JUL 24, 2015
BERKELEY – Back in the early days of the ongoing economic crisis, I had a line in my talks that sometimes got applause, usually got a laugh, and always gave people a reason for optimism. Given the experience of Europe and the United States in the 1930s, I would say, policymakers would not make the same mistakes as their predecessors did during the Great Depression. This time, we would make new, different, and, one hoped, lesser mistakes.
Unfortunately, that prediction turned out to be wrong. Not only have policymakers in the eurozone insisted on repeating the blunders of the 1930s; they are poised to repeat them in a more brutal, more exaggerated, and more extended fashion. I did not see that coming.
When the Greek debt crisis erupted in 2010, it seemed to me that the lessons of history were so obvious that the path to a resolution would be straightforward. The logic was clear. Had Greece not been a member of the eurozone, its best option would have been to default, restructure its debt, and depreciate its currency. But, because the European Union did not want Greece to exit the eurozone (which would have been a major setback for Europe as a political project), Greece would be offered enough aid, support, debt forgiveness, and assistance with payments to offset any advantages it might gain by exiting the monetary union.
Instead, Greece’s creditors chose to tighten the screws. As a result, Greece is likely much worse off today than it would have been had it abandoned the euro in 2010. Iceland, which was hit by a financial crisis in 2008, provides the counterfactual. Whereas Greece remains mired in depression, Iceland – which is not in the eurozone – has essentially recovered.
To be sure, as the American economist Barry Eichengreen argued in 2007, technical considerations make exiting the eurozone difficult, expensive, and dangerous. But that is just one side of the ledger.
Using Iceland as our measuring stick, the cost to Greece of not exiting the eurozone is equivalent to 75% of a year’s GDP – and counting. It is hard for me to believe that if Greece had abandoned the euro in 2010, the economic fallout would have amounted to even a quarter of that. Furthermore, it seems equally improbable that the immediate impact of exiting the eurozone today would be larger than the long-run costs of remaining, given the insistence of Greece’s creditors on austerity.
That insistence reflects the attachment of policymakers in the EU – especially in Germany – to a conceptual framework that has led them consistently to underestimate the gravity of the situation and recommend policies that make matters worse.
In May 2010, Greece’s GDP had fallen by 4% year on year. The EU and the European Central Bank predicted that the first bailout program would drive Greek GDP down by another 3% below 2010 levels, before the economy began to recover in 2012.
By March 2012, however, reality had set in. With GDP headed to 12% below 2010 levels, a second program was put in place. By the end of the year, GDP had fallen to 17% below 2010 levels. Greece’s GDP is now 25% below its 2009 level. And while some predict a recovery in 2016, I fail to see how any analysis of demand flows can justify that forecast.
The main reason the forecasts were so wrong is that those making them chronically underestimated the impact of government spending on the economy – especially when interest rates are near zero. And yet the clear failure of austerity to restart the economy in Greece or the rest of the eurozone has not caused policymakers to rethink their approach.
Instead, they seem to be doubling down, on the theory that the deeper the crisis, the more successful the push for structural reforms will be. Such reforms are needed to boost long-term growth, the thinking goes, and if that growth does not rapidly emerge, it is because the need for them was even greater than originally thought.
This, sadly, is the story of the 1930s as well. As the American commentator Matthew Yglesias points out, Europe’s major center-left parties at that time recognized that what was being done was not working, but nonetheless failed to offer an alternative. “It was left to other parties with less worthy overall agendas – Hitler, for example – to step in and say that if the rules of the game led to prolonged spells of mass unemployment, then the rules of the game had to be changed.”
Today, Yglesias adds, Europe’s center-left politicians similarly “don’t have a strategy for changing the rules, and they don’t have the guts to tear up the rulebook.” As a result, austerity reigns, and dissent is left to populists like France’s Marine Le Pen or Italy’s Beppe Grillo – whose economic proposals seem even less likely to be effective.
One would have thought we were capable of learning from the past, and that the Great Depression was important enough in European history that policymakers there would not be repeating its mistakes. And yet, at the moment, that is precisely what seems to be happening.
I fautori della depressione
di J. Bradford DeLong
BERKELEY – Nei primi giorni di questa crisi economica che non finisce, nei miei discorsi pronunciavo una frase che talora otteneva applausi, normalmente provocava risate e dava sempre alla gente una ragione di ottimismo. Data l’esperienza dell’Europa e degli Stati Uniti negli anni ’30, ero solito dire, gli operatori politici non dovrebbero fare gli stessi errori che fecero i loro predecessori durante la Grande Depressione. Questa volta avremmo fatto errori nuovi, differenti e, si poteva sperare, minori.
Sfortunatamente, quella previsione si è rivelata sbagliata. Non solo gli operatori politici nell’eurozona si sono ostinati a prendere le cantonate degli anni ’30; sono pronti a ripeterle con modalità più brutali, più spropositate e più prolungate. Non mi accorsi che stava succedendo questo.
Quando nel 2010 scoppiò la crisi del debito greco, mi sembrava che le lezioni della storia fossero così evidenti che la strada di una soluzione sarebbe stata lineare. La logica era chiara. Se la Grecia non fosse stata un membro dell’eurozona, la sua opzione migliore sarebbe stata il default, la ristrutturazione del suo debito e la svalutazione della sua moneta. Ma, poiché l’Unione Europea non voleva l’uscita della Grecia dall’eurozona (che sarebbe stata un importante battuta d’arresto per l’Europa come progetto politico), alla Grecia sarebbe stato offerto un aiuto adeguato, un sostegno, un condono di parte del debito ed una assistenza con pagamenti tali da bilanciare tutti i vantaggi che avrebbe avuto uscendo dall’unione monetaria.
Invece, i creditori della Grecia scelsero di stringere le viti. Come risultato, la Grecia sta probabilmente peggio oggi di quello che sarebbe stata se avesse abbandonato l’euro nel 2010. L’Islanda, che fu colpita dalla crisi finanziaria nel 2008, offre la controprova. Mentre la Grecia resta impantanata nella depressione, l’Islanda – che non è nell’eurozona – si è sostanzialmente ripresa.
È evidente, come sostenne nel 2007 l’economista americano Barry Eichengreen, che considerazioni tecniche rendono difficile l’uscita dall’eurozona, ed anche pericolosa. Ma questo è solo un lato del bilancio.
Utilizzando l’Islanda come metro di misura, il costo della mancata uscita della Grecia dall’eurozona è equivalente al 75% del PIL di un anno – e non è finita. Per me è difficile credere che se la Grecia avesse lasciato l’euro nel 2010, le conseguenze negative sarebbero state persino un quarto di quelle. Inoltre, oggi sembra egualmente improbabile che l’impatto immediato di una uscita dall’eurozona sarebbe più ampio dei costi di lungo periodo del rimanere, data l’insistenza dei creditori della Grecia sull’austerità.
Quella insistenza riflette l’attaccamento degli operatori politici nell’Unione Europea – particolarmente in Germania – a uno schema concettuale che li ha portati costantemente a sottostimare la gravità della situazione e a raccomandare politiche che la rendevano peggiore.
Nel maggio del 2010, il PIL greco era caduto del 4% su base annua. L’unione Europea e la Banca Centrale Europea stimarono che il primo programma di salvataggio avrebbe portato il PIL greco di un altro 3% sotto i livelli del 2010, prima che l’economia cominciasse a riprendersi nel 2012.
Col marzo del 2012, tuttavia, la realtà divenne evidente. Con un PIL che si indirizzava verso un 12% sotto i livelli del 2010, venne messo in opera un secondo programma. Con la fine dell’anno, il PIL era caduto del 17% rispetto ai livelli del 2010. Il PIL della Grecia è oggi del 25% al di sotto del livello del 2009. E mentre alcuni prevedono una ripresa nel 2016, io non riesco a comprendere come una analisi dei flussi della domanda possa giustificare tale previsione.
La principale ragione per la quale le previsioni sono state così sbagliate è che coloro che le fanno sottostimano sistematicamente l’impatto della spesa pubblica sull’economia – in particolare quando i tassi di interesse sono vicini allo zero. E tuttavia l’evidente fallimento della austerità nel far ripartire l’economia della Grecia o del resto dell’eurozona non ha provocato negli operatori politici alcun ripensamento del loro approccio.
Piuttosto sembrano reiterarlo, con la teoria secondo la quale più profonda è la crisi, maggiore successo avrà la riproposizione delle riforme strutturali. Tali riforme sono necessarie per incoraggiare la crescita a lungo termine, questo è il ragionamento, e se quella crescita non compare rapidamente, questo dipende dal fatto che il bisogno di tali riforme era anche più grande di quello che si era pensato all’origine.
È triste constatare che questa fu anche la storia degli anni ’30. Come mette in evidenza il commentatore americano Matthew Yglesias, gli importanti partiti di centro-sinistra di quell’epoca riconobbero che quello che si stava facendo non funzionava, nondimeno non offrirono alcuna alternativa. “Fu lasciato ad altri partiti con programmi complessivi assai meno meritevoli – Hitler, ad esempio – di farsi avanti affermando che se le regole del gioco comportavano periodi prolungati di disoccupazione di massa, allora le regole del gioco dovevano essere cambiate.”
Oggi, aggiunge Yglesias, in modo simile gli uomini politici di centrosinistra dell’Europa “non hanno una strategia per cambiare le regole, e non hanno il coraggio di stracciare le convenzioni”. Di conseguenza l’austerità comanda incontrastata, e il dissenso è lasciato ai populisti come Marine Le Pen in Francia e Beppe Grillo in Italia – le cui proposte economiche sembra probabile abbiano anche minore efficacia.
Si sarebbe immaginato che fossimo capaci di imparare dal passato, e che la Grande Depressione fosse stata talmente importante nella storia d’Europa, che gli operatori politici non avrebbero ripetuto i suoi errori. E tuttavia, in questo momento, questo è precisamente quello che sembra accadere.
By mm
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