015 3:55 am

Gavyn Davis has a good summary of the recent IMF conference on rethinking macro; Mark Thoma has further thoughts. Thoma in particular is disappointed that there hasn’t been more of a change, decrying

the arrogance that asserts that we have little to learn about theory or policy from the economists who wrote during and after the Great Depression.

Maybe surprisingly, I’m a bit more upbeat than either. Of course there are economists, and whole departments, that have learned nothing, and remain wholly dominated by mathiness. But it seems to be that economists have done OK on two of the big three questions raised by the economic crisis. What are these three questions? I’m glad you asked.

As I see it, it makes sense to think of what happened in terms of three phases. First, a buildup of vulnerability, with rising leverage and an increasingly fragile financial system. Second, the acute phase of crisis, with bank runs or their functional equivalent, collapsing liquidity, and more. Then a long period of depressed employment and activity, which still isn’t over.

The questions then are how and why each of these things can/did happen. I think of these as the Minsky question — why do economies grow vulnerable over time ; the Bagehot question — why does all hell break loose now and then; and the Keynes question — how economies can stay depressed, and how such depressed economies work.

On the Keynes question, it’s true that we haven’t had a radical change in thinking, but that’s mainly because the old thinking still works pretty well. That is, the answer for people asking who would be the new Keynes turns out to be that Keynes is the new Keynes. Or maybe that’s Hicks — anyway, IS-LMish analysis worked well, and the economists who made fools of themselves were those who rejected the time-tested approaches.

What is new is that we have had a flowering of empirical work, and have much more econometric evidence on monetary and especially fiscal policy, price behavior, and more than we used to. Look, for example, at Nakamura/Steinsson’s survey, or at the Blanchard work on multipliers in the euro area. So this is a happy story: the existing framework worked fairly well, and is now buttressed by a lot of really good empirical evidence.

On the Bagehot question, economists were initially caught flat-footed, for two reasons: failure to realize that shadow banking had recreated the risk of bank runs, and failure to appreciate the problems of leverage because there is no room for such problems in representative-agent models. But it wasn’t very hard to fix these problems, or at least apply workable patches. Once you realized that repo was the new bank deposits, the basic crisis framework was already there; and there was already enough existing analysis of balance-sheet constraints and all that to make creation of a somewhat messy, inelegant, but usable set of models quite easy.

And here too we have seen a flowering of empirical work, e.g. Mian and Sufi on household debt.

Where we have not, as far as I can tell, made much progress is the Minsky question. Why did the system become so vulnerable? Was it deregulation (or failure of regulation to keep up with institutional change)? Simple forgetting, as memories of past crises faded? Excessively loose policy? I have views, but I have to admit that there isn’t a lot of either fresh thinking or hard evidence here.

Why is Minsky still mostly missing? Partly because asking how we got here may be less urgent than the question of what we do now. But also, I’d guess, because it’s hard. Bubbles, excessive leverage, and all that probably have a lot to do with the limits of rationality, and behavioral economics doesn’t provide anything like as much guidance as it should.

Still, I’m relatively positive in my assessment of the state of macroeconomics. Against mathiness and political ideology, the gods themselves contend in vain, but that’s not a problem with the models.

 

Quello che ancora non riusciamo a far nostro di Minsky

Gavyn Davis fornisce una buona sintesi della recente conferenza del FMI sul ripensamento della macroeconomia; Mark Thoma offre pensieri ulteriori. In particolare, Thoma è deluso che non ci siano state maggiori novità, e denuncia

“l’arroganza con cui si sostiene che avremmo poco da imparare, a proposito di teoria e di politica, dagli economisti che scrissero durante e dopo la Grande Depressione.”

È forse sorprendente, ma io sono più ottimista di entrambi. Naturalmente, ci sono economisti, e dipartimenti interi, che non hanno imparato niente e che restano interamente dominati dalla ossessione matematica. Sembra però che gli economisti si siano comportati bene su due delle tre questioni sollevate dalla crisi economica. Quali sono queste tre questioni? Sono contento me l’abbiate chiesto.

Per come giudico io, ha senso ragionare su quanto è avvenuto nei termini di tre fasi. La prima, un crescendo di vulnerabilità, con un rapporto di indebitamento in crescita ed un sistema finanziario sempre più fragile. La seconda, la fase acuta della crisi, con assalti agli sportelli bancari o con il loro equivalente funzionale, il crollo della liquidità ed altro ancora. Poi un lungo periodo di occupazione e di attività economica depressa, che non è ancora superato.

Le domande dunque sono come e perché ciascuna di queste tre cose è potuta accadere ed è effettivamente accaduta. Su tali domande io ragiono sulla base della domanda di Minsky [1] (perché le economie divengano vulnerabili nel tempo?), di quella di Bagehot (perché diavolo, ora e allora, è sfuggito tutto di mano?), e di quella di Keynes (come accade che le economie possano restare depresse e che tali economie depresse possano funzionare?).

Sulla domanda di Keynes, è vero che non abbiamo avuto un radicale mutamento di pensiero, ma questo è principalmente dipeso dal fatto che le vecchie idee funzionano ancora piuttosto bene. Ovvero, si scopre che la risposta a chi chiede chi sarebbe il nuovo Keynes è che il nuovo Keynes è Keynes stesso. O forse che è Hicks – in ogni modo la analisi del genere del modello IS-LM ha funzionato ottimamente, e gli economisti che si sono resi ridicoli erano gli stessi che avevano respinto gli approcci confermati dall’esperienza.

Quello che c’è di nuovo è che abbiamo avuto un rifiorire di studi empirici, ed abbiamo molte più prove econometriche sulla politica monetaria e particolarmente della finanza pubblica, sul comportamento dei prezzi e su altro, rispetto a quello a cui eravamo abituati. Si vedano, come esempi, il saggio di Nakamura e Steinsson [2], oppure il lavoro di Blanchard sui moltiplicatori nell’area euro. Questa dunque è una storia a buon fine: la struttura esistente ha retto abbastanza bene, ed è ora rafforzata da prove empiriche realmente soddisfacenti.

Quanto alla domanda di Bagehot [3], gli economisti inizialmente sono stati presi impreparati, per due ragioni: non avevano compreso che il sistema bancario ‘ombra’ aveva ricreato i rischi degli ‘assalti agli sportelli bancari’, e non erano stati capaci di apprezzare i problemi del rapporto di indebitamento crescente, perché non c’era posto per problemi del genere nei modelli del genere dell’ ‘agente rappresentativo’ C. Ma non era molto difficile ovviare a questi problemi, o almeno adottare rimedi funzionanti. Una volta che si comprendeva che i ‘repo’ erano i nuovi depositi bancari, c’era già la struttura di base della crisi; e c’era già una sufficiente analisi disponibile sui condizionamenti derivanti dagli equilibri patrimoniali e su tutto ciò che consente la creazione di una abbastanza semplice e utilizzabile serie di modelli, per quanto disordinata e inelegante.

Ed anche in questo caso abbiamo ora a disposizione una fioritura di studi empirici, ad esempio quello di Mian e Sufi [5]  sul debito delle famiglie.

Dove non avevamo fatto, per quanto posso capire, grandi progressi era sulla domanda di Minsky. Perché il sistema era diventato così vulnerabile? Era stata la deregolamentazione (o l’incapacità dei regolamenti a tenere il passo con i mutamenti istituzionali)? Semplici dimenticanze, allorché il ricordo delle crisi passate era svanito? Una politica eccessivamente approssimativa? Ho le mie opinioni a proposito, ma devo ammettere che in questo caso non c’è molto, né di pensieri originali né di testimonianze concrete.

Perché Minsky è ancora in gran parte un pensiero che non riusciamo a far nostro? In parte perché chiederci come siamo arrivati a questo punto è forse meno urgente della domanda relativa al cosa fare adesso. Ma anche, direi, perché non è semplice. Le bolle, il rapporto di indebitamento eccessivo e tutto il resto hanno probabilmente a che fare con i limiti della razionalità, e l’economia comportamentale non ci fornisce come dovrebbe niente che assomigli ad una guida adeguata.

Eppure sono relativamente ottimista nel mio giudizio sullo stato della macroeconomia. Contro l’ossessione matematica e l’ideologia politica anche gli dei si affannano invano, ma quello non è un problema com i modelli.

 

[1] Hyman Philip Minsky (Chicago, 23 settembre 191924 ottobre 1996) è stato  un economista statunitense, collocabile vicino al filone dei post-keynesiani, noto per la sua teoria dell’instabilità finanziaria e sulle cause delle crisi dei mercati. Nel suo libro principale (Keynes e l’instabilità del capitalismo, 2008) ha studiato i processi di finanziarizzazione dell’economia, della creazione di bolle speculative e delle successive crisi, come fenomeni caratteristici delle società capitalistiche, alla luce di una lettura keynesiana del funzionamento dei meccanismi economici. Probabilmente è la figura principale di economista keynesiano degli ultimi decenni, ampiamente sottovalutato, sino almeno alla crisi finanziaria del 2008. Un economista italiano che sottolineò la sua importanza fu Silvano Andriani, nel suo importante  “L’ascesa della finanza”, del 2006. Krugman stesso ha varie volte scritto di questa sottovalutazione, in un certo senso per il passato ammettendola anche da parte sua. In occasione del Convegno di Berlino uno dei principali esponenti di questo neo-minskysmo, Steve Keen, polemizzò abbastanza aspramente con Krugman, provocando alcuni suoi interventi (“Minsky e la metodologia”, post del 27 marzo 2012; “Misticismo bancario”, post sempre del 27 marzo 2012; “Misticismo bancario. Continuazione”, post del 30 marzo 2012).

[2] Due giovani economisti che operano al NBER (National Bureau of Economics Research), che vorremmo tradurre prossimamente su questo blog.

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[3] Un giornalista, imprenditore e scrittore di temi economici ma anche letterari, che visse nell’Ottocento (1826-1877). Nel contesto di questo post, il riferimento implicito è particolarmente ad un suo lavoro di storia finanziaria (“Lombard Street: una descrizione del mercato valutario”, 1873). In un certo senso, in varie occasioni (si vedano vari post di Krugman e di Brad DeLong) quello studio antico viene considerato pienamente soddisfacente per una risposta alla “domanda di Bagehot” alla quale qua si allude: come avviene che si producano sui mercati finanziari quei meccanismi cumulativi che portano alle crisi di panico finanziario.

[4] Gli economisti usano il termine ‘agente-rappresentativo’ per indicare categorie intere di soggetti che assumono decisioni economiche e di mercato ‘tipiche’, come ad esempio ‘i consumatori’ o ‘le imprese’. Un modello economico è definito del genere dell’ ‘agente-rappresentativo’ se assume che il comportamento dei soggetti di una certa categoria è identico.

[5] Di Atif Mian ed Amir Sufi vedi la traduzione in questo blog dell’articolo del 26 aprile 2014.

 

 

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