JULY 3, 2015
It’s depressing thinking about Greece these days, so let’s talk about something else, O.K.? Let’s talk, for starters, about Finland, which couldn’t be more different from that corrupt, irresponsible country to the south. Finland is a model European citizen; it has honest government, sound finances and a solid credit rating, which lets it borrow money at incredibly low interest rates.
It’s also in the eighth year of a slump that has cut real gross domestic product per capita by 10 percent and shows no sign of ending. In fact, if it weren’t for the nightmare in southern Europe, the troubles facing the Finnish economy might well be seen as an epic disaster.
And Finland isn’t alone. It’s part of an arc of economic decline that extends across northern Europe through Denmark — which isn’t on the euro, but is managing its money as if it were — to the Netherlands. All of these countries are, by the way, doing much worse than France, whose economy gets terrible press from journalists who hate its strong social safety net, but it has actually held up better than almost every other European nation except Germany.
And what about southern Europe outside Greece? European officials have been hyping the recovery in Spain, which did everything it was supposed to do and whose economy has finally started to grow again and even to create jobs. But success, European-style, means an unemployment rate that is still almost 23 percent and real income per capita that is still down 7 percent from its pre-crisis level. Portugal has also obediently implemented harsh austerity — and is 6 percent poorer than it used to be.
Why are there so many economic disasters in Europe? Actually, what’s striking at this point is how much the origin stories of European crises differ. Yes, the Greek government borrowed too much. But the Spanish government didn’t — Spain’s story is all about private lending and a housing bubble. And Finland’s story doesn’t involve debt at all. It is, instead, about weak demand for forest products, still a major national export, and the stumbles of Finnish manufacturing, in particular of its erstwhile national champion Nokia.
What all of these economies have in common, however, is that by joining the eurozone they put themselves into an economic straitjacket. Finland had a very severe economic crisis at the end of the 1980s — much worse, at the beginning, than what it’s going through now. But it was able to engineer a fairly quick recovery in large part by sharply devaluing its currency, making its exports more competitive. This time, unfortunately, it had no currency to devalue. And the same goes for Europe’s other trouble spots.
Does this mean that creating the euro was a mistake? Well, yes. But that’s not the same as saying that it should be eliminated now that it exists. The urgent thing now is to loosen that straitjacket. This would involve action on multiple fronts, from a unified system of bank guarantees to a willingness to offer debt relief for countries where debt is the problem. It would also involve creating a more favorable overall environment for countries trying to adjust to bad luck by renouncing excessive austerity and doing everything possible to raise Europe’s underlying inflation rate — currently below 1 percent — at least back up to the official target of 2 percent.
But there are many European officials and politicians who are opposed to anything and everything that might make the euro workable, who still believe that all would be well if everyone exhibited sufficient discipline. And that’s why there is even more at stake in Sunday’s Greek referendum than most observers realize.
One of the great risks if the Greek public votes yes — that is, votes to accept the demands of the creditors, and hence repudiates the Greek government’s position and probably brings the government down — is that it will empower and encourage the architects of European failure. The creditors will have demonstrated their strength, their ability to humiliate anyone who challenges demands for austerity without end. And they will continue to claim that imposing mass unemployment is the only responsible course of action.
What if Greece votes no? This will lead to scary, unknown terrain. Greece might well leave the euro, which would be hugely disruptive in the short run. But it will also offer Greece itself a chance for real recovery. And it will serve as a salutary shock to the complacency of Europe’s elites.
Or to put it a bit differently, it’s reasonable to fear the consequences of a “no” vote, because nobody knows what would come next. But you should be even more afraid of the consequences of a “yes,” because in that case we do know what comes next — more austerity, more disasters and eventually a crisis much worse than anything we’ve seen so far.
I molti disastri economici dell’Europa, di Paul Krugman
New York Times 3 luglio 2015
Di questi giorni ragionare sulla Grecia è deprimente, parliamo dunque di qualcos’altro, siete d’accordo? Parliamo, per cominciare, della Finlandia, che non potrebbe essere più diversa da quel corrotto e irresponsabile paese del sud. La Finlandia è un cittadino europeo modello; ha un governo onesto, finanze sane ed una solida affidabilità creditizia, che le consente di prendere soldi a prestito a tassi di interesse incredibilmente bassi.
È anche all’ottavo anno di crisi economica che ha tagliato il prodotto interno lordo procapite reale del 10 per cento e non mostra alcun segno di ripresa. Di fatto, se non fosse per l’incubo dell’Europa meridionale, i guai dinanzi ai quali si trovano i finlandesi potrebbero essere considerati come un disastro epico.
E la Finlandia non è sola. È parte di un arco di economie in declino che si estende lungo l’Europa settentrionale attraverso la Danimarca – che non è nell’euro, ma sta gestendo la sua moneta come se lo fosse – sino ai Paesi Bassi. Tutti questi paesi, per inciso, vanno molto peggio della Francia, la cui economia riceve sulla stampa un trattamento terribile da giornalisti che odiano la sua forte rete di protezione sociale, ma che in effetti ha tenuto meglio di quasi tutte le altre nazioni europee, esclusa la Germania.
E che dire dell’Europa meridionale, al di là della Grecia? I dirigenti europei si sono esaltati per la ripresa in Spagna, che ha fatto tutto quello che si pensava facesse e la cui economia finalmente ha ricominciato a crescere e persino a creare posti di lavoro. Ma, nel linguaggio europeo, il successo significa un tasso di disoccupazione che è ancora quasi al 23 per cento e un reddito reale procapite che è ancora del 7 per cento più basso del suo livello precedente alla crisi. Anche il Portogallo ha messo in atto una severa austerità – ed è del 6 per cento più povero di quanto era prima.
Perché in Europa ci sono tanti disastri economici? Effettivamente, quello che impressiona a questo punto è quanto siano diverse le storie originarie delle crisi europee. È vero, il Governo greco si indebitò troppo. Ma non il Governo spagnolo – la storia della Spagna riguarda tutta i prestiti al settore privato e una bolla immobiliare. E la storia della Finlandia non riguarda affatto il debito. Riguarda piuttosto una domanda debole di prodotti forestali, un settore ancora importante dell’esportazione della nazione, e i passi falsi del manifatturiero finlandese, in particolare di Nokia, che un tempo era il campione del paese.
Ciò che tutte queste economie hanno in comune, tuttavia, è che aderendo all’eurozona si sono cacciate dentro una camicia di forza economica. La Finlandia ebbe una crisi economica molto grave alla fine degli anni ’80 – molto peggiore, agli inizi, di quella da cui sta passando adesso. Ma fu nelle condizioni di rendere possibile una ripresa abbastanza rapida in gran parte svalutando bruscamente la sua valuta e rendendo le sue esportazioni più competitive. Questa volta, sfortunatamente, non ha una valuta da svalutare. Lo stesso dicasi degli altri luoghi problematici dell’Europa.
Questo significa che creare l’euro è stato un errore. In effetti è così. Ma questa non è la stessa cosa che dire che, ora che esiste, dovrebbe essere eliminato. La cosa urgente, adesso, è allentare quella camicia di forza. La qualcosa comporterebbe una iniziativa su molti fronti, da un sistema unificato di garanzie bancarie alla disponibilità ad offrire attenuazioni del debito per i paesi nei quali il debito è il problema. Comporterebbe anche creare un contesto generale più favorevole per paesi che cercano di contrastare la mala sorte, rinunciando ad una austerità eccessiva e facendo tutto il possibile per elevare il tasso di inflazione di base – attualmente sotto l’1 per cento – almeno riportandolo all’obbiettivo ufficiale del 2 per cento.
Sennonché ci sono molti uomini politici e alti dirigenti che si oppongono praticamente ad ogni cosa che metterebbe l’euro nelle condizioni di funzionare, che credono ancora che tutto andrebbe per il meglio se ognuno mostrasse sufficiente disciplina. E questa è la ragione per la quale nel referendum greco di domenica ci sono persino più cose in gioco di quello che molti osservatori comprendano.
Uno dei grandi rischi se l’opinione pubblica greca vota ‘sì’ – ovvero, se vota per accettare le richieste dei creditori, e di conseguenza per ripudiare la posizione del Governo greco e probabilmente per costringerlo alle dimissioni – è che essa rafforzerà ed incoraggerà gli architetti del fallimento europeo. I creditori avranno dimostrato la loro forza, la loro capacità di umiliare chiunque sfidi le richieste di una austerità illimitata. E continueranno a sostenere che imporre una disoccupazione di massa è l’unico indirizzo responsabile.
Cosa accade se la Grecia vota no? Quel voto porterebbe su un preoccupante terreno ignoto. La Grecia potrebbe lasciare l’euro, il che nel breve periodo potrebbe essere un fattore di grande perturbazione. Ma offrirebbe anche alla Grecia stessa una possibilità di reale ripresa. E avrebbe l’effetto di un trauma salutare per l’autocompiacimento delle classi dirigenti europee.
Oppure, per dirla in termini un po’ diversi, è ragionevole aver timore delle conseguenze di un voto per il ‘no’, perché nessuno sa quello che verrebbe dopo. Ma si dovrebbe avere ancora maggiore paura di un ‘sì’, giacché in quel caso sapremmo cosa viene dopo – più austerità, maggiori disastri e alla fine una crisi molto peggiore di tutto quello che abbiamo visto sino a questo punto.
By mm
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