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Il voto della Grecia per la sovranità di Dani Rodrik (da Project Syndicate, 7 luglio 2015)

 

JUL 7, 2015

Greece’s Vote for Sovereignty

Dani Rodrik

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CAMBRIDGE – Creditors and debtors have found themselves at odds for as long as money has changed hands. But rarely have the issues been framed as starkly – and in such a public manner – as in the just completed Greek referendum.

In a vote on July 5, the Greek electorate resoundingly rejected demands for further austerity by the country’s foreign creditors: the European Central Bank, the International Monetary Fund, and the other eurozone governments, led by Germany. Whatever the economic merits of the decision, the Greek people’s voice rang loud and clear: We are not going to take it anymore.

It would be a mistake, however, to view the vote in Greece as a straightforward victory for democracy – despite what the country’s prime minister, Alexis Tsipras, and his supporters like to claim. What the Greeks call democracy comes across in many other – equally democratic – countries as irresponsible unilateralism. There is, in fact, little sympathy for the Greek position in other eurozone countries, where similar referendums would undoubtedly show overwhelming public support for the continuation of the austerity policies imposed on Greece.

And it isn’t just citizens of the large creditor countries, such as Germany, who have little patience for Greece. Exasperation is especially widespread among the eurozone’s poorer members. Ask the average person on the street in Slovakia, Estonia, or Lithuania, and you are likely to get a response not too different from this one from a Latvian pensioner: “We learned our lesson – why can’t the Greeks learn the same lesson?”

One might argue that Europeans are not well informed about the plight of the Greeks and the damage that austerity has done to the country. And, indeed, it is possible that with better information, many among them would change their position. But the forces of public opinion on which democracies rest rarely take shape in ideal conditions. Indeed, one need look no further than the Greek vote itself to find an example of raw emotions and outrage winning out over a rational calculation of economic costs and benefits.

It is important to remember that the creditors in this instance are not a bunch of oligarchs or wealthy private bankers, but the governments of the other eurozone countries, democratically accountable to their own electorates. (Whether they did the right thing in 2012 by lending to Greece so that their own bankers could be repaid is a legitimate, but separate question.) This is not a conflict between the Greek demos – its people and the bankers, as much as it is a conflict between European democracies.

When the Greeks voted “no,” they reaffirmed their democracy; but, more than that, they asserted the priority of their democracy over those in other eurozone countries. In other words, they asserted their national sovereignty – their right as a nation to determine their own economic, social, and political path. If the Greek referendum is a victory for anything, it is a victory for national sovereignty.

That is what makes it so ominous for Europe. The European Union, and even more so the eurozone, was constructed on the expectation that the exercise of national sovereignty would fade away over time. This was rarely made explicit; sovereignty, after all, is popular. But as economic unification narrowed each country’s room for maneuver, it was hoped, national action would be exercised less frequently. The Greek referendum has put perhaps the final nail in the coffin of that idea.

It need not have been this way. Europe’s political elite could have framed the Greek financial crisis as a tale of economic interdependence – you cannot have bad borrowers, after all, without careless lenders – instead of a morality tale pitting frugal, hard-working Germans against profligate, carefree Greeks. Doing so might have facilitated the sharing of the burden between debtors and creditors and prevented the emergence of the us-versus-them attitude that poisoned the relationship between Greece and the institutions of the eurozone.

More fundamentally, economic integration could have been accompanied by the expansion of a European political space. Compensating for reduced national autonomy by creating room for democratic action at the European level really would have been a victory for democracy.

It is too late to debate whether the culprit was the unwillingness of the European public to embark on the path toward political union or the timidity of its national politicians to exercise leadership. The consequence is that in today’s Europe, democracy can be reaffirmed only by asserting national sovereignty. And that is what the Greek electorate has done.

The referendum is deeply important, but mostly as an act of political symbolism. What remains to be seen is whether the Greek public also has the stomach for the economic actions – in particular, an exit from the eurozone and the introduction of a national currency – that real sovereignty would entail. After all, the terms on offer from the country’s creditors are unlikely to change much. If the Greeks voted “no” based on unrealistic expectations that other eurozone democracies would be forced to bend to their wishes, they may be in for another deep disappointment – and their own lesson in democracy.

 

 

Il voto della Grecia per la sovranità

di Dani Rodrik

CAMBRIDGE – Tutte le volte in cui i soldi sono passati da una mano all’altra, i creditori ed i debitori si sono trovati in disaccordo. Ma raramente i termini sono stato inquadrati con tale asprezza – e con tali modalità pubbliche – come nell’appena concluso referendum greco.

In una votazione il 5 di luglio, l’elettorato greco ha clamorosamente respinto le richieste di ulteriore austerità da parte dei creditori stranieri del paese: la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale e gli altri Governi dell’eurozona, guidati dalla Germania. Qualsiasi fosse il merito economico della decisione, la voce del popolo greco è risuonata forte e chiara: non abbiamo intenzione di subire altra austerità.

Sarebbe un errore, tuttavia, considerare il voto in Grecia come una inequivocabile vittoria della democrazia – nonostante quello che sostengono il Primo Ministro Alexis Tsipras ed i suoi sostenitori. Quello che i Greci chiamano democrazia, viene vissuto in altri paesi – egualmente democratici – come irresponsabile unilateralismo. C’è, di fatto, poca simpatia per la posizione greca negli altri paesi dell’eurozona, dove referendum simili avrebbero con certezza mostrato uno schiacciante sostegno dell’opinione pubblica per la continuazione delle politiche di austerità imposte in Grecia.

E non sono soltanto i cittadini dei grandi paesi creditori, come la Germania, che hanno poca pazienza con la Grecia. L’esasperazione è particolarmente diffusa tra i membri più poveri dell’eurozona. Lo si chieda ad un persona comune nelle strade della Slovacchia, dell’Estonia o della Lituania, ed è probabile che si otterrà una risposta non molto diversa da questa fornita da un pensionato lettone: “Noi abbiamo imparato la nostra lezione – perché i Greci non possono imparare la stessa lezione?”

Si potrebbe sostenere che gli europei non sono bene informati sulla emergenza dei Greci e sul danno che l’austerità ha fatto a quel paese. E, in effetti, è possibile che con una migliore informazione, molti di loro cambierebbero posizione. Ma il peso dell’opinione pubblica sul quale si fonda la democrazia, raramente prende forma in condizioni ideali. In effetti, non c’è bisogno di guardare altro che lo stesso voto greco per trovare un esempio di emozioni crude e dello sdegno che prevale su calcolo razionale dei costi e dei benefici economici.

È importante ricordare che in questo caso i creditori non sono un gruppo di oligarchi o di ricchi banchieri privati, ma il Governi degli altri paesi dell’eurozona, tenuti democraticamente a rispondere ai loro elettorati (se essi nel 2012 abbiano fatto la cosa giusta dando alla Grecia prestiti perché potesse ripagare i loro stessi banchieri, è una domanda legittima, ma distinta). Questo non è un conflitto tra il demos greco – il suo popolo – e i banchieri, quanto piuttosto un conflitto tra le democrazie europee.

Allorché i Greci hanno votato “no”, essi hanno riaffermato la loro democrazia; ma, più di quello, hanno asserito la priorità della loro democrazia su quelle degli altri paesi dell’eurozona. In altre parole, hanno asserito la loro sovranità nazionale – il loro diritto, come nazione, a determinare il loro proprio indirizzo economico, sociale e politico. Se il referendum greco è una vittoria per qualcosa, è una vittoria per la sovranità nazionale.

È questo che lo rende così minaccioso per l’Europa. L’Unione Europea, e ancora di più l’eurozona, sono state costruite nell’aspettativa che la sovranità nazionale sarebbe svanita col tempo. Raramente questo era reso esplicito; la sovranità, in fin dei conti, è popolare. Ma come l’unificazione ha ristretto lo spazio di manovra per ogni paese, si era sperato che l’iniziativa nazionale sarebbe stata esercitata meno frequentemente. Il referendum greco ha forse messo l’ultimo chiodo sulla bara di questa idea.

Non c’era bisogno che accadesse in questo modo. I gruppi dirigenti europei avrebbero potuto inquadrare la crisi finanziaria greca come un episodio di interdipendenza economica – dopotutto, non si possono avere cattivi debitori se non si hanno creditori poco scrupolosi – anziché come un racconto moraleggiante che ritrae tedeschi frugali ed abituati a lavorare sodo, contro greci dissipatori e privi di scrupoli. Facendo così, potevano facilitare la condivisione del peso tra debitori e creditori ed impedire che emergesse una attitudine degli ‘uni contro gli altri’ che ha avvelenato le relazioni tra la Grecia e le altre istituzioni dell’eurozona.

In termini ancora più importanti, l’integrazione europea avrebbe dovuto essere accompagnata dalla espansione di uno spazio politico europeo. Compensare la ridotta autonomia nazionale creando lo spazio per una iniziativa democratica a livello europeo sarebbe stata una vittoria per la democrazia.

È troppo tardi per ragionare se la responsabilità sia dipesa dall’indisponibilità dell’opinione pubblica europea ad imbarcarsi sul sentiero verso l’unione politica o dalla timidezza dei dirigenti politici nazionali ad esercitare la loro funzione di guida. La conseguenza è che, nell’Europa odierna, la democrazia può essere riaffermata solo ristabilendo la sovranità nazionale. Ed è quello che l’elettorato greco ha fatto.

Il referendum ha una profonda importanza, ma in gran parte come atto di simbolismo politico. Quello che resta da vedere è se l’opinione pubblica greca ha anche lo stomaco per le azioni economiche – in particolare, per l’uscita dall’euro e l’introduzione di una valuta nazionale – che una reale sovranità comporterebbe. Dopo tutto, è improbabile che i termini dell’offerta da parte dei paesi creditori cambino di molto. Se i Greci hanno votato “no” basandosi sulla aspettativa irrealistica che le altre democrazie dell’eurozona sarebbero state costrette a ripiegare rispetto ai loro desideri, forse si prospetta per loro – e per la loro stessa lezione di democrazia – un’altra profonda delusione.

 

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