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La svolta sbagliata della teoria economica dell’ “acqua dolce” (dal blog di Krugman, 2 agosto 2015)

 

Freshwater’s Wrong Turn (Wonkish)

August 2, 2015 2:14 pm

Paul Romer has been writing a series of posts on the problem he calls “mathiness”, in which economists write down fairly hard-to-understand mathematical models accompanied by verbal claims that don’t actually match what’s going on in the math. Most recently, he has been recounting the pushback he’s getting from freshwater macro types, who seem him as allying himself with evil people like me — whereas he sees them as having turned away from science toward a legalistic, adversarial form of pleading.

You can guess where I stand on this. But in his latest, he notes some of the freshwater types appealing to their glorious past, claiming that Robert Lucas in particular has a record of intellectual transparency that should insulate him from criticism now. PR replies that Lucas once was like that, but no longer, and asks what happened.

Well, I’m pretty sure I know the answer.

First of all, it’s true about the initial transparency. In the beginning, Lucas and disciples had a very clear statement of both the problem and their solution. They took it as an observed fact that fluctuations in nominal demand were associated with fluctuations in real output, as opposed to merely affecting the price level, which shouldn’t happen if prices were flexible. But they insisted that it was illegitimate to assume sticky prices and wages, that any story you tell must be grounded in microfoundations — and not just that, in maximizing behavior.

So Lucas came up with a story: it was all about imperfect information. Faced with a shock to nominal demand, producers couldn’t tell how much was just a money fluctuation and how much a real change in demand for their particular product, to which they should respond by changing output. So they would engage in signal extraction, making the best possible estimate; this would lead in aggregate to an upward-sloping aggregate supply curve, but only because of rational confusion. And this in turn had strong policy implications: you might see a relationship between money and output, but it would disappear if you tried to use it.

It was a lovely, intellectually interesting and exciting approach. It was also quite wrong.

The wrongness took a few years to become irrefutable. By the early 1980s, however, it was overwhelmingly clear that rational confusion couldn’t explain business cycles, either empirically or theoretically — business cycles last too long, rational agents should be able to tell real from nominal shocks using information like asset prices, and more. And so you had a substantial chunk of the profession going back to sticky-price models, arguing that under imperfect competition things like menu costs or slight deviations from perfect rationality were enough to make money very non-neutral in the short run.

But Lucas and his school couldn’t do that, because they had burned their bridges. They had seized the moment when people took their models seriously to loudly and aggressively declare that Keynesianism of any form was total nonsense, that everything macroeconomists had done in the previous four decades was worthless. it would have taken a lot of intellectual integrity to admit that they might have been premature, that their models weren’t working and that maybe there was something in that Keynesian stuff after all. And that kind of integrity did not manifest itself.

Instead they went even further down the equilibrium rabbit hole, notably with real business cycle theory. And here is where the kind of willful obscurantism Romer is after became the norm. I wrote last year about the remarkable failure of RBC theorists ever to offer an intuitive explanation of how their models work, which I at least hinted was willful:

But the RBC theorists never seem to go there; it’s right into calibration and statistical moments, with never a break for intuition. And because they never do the simple version, they don’t realize (or at any rate don’t admit to themselves) how fundamentally silly the whole thing sounds, how much it’s at odds with lived experience.

What Romer is telling us, based on his discussion of growth models, is that this kind of thing is pervasive in that school. And no, everyone doesn’t do it. Read Mike Woodford or Gauti Eggertsson or Ken Rogoff when he’s doing theory: they all take pains to provide an intuition behind their models, and they don’t engage in false advertising.

So what happened to freshwater, I’d argue, is that a movement that started by doing interesting work was corrupted by its early hubris; the braggadocio and trash-talking of the 1970s left its leaders unable to confront their intellectual problems, and sent them off on the path Paul now finds so troubling.

 

La svolta sbagliata della teoria economica dell’ “acqua dolce” [1]

Paul Romer sta scrivendo una serie di post sul problema che egli chiama della ‘matematicità’, per il quale gli economisti annotano modelli matematici discretamente difficili da intendere e li accompagnano con pretese verbali che effettivamente non corrispondono a quello che si constata sul piano della matematica. Più di recente, egli ha dato conto degli attacchi che sta ricevendo da personaggi della macroeconomia dell’acqua dolce, che sembrano volerlo associare a persone malvage come il sottoscritto – dato che egli, secondo loro, sarebbe uscito dal terreno della scienza verso una forma di perorazione legalistica e polemica.

Vi potete immaginare dove io mi collochi in tutto questo. Ma nel suo ultimissimo post, egli osserva come alcuni di quei soggetti della scuola dell’ “acqua dolce” si appellino al loro glorioso passato, sostenendo che in particolare Robert Lucas ha una storia di trasparenza intellettuale che lo dovrebbe mettere al riparo dalle critiche odierne. Romer replica che una volta Lucas aveva quella caratteristica, ma oggi non più. E si chiede che cosa sia accaduto.

Ebbene, credo di essere abbastanza sicuro della risposta.

Prima di tutto, è vero ciò che si afferma sulla iniziale trasparenza. Agli inizi, Lucas ed i suoi allievi facevano affermazioni molto chiare sia del problema che della sua soluzione. Essi consideravano come un fatto incontrovertibile che le fluttuazioni nella domanda nominale fossero associate a fluttuazioni nella produzione reale, piuttosto che influenzare meramente il livello dei prezzi, la qualcosa non dovrebbe accadere se i prezzi fossero flessibili. Ma insistevano che non era legittimo assumere la rigidità dei prezzi e dei salari, che ogni spiegazione che veniva data doveva avere dei fondamenti nella microeconomia – e non solo in quella, ma anche in condotte di massimizzazione.

Cosicché Lucas se ne uscì con una spiegazione: dipendeva tutto dalla imperfezione dell’informazione. Messi dinanzi ad uno shock della domanda nominale, i produttori non potevano stabilire quanto si trattasse soltanto di una fluttuazione monetaria e quanto fosse un cambiamento reale nella domanda del loro particolare prodotto, al quale avrebbero dovuto rispondere con un cambiamento nella produzione. In tal modo essi si impegnavano, per rendere le stime migliori possibili, in una estrapolazione del segnale; questo portava complessivamente ad una curva dell’offerta aggregata con una tendenza a salire verso l’alto, ma solo per effetto di una confusa razionalità. E questo a sua volta aveva forti implicazioni pratiche: si poteva vedere una relazione tra la moneta e la produzione, ma essa scompariva se cercavate di utilizzarla.

Era un approccio appassionante, intellettualmente interessante ed eccitante. Era anche piuttosto sbagliato.

Ci vollero pochi anni perché l’errore diventasse inconfutabile. Agli inizi degli anni ’80, tuttavia, era del tutto chiaro che la confusione della razionalità non poteva spiegare i cicli economici, né empiricamente né teoricamente – i cicli economici durano troppo a lungo, gli agenti razionali dovrebbero essere capaci di distinguere la realtà dagli shock nominali usando indicatori come i prezzi degli asset, ed altro ancora. E così accadde che un blocco sostanziale degli economisti tornò indietro ai modelli dei prezzi rigidi, sostenendo che in condizioni imperfette cose come gli adeguamenti dei prezzi e le leggere deviazioni dalla perfetta razionalità erano sufficienti a rendere effettivamente non neutrale la moneta nel breve periodo.

Ma Lucas e la sua scuola non potevano ammetterlo, perché si erano bruciati i ponti alle spalle. Avevano afferrato il momento nel quale i loro modelli erano presi sul serio per dichiarare aggressivamente e rumorosamente che il keynesismo di ogni genere era un totale nonsenso, che ogni cosa gli economisti avevano sostenuto nei precedenti quattro decenni non aveva alcun valore. Ci sarebbe voluta molta integrità intellettuale per ammettere che potevano essere stati precipitosi, che i loro modelli non stavano funzionando e che, dopo tutto, in tutta quella roba keynesiana, c’era pur qualcosa. E quel genere di integrità non si manifestò.

Invece, essi andarono sempre più a fondo nella tana del coniglio (di Alice) [2] con la teoria dell’equilibrio, in particolare con la teoria del ciclo economico reale. Ed è qui dove quel genere di deliberato oscurantismo a cui si riferisce Romer, divenne in seguito la norma. Scrissi l’anno passato del considerevole fallimento dei teorici del Ciclo Economico Reale nell’offrire una spiegazione intuitiva di come funzionino i loro modelli, la qualcosa avevo almeno insinuato fosse intenzionale:

“Ma i teorici del RBC sembrano non arrivarci mai: la teoria è tutta dentro le fasi della taratura e della statistica, senza mai una interruzione per l’intuizione. E poiché non offrono mai la versione semplificata, essi non comprendono (o in ogni caso non lo riconoscono a se stessi) quanto l’intera faccenda appaia fondamentalmente sciocca, quanto sia all’opposto dell’esperienza vissuta.”

Quello che Romer ci dice, basandosi sulla sua disanima dei modelli di crescita, è che una cosa del genere, in quella scuola, è pervasiva. E non è vero che lo facciano tutti. Si leggano Mike Woodford o Gauti Eggertsson o Ken Rogoff, quando quest’ultimo si occupa di teoria: tutti costoro di preoccupano di offrire una intuizione dietro i loro modelli, e non si impegnano in sterile pubblicità.

Quello che dunque è accaduto alla teoria dell’ “acqua dolce”, direi, è che un movimento che era partito facendo un lavoro interessante, si è corrotto a causa della sua prematura supponenza; la sbruffonata e il parlare a vanvera degli anni ’70 ha lasciato i suoi dirigenti incapaci di misurarsi con i loro problemi intellettuali, e li ha spediti su un sentiero che ora Paul Romer trova così preoccupante.

 

[1] Una scuola economica americana, così chiamata per la sua prevalenza nei decenni passati nelle Università ‘centrali’ (ovvero, nelle zone dei laghi, anzitutto Chicago), in contrapposizione cone la macroeconomia dell’ “acqua salata”, che prevaleva nelle Università sui due oceani.

[2] Ovvero, sognando di seguire il ‘coniglio bianco’ di Alice nel paese delle meraviglie, sprofondarono sempre più in un mondo fatto di assurdità e di paradossi.

 

 

 

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