Articoli sul NYT

I progressisti ed i salari, di Paul Krugman (New York Times 17 luglio 2015)

 

Liberals and Wages

JULY 17, 2015

Paul Krugman

z 814

Hillary Clinton gave her first big economic speech on Monday, and progressives were by and large gratified. For Mrs. Clinton’s core message was that the federal government can and should use its influence to push for higher wages.

Conservatives, however — at least those who could stop chanting “Benghazi! Benghazi! Benghazi!” long enough to pay attention — seemed bemused. They believe that Ronald Reagan proved that government is the problem, not the solution. So wasn’t Mrs. Clinton just reviving defunct “paleoliberalism”? And don’t we know that government intervention in markets produces terrible side effects?

No, she wasn’t, and no, we don’t. In fact, Mrs. Clinton’s speech reflected major changes, deeply grounded in evidence, in our understanding of what determines wages. And a key implication of that new understanding is that public policy can do a lot to help workers without bringing down the wrath of the invisible hand.

Many economists used to think of the labor market as being pretty much like the market for anything else, with the prices of different kinds of labor — that is, wage rates — fully determined by supply and demand. So if wages for many workers have stagnated or declined, it must be because demand for their services is falling.

In particular, the conventional wisdom attributed rising inequality to technological change, which was raising the demand for highly educated workers while devaluing blue-collar work. And there was nothing much policy could do to change the trend, other than aiding low-wage workers via subsidies like the earned-income tax credit.

You still see commentators who haven’t kept up invoking this story as if it were obviously true. But the case for “skill-biased technological change” as the main driver of wage stagnation has largely fallen apart. Most notably, high levels of education have offered no guarantee of rising incomes — for example, wages of recent college graduates, adjusted for inflation, have been flat for 15 years.

Meanwhile, our understanding of wage determination has been transformed by an intellectual revolution — that’s not too strong a word — brought on by a series of remarkable studies of what happens when governments change the minimum wage.

More than two decades ago the economists David Card and Alan Krueger realized that when an individual state raises its minimum wage rate, it in effect performs an experiment on the labor market. Better still, it’s an experiment that offers a natural control group: neighboring states that don’t raise their minimum wages. Mr. Card and Mr. Krueger applied their insight by looking at what happened to the fast-food sector — which is where the effects of the minimum wage should be most pronounced — after New Jersey hiked its minimum wage but Pennsylvania did not.

Until the Card-Krueger study, most economists, myself included, assumed that raising the minimum wage would have a clear negative effect on employment. But they found, if anything, a positive effect. Their result has since been confirmed using data from many episodes. There’s just no evidence that raising the minimum wage costs jobs, at least when the starting point is as low as it is in modern America.

How can this be? There are several answers, but the most important is probably that the market for labor isn’t like the market for, say, wheat, because workers are people. And because they’re people, there are important benefits, even to the employer, from paying them more: better morale, lower turnover, increased productivity. These benefits largely offset the direct effect of higher labor costs, so that raising the minimum wage needn’t cost jobs after all.

The direct takeaway from this intellectual revolution is, of course, that we should raise minimum wages. But there are broader implications, too: Once you take what we’ve learned from minimum-wage studies seriously, you realize that they’re not relevant just to the lowest-paid workers.

For employers always face a trade-off between low-wage and higher-wage strategies — between, say, the traditional Walmart model of paying as little as possible and accepting high turnover and low morale, and the Costco model of higher pay and benefits leading to a more stable work force. And there’s every reason to believe that public policy can, in a variety of ways — including making it easier for workers to organize — encourage more firms to choose the good-wage strategy.

So there was a lot more behind Hillary’s speech than I suspect most commentators realized. And for those trying to play gotcha by pointing out that some of what she said differed from ideas that prevailed when her husband was president, well, many liberals have changed their views in response to new evidence. It’s an interesting experience; conservatives should try it some time.

 

 

I progressisti ed i salari, di Paul Krugman

New York Times 17 luglio 2015

Lunedì Hillary Clinton ha tenuto il suo primo importante discorso economico e i progressisti nel complesso sono rimasti soddisfatti. Perché il messaggio centrale della Clinton è stato che il Governo Federale può usare la sua influenza per spingere i salari più in alto, e dovrebbe farlo.

I conservatori, tuttavia – almeno quelli che sono riusciti a fermarsi nello scandire lo slogan “Bengasi!, Bengasi!, Bengasi!” [1] il tempo sufficiente per prestare attenzione – sembrano disorientati. Essi credevano che Ronald Reagan avesse dimostrato che il Governo è il problema, non la soluzione dei problemi. Dunque, la signora Clinton non sta semplicemente resuscitando il defunto “paleo progressismo”? E noi non sappiamo che l’intervento del Governo sui mercati produce terribili effetti collaterali?

No, non è quello che ha fatto la Clinton, e non è vero che lo sappiamo. In sostanza, il discorso della Clinton riflette importanti cambiamenti nella nostra comprensione di quali fattori determinano i salari, profondamente basati su prove. Ed una implicazione cruciale di tali nuove conoscenze è che la politica pubblica può fare molto per aiutare i lavoratori, senza provocare la collera della mano invisibile [2].

Molti economisti sono soliti pensare al mercato del lavoro come se fosse del tutto simile a tutti gli altri mercati, con i prezzi dei diversi generi delle attività lavorative – ovvero, i tassi salariali – interamente determinati dall’offerta e dalla domanda. Così, se per molti lavoratori i salari hanno ristagnato o sono calati, questo deve essere dipeso dal fatto che la domanda per i loro servizi è caduta.

In particolare, il senso comune convenzionale ha attribuito la crescita delle ineguaglianze ai mutamenti tecnologici, che hanno innalzato la richiesta di lavoratori con elevata istruzione mentre hanno svalutato il lavoro dei colletti blu. E non c’era granché che la politica poteva fare per modificare quella tendenza, se non aiutare i lavoratori con bassi salari con sussidi, quale quello del credito di imposta sui redditi da lavoro.

Si possono ancora osservare commentatori che non hanno smesso di invocare questa spiegazione come se fosse indiscutibilmente vera. Ma la tesi del “cambiamento tecnologico orientato alle competenze professionali” come fattore principale della stagnazione dei salari è in gran parte andata in frantumi. L’aspetto più rilevante è stato che gli alti livelli di istruzione non hanno offerto alcuna garanzia di redditi crescenti – ad esempio, i salari di persone laureate di recente, corretti per l’inflazione, sono rimasti piatti per 15 anni.

Nel frattempo, la nostra comprensione di ciò che determina i salari è stata trasformata da una rivoluzione intellettuale – il termine non è esagerato – provocata da una serie di rilevanti studi su quello che succede quando i governi modificano il salario minimo.

Più di due decenni orsono gli economisti David Card e Alan Krueger compresero che quando uno Stato singolo innalza il suo tasso salariale minimo, in effetti esso mette in scena un esperimento sul mercato del lavoro. Meglio ancora, si tratta di un esperimento che isola un gruppo suscettibile di un controllo oggettivo [3]: gli stati vicini che non aumentano i loro salari minimi. Card e Krueger applicarono la loro intuizione a quello che accadeva nel settore del fast food – ovvero dove gli effetti del minimo salariale dovrebbero essere più pronunciati – dopo che il New Jersey aveva elevato il suo minimo salariale, mentre la Pennsylvania non l’aveva fatto.

Sino allo studio di Card e Krueger, la maggioranza degli economisti, incluso il sottoscritto, consideravano che l’aumento del minimo salariale avrebbe avuto un chiaro effetto negativo sull’occupazione. Ma essi scoprirono, semmai, un effetto positivo. Da allora il loro risultato è stato confermato utilizzando i dati relativi a molti episodi. Non c’è alcuna prova che alzare il minimo salariale comporti la perdita di posti di lavoro, almeno quando il punto di partenza è così basso come nell’America contemporanea.

Come è possibile tutto ciò? Ci sono varie risposte, ma la più importante probabilmente è che il mercato del lavoro non è la stessa cosa, diciamo, del mercato del grano, perché i lavoratori sono persone. E dato che sono persone, ci sono benefici importanti, persino per il datore di lavoro, se vengono pagate di più: un migliore spirito di gruppo, un minore turnover, una produttività accresciuta. Questi benefici hanno bilanciato ampiamente l’effetto diretto di costi del lavoro più alti, cosicché elevare il minimo salariale, alla fine dei conti, non ha reso necessario alcun costo in termini di posti di lavoro.

L’acquisizione diretta che deriva da questa rivoluzione intellettuale, ovviamente, è che dovremmo elevare i minimi salariali. Ma ci sono anche implicazioni più generali: una volta che si prende sul serio quello che abbiamo appreso dagli studi sui minimi salariali, si comprende che essi non sono solo rilevanti per i lavoratori con le paghe più basse.

Perché i datori di lavoro fanno sempre fronte ad uno scambio tra strategie di bassi salari e di salari più elevati – ad esempio, tra il tradizionale modello della Walmart che paga il meno possibile ed accetta un elevato turnover e basse motivazioni, ed il modello Costco di salari e di sussidi più elevati che portano ad una forza di lavoro più stabile [4]. E ci sono tutte le ragioni per credere che la politica pubblica può, in una varietà di modi – incluso il rendere più agevole per i lavoratori l’organizzarsi sindacalmente – incoraggiare più imprese a scegliere la strategia dei buoni salari.

Dunque, dietro il discorso di Hillary Clinton, io sospetto ci sia molto di più di quello che hanno compreso la maggioranza dei commentatori. E per coloro che cercano di fare il giochino del prenderla in castagna, mettendo in evidenza che alcune delle cose che ha detto differivano dalle idee che prevalevano quando suo marito era Presidente, ebbene, sono molti i progressisti che hanno cambiato punti di vista in risposta a nuove prove. È un’esperienza interessante; ogni tanto i conservatori dovrebbero provarla.

 

 

 

[1] “Bengasi!” si riferisce all’attentato terroristico contro il consolato statunitense in Libia, che si concluse con la morte del diplomatico americano. Vicenda che le destra americana considera disonorevole, attribuendone la responsabilità ad Hillary Clinton, allora Segretaria agli Affari Esteri.

[2] Ovvero, della regola che, nella definizione di Adam Smith, presiede all’andamento del mercato.

[3] Traduzione un po’ libera di un concetto che ha un significato preciso, in sociologia, in epidemiologia ed anche in economia. L’esistenza di un fenomeno, o di un raggruppamento di fenomeni individuali, che risultano controllabili in modo naturale, per le loro relazioni oggettive con l’ambiente circostante. Uno dei primi esempi di “esperimento naturale” fu uno studio sulla propagazione di alcune centinaia di casi di colera in un quartiere di Londra nel 1854.

[4] Walmart e Costco sono catene di supermercati che si rivolgono a generi prevalenti di consumatori diversi: più popolare la prima (lo slogan della Walmart è “Risparmia denaro, vivi meglio”), che è di gran lunga la più grande, con 2 milioni e 200 mila dipendenti; più “middle class” la seconda, con una gamma ampia di prodotti non solo di prima necessità (elettronica, tempo libero), 142.000 dipendenti e 55 milioni di soci (al 2009).

Due immagini, a sinistra Walmart e a destra Costco:

 

z 849     z 848

 

 

 

 

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"