JULY 24, 2015
Goodbye, Chicago boys. Hello, M.I.T. gang.
If you don’t know what I’m talking about, the term “Chicago boys” was originally used to refer to Latin American economists, trained at the University of Chicago, who took radical free-market ideology back to their home countries. The influence of these economists was part of a broader phenomenon: The 1970s and 1980s were an era of ascendancy for laissez-faire economic ideas and the Chicago school, which promoted those ideas.
But that was a long time ago. Now a different school is in the ascendant, and deservedly so.
It’s actually surprising how little media attention has been given to the dominance of M.I.T.-trained economists in policy positions and policy discourse. But it’s quite remarkable. Ben Bernanke has an M.I.T. Ph.D.; so do Mario Draghi, the president of the European Central Bank, and Olivier Blanchard, the enormously influential chief economist of the International Monetary Fund. Mr. Blanchard is retiring, but his replacement, Maurice Obstfeld, is another M.I.T. guy — and another student of Stanley Fischer, who taught at M.I.T. for many years and is now the Fed’s vice chairman.
These are just the most prominent examples. M.I.T.-trained economists, especially Ph.D.s from the 1970s, play an outsized role at policy institutions and in policy discussion across the Western world. And yes, I’m part of the same gang.
So what distinguishes M.I.T. economics, and why does it matter? To answer that question, you need to go back to the 1970s, when all the people I’ve just named went to graduate school.
At the time, the big issue was the combination of high unemployment with high inflation. The coming of stagflation was a big win for Milton Friedman, who had predicted exactly that outcome if the government tried to keep unemployment too low for too long; it was widely seen, rightly or (mostly) wrongly, as proof that markets get it right and the government should just stay out of the way.
Or to put it another way, many economists responded to stagflation by turning their backs on Keynesian economics and its call for government action to fight recessions.
At M.I.T., however, Keynes never went away. To be sure, stagflation showed that there were limits to what policy can do. But students continued to learn about the imperfections of markets and the role that monetary and fiscal policy can play in boosting a depressed economy.
And the M.I.T. students of the 1970s enlarged on those insights in their later work. Mr. Blanchard, for example, showed how small deviations from perfect rationality can have large economic consequences; Mr. Obstfeld showed that currency markets can sometimes experience self-fulfilling panic.
This open-minded, pragmatic approach was overwhelmingly vindicated after crisis struck in 2008. Chicago-school types warned incessantly that responding to the crisis by printing money and running deficits would lead to 70s-type stagflation, with soaring inflation and interest rates. But M.I.T. types predicted, correctly, that inflation and interest rates would stay low in a depressed economy, and that attempts to slash deficits too soon would deepen the slump.
The truth, although nobody will believe it, is that the economic analysis some of us learned at M.I.T. way back when has worked very, very well for the past seven years.
But has the intellectual success of M.I.T. economics led to comparable policy success? Unfortunately, the answer is no.
True, there have been some important monetary successes. The Fed, led by Mr. Bernanke, ignored right-wing pressure and threats — Rick Perry, as governor of Texas, went so far as to accuse him of treason — and pursued an aggressively expansionary policy that helped limit the damage from the financial crisis. In Europe, Mr. Draghi’s activism has been crucial to calming financial markets, probably saving the euro from collapse.
On other fronts, however, the M.I.T. gang’s good advice has been ignored. The I.M.F.’s research department, under Mr. Blanchard’s leadership, has done authoritative work on the effects of fiscal policy, demonstrating beyond any reasonable doubt that slashing spending in a depressed economy is a terrible mistake, and that attempts to reduce high levels of debt via austerity are self-defeating. But European politicians have slashed spending and demanded crippling austerity from debtors anyway.
Meanwhile, in the United States, Republicans have responded to the utter failure of free-market orthodoxy and the remarkably successful predictions of much-hated Keynesians by digging in even deeper, determined to learn nothing from experience.
In other words, being right isn’t necessarily enough to change the world. But it’s still better to be right than to be wrong, and M.I.T.-style economics, with its pragmatic openness to evidence, has been very right indeed.
La squadra del MIT, di Paul Krugman
New York Times 24 luglio 2015
Addio, Chicago boys. Un benvenuto, alla squadra del MIT.
Se non sapete a cosa mi riferisco, il termine “Chicago boys” venne all’origine utilizzato per riferirsi a quegli economisti latino americani che, addestrati all’Università di Chicago, riportarono ai loro paesi d’origine l’ideologia radicale del libero mercato. L’influenza di questi economisti costituì un aspetto di un fenomeno più generale: gli anni ’70 e ’80 furono un’epoca di grande influenza delle idee economiche del laissez-faire e della scuola di Chicago, che le promuoveva.
Ma questo avveniva molto tempo fa. Ora è in ascesa una scuola diversa, e con giusto merito.
È effettivamente sorprendente quanta poca attenzione i media abbiano prestato alla supremazia degli economisti formati al MIT, sia negli incarichi pubblici che nel dibattito politico. Ma è abbastanza considerevole. Ben Bernanke ha avuto un dottorato al MIT; lo stesso per Mario Draghi, il Presidente della Banca Centrale Europea, e per Olivier Blanchard, il capo economista grandemente influente del Fondo Monetario Internazionale. Blanchard sta ritirandosi, ma il suo sostituto, Maurice Obstfeld, è un altro soggetto del MIT, nonché studente di Stanley Fisher, che insegnò al MIT per molti anni ed è adesso Vicepresidente della Fed.
Questi sono soltanto gli esempi più eminenti. Economisti formati al MIT, in particolare titolari di dottorati negli anni ’70, giocano un ruolo molto rilevante nelle istituzioni pubbliche e nel dibattito politico in tutto il mondo occidentale. E il sottoscritto fa parte della stessa ‘banda’.
Dunque, cos’è che distingue l’economia del MIT, e perché è importante. Per rispondere a quella domanda, dovete tornare agli anni ’70, quando tutte le persone che ho appena nominato andavano all’università.
A quel tempo, il tema era la combinazione di una disoccupazione e di una inflazione entrambe elevate. L’avvento della stagflazione fu un grande successo di Milton Friedman, che aveva previsto quel risultato se il Governo avesse cercato di mantenere troppo bassa la disoccupazione per un periodo troppo lungo; ciò fu ampiamente considerato, giustamente o (nella maggioranza dei casi) erroneamente, come la prova che i mercati agiscono in modo giusto e i governi dovrebbero semplicemente non mettersi in mezzo.
O, per dirla altrimenti, molti economisti risposero alla stagflazione voltando le spalle alla teoria economica keynesiana e al suo appello all’iniziativa pubblica per combattere le recessioni.
Dal MIT, tuttavia, Keynes non era mai scomparso. Si deve ammettere che la stagflazione mostrò che c’erano limiti in quello che la politica poteva fare. Ma gli studenti continuarono ad imparare sui temi delle imperfezioni dei mercati e sul ruolo che la politica monetaria e della finanza pubblica possono giocare nell’incoraggiare una economia depressa.
E gli studenti del MIT degli anni ’70 ampliarono queste intuizioni nei loro lavori successivi. Blanchard, ad esempio, mostrò come piccole deviazioni dalla perfetta razionalità possono avere ampie conseguenze economiche; Obstfeld mostrò che i mercati valutari possono talvolta conoscere crisi di panico che si auto avverano.
Questo approccio pragmatico e con mentalità aperta fu completamente confermato, allorché la crisi esplose nel 2008. I soggetti della scuola di Chicago mettevano in continuazione in guardia sul fatto che rispondere alla crisi stampando moneta e realizzando deficit avrebbe portato ad una stagflazione del genere degli anni ’70, con l’inflazione e i tassi di interesse che sarebbero volati alle stelle. Ma gli individui del MIT, correttamente, avevano previsto che l’inflazione e i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi in una economia depressa, e che i tentativi di abbattere i deficit troppo rapidamente avrebbero approfondito la crisi.
La verità, anche se nessuno ci crederà, è che l’analisi economica che alcuni di noi appresero al MIT molto tempo fa ha funzionato ottimamente nei sette anni passati.
Ma questo successo intellettuale dell’economia del MIT ha portato ad un successo politico paragonabile? Sfortunatamente, la risposta è negativa.
È vero, ci sono stati alcuni importanti successi monetari. La Fed, sotto la guida di Bernanke, ha ignorato la pressione e le minacce della destra – Rick Perry, all’epoca Governatore del Texas, arrivò al punto di accusarlo di tradimento – ed ha seguito una politica aggressivamente espansiva che ha contribuito a limitare i danni della crisi finanziaria. L’attivismo di Mario Draghi, in Europa, è stato fondamentale per calmare i mercati finanziari, probabilmente salvando l’euro dal collasso.
Su altri fronti, tuttavia, i buoni consigli della squadra del MIT sono stati ignorati. Il dipartimento di ricerca del MIT, sotto la guida di Blanchard, ha svolto un lavoro autorevole sugli effetti della politica della finanza pubblica, dimostrando oltre ogni ragionevole dubbio che abbattere la spesa in una economia depressa è un errore terribile, e che i tentativi di ridurre gli alti livelli del debito attraverso l’austerità sono controproducenti. Ma i politici europei hanno comunque abbattuto la spesa pubblica e richiesto ai debitori una austerità rovinosa.
Nel frattempo, negli Stati Uniti i repubblicani hanno reagito al completo fallimento dell’ortodossia del libero mercato ed al considerevole successo delle previsioni dei tanto odiati keynesiani, trincerandosi ancora più profondamente nelle proprie posizioni, determinati a non imparare nulla dall’esperienza.
In altre parole, aver ragione non necessariamente è sufficiente a cambiare il mondo. Purtuttavia è meglio aver ragione che torto, e l’economia stile MIT, con la sua apertura pragmatica alle esperienze, in effetti, ha avuto molta ragione.
By mm
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