AUG. 14, 2015
China is ruled by a party that calls itself Communist, but its economic reality is one of rapacious crony capitalism. And everyone has been assuming that the nation’s leaders are in on the joke, that they know better than to take their occasional socialist rhetoric seriously.
Yet their zigzagging policies over the past few months have been worrying. Is it possible that after all these years Beijing still doesn’t get how this “markets” thing works?
The background: China’s economy is wildly unbalanced, with a very low share of gross domestic product devoted to consumption and a very high share devoted to investment. This was sustainable while the country was able to maintain extremely rapid growth; but growth is, inevitably, slowing as China runs out of surplus labor. As a result, returns on investment are dropping fast.
The solution is to invest less and consume more. But getting there will take reforms that distribute the fruits of growth more widely and provide families with greater security. And while China has taken some steps in that direction, there’s still a long way to go.
Meanwhile, the problem is how to sustain spending during the transition. And that’s where things have gotten weird.
At first, the Chinese government supported the economy in part through infrastructure spending, which is the standard remedy for economic weakness. But it also did so by funneling cheap credit to state-owned enterprises. The result was a run-up in these enterprises’ debt, which by last year was high enough to raise worries about financial stability.
Next, China adopted an official policy of boosting stock prices, combining a stock-buying propaganda campaign with relaxed margin requirements, making it easier to buy stocks with borrowed money. The goal may have been to help out those state-owned enterprises, which could pay down debt by selling stock. But the consequence was an obvious bubble, which began deflating earlier this year.
The response of the Chinese authorities was remarkable: They pulled out all the stops to support the market — suspending trading in many stocks, banning short-selling, pushing large investors to buy, and instructing graduating economics students to chant “Revive A-shares, benefit the people.”
All of this has stabilized the market for the time being. But it is at the cost of tying China’s credibility to its ability to keep stock prices from ever falling. And the Chinese economy still needs more support.
So this week China decided to let the value of its currency decline, which made some sense: While the renminbi was clearly undervalued five years ago, it’s significantly overvalued now. But Chinese authorities seem to have imagined that they could control the renminbi’s descent, taking it a couple of percent at a time.
They appear to have been taken completely by surprise by the market’s predictable reaction; namely, the initial devaluation of the renminbi was “the first bite of the cherry,” a sign of much bigger declines to come. Investors began fleeing China, and policy makers abruptly pivoted from promoting currency devaluation to an all-out effort to support the renminbi’s value.
The common theme in these wild policy swings is that China’s leadership keeps imagining that it can order markets around, telling them what prices to reach. And that’s not how things work.
I’m not saying governments should never interfere with markets, or even set limits on prices. There is, as I’ve written in the past, a strong case for raising the minimum wage and in general for promoting higher wages for American workers; there’s an even stronger case for effective financial regulation.
There’s even a case for occasional intervention to prop up asset prices. Three years ago, the European Central Bank’s promise to do “whatever it takes” to safeguard the euro — generally interpreted as a promise that it would buy government bonds if necessary — worked wonders. Back in 1998 the Hong Kong Monetary Authority purchased large amounts of stock to beat back a hedge fund attack on its currency, and scored a notable success.
But these were short-lived actions, taken at times when markets seemed to have lost their bearings. Staffers at the Federal Reserve used to call these moves “slap in the face” interventions. That’s very different from the kind of sustained intervention and political dictation of prices China seems to imagine it can pull off. Do the country’s leaders really not understand why that won’t work?
If they really don’t, that’s a big concern. China is an economic superpower — not quite as super as the United States or the European Union, yet, but big enough to matter a lot. And it’s facing tough times. So if its leadership is really as clueless as it has been looking lately, that bodes ill, not just for China, but for the world as a whole.
Se Pechino mette a soqquadro i mercati azionari, di Paul Krugman
New York Times 14 agosto 2015
La Cina è governata da un partito che si definisce comunista, ma la sua realtà economica è un avido capitalismo clientelare. E tutti si sono immaginati che i leaders della nazione siano dentro quel gioco, che abbiano di meglio da fare che non prendere sul serio la loro occasionale retorica socialista.
Tuttavia le loro altalenanti politiche nel corso dei mesi passati hanno indotto alla preoccupazione. É possibile che dopo questi anni Pechino non abbia ancora compreso come funziona questa faccenda dei “mercati”?
Un po’ di contesto: l’economia cinese è fortemente squilibrata, con una parte molto modesta del prodotto interno lordo rivolta ai consumi ed una parte molto elevata destinata agli investimenti. Questo è stato sostenibile nel mentre il paese era capace di mantenere una crescita estremamente rapida; ma la crescita sta inevitabilmente rallentando, dato che il paese sta esaurendo il surplus di forza lavoro. Di conseguenza, i rendimenti degli investimenti stanno calando velocemente.
La soluzione è investire di meno e consumare di più. Ma per arrivare a quel punto serviranno investimenti che distribuiscano più ampiamente i frutti della crescita e forniscano alle famiglie una sicurezza maggiore. E se la Cina ha fatto alcuni passi in quella direzione, molto resta ancora da fare.
Nel frattempo, il problema è come sostenere la spesa durante la transizione. Ed è qua che le cose sono diventate strane.
Dapprima, il Governo cinese ha sostenuto l’economia in parte attraverso la spesa in infrastrutture, che è il rimedio consueto per la debolezza economica. Ma lo ha fatto anche incanalando un credito poco costoso alle imprese di proprietà statale. Il risultato è stato una rapida crescita del debito di queste imprese, che dall’ultimo anno è diventato talmente elevato da sollevare preoccupazioni sulla stabilità finanziaria.
Successivamente, la Cina ha adottato una politica di incoraggiamento dei prezzi azionari, combinando una campagna propagandistica per l’acquisto di azioni con attenuati requisiti al margine [1], rendendo più facile l’acquisto di azioni con denaro preso a prestito. L’obbiettivo può essere stato quello di dare una mano a quelle imprese di proprietà statale, che potevano ripagare il debito vendendo azioni. Ma la conseguenza è stata una evidente bolla, che ha cominciato a sgonfiarsi agli inizi di quest’anno.
La risposta delle autorità cinesi è stata degna di nota: esse hanno rimosso tutti gli impedimento al sostegno del mercato – sospendendo gli scambi di molte azioni, impedendo le vendite allo scoperto [2], spingendo gli investitori maggiori ad acquistare ed istruendo studenti di economia delle università a scandire lo slogan “Rianimare le A-shares [3], andare incontro al popolo”.
Al presente, tutto questo ha stabilizzato il mercato. Ma il prezzo è stato quello di legare la credibilità della Cina alla sua capacità di tener fuori i prezzi delle azioni da qualsiasi caduta. E l’economia cinese ha ancora bisogno di ulteriore sostegno.
Così, questa settimana la Cina ha deciso di lasciar cadere il valore della sua moneta, la qualcosa ha un senso: mentre il renminbi era chiaramente sottovalutato cinque anni orsono, esso è significativamente sopravvalutato oggi. Ma sembra che le autorità cinesi si siano immaginate di poter controllare la discesa del renminbi, agendo con un paio di punti percentuali per volta.
Pare che esse siano state completamente prese di sorpresa dalla prevedibile reazione del mercato; in particolare, l’iniziale svalutazione del renminbi è stata ‘il primo morso della ciliegia’ [4], un segnale di cali molto più rilevanti in arrivo. Gli investitori hanno cominciato a scappare dalla Cina, e gli operatori sono bruscamente passati dal promuovere la svalutazione della moneta ad uno sforzo totale di sostegno del valore del renminbi.
Il segno comune di queste selvagge oscillazioni è che i dirigenti della Cina continuano ad immaginarsi di potere dar ordini ai mercati, dicendo loro quali prezzi raggiungere. E non è così che le cose funzionano.
Non sto dicendo che il Governo non dovrebbe mai interferire con i mercati, o persino mettere dei limiti ai prezzi. Come ho scritto in passato, c’è un forte argomento per elevare i minimi salariali e in generale per promuovere salari più alti per i lavoratori americani; ci sono argomenti ancora più forti per una efficace regolamentazione finanziaria.
Ci sono persino argomenti per interventi occasionali per sostenere i prezzi degli asset. Tre anni orsono la promessa della Banca Centrale Europea di fare “tutto quello che sarebbe stato necessario” per salvaguardare l’euro – la qualcosa venne in generale interpretata come una promessa che essa, se necessario, avrebbe acquistato obbligazioni degli Stati – fece miracoli. Nel passato 1998 la Autorità Monetaria di Hong Kong acquistò grandi quantitativi di azioni per respingere un hedge-fund all’attacco della sua valuta, e ottenne un notevole successo.
Ma queste sono azioni di breve durata, che si prendono in momenti nei quali i mercati sembrano aver perso le loro posizioni. I membri dello staff della Federal Reserve sono soliti definire queste iniziative come “schiaffi in faccia”. Cose molto diverse da quel genere di prolungato intervento e di imposizione politica dei prezzi che la Cina sembra immaginare di riuscire a fare. I dirigenti di quel paese davvero non capiscono perché tutto questo non funzionerà?
Se non lo capiscono, la preoccupazione è grande. La Cina è una superpotenza economica – non ancora così grande come gli Stati Uniti o l’Unione Europea, ma grande abbastanza da avere molto peso. E sta affrontando tempi duri. Dunque, se i suoi dirigenti sono realmente inetti come sono sembrati di recente, questo fa presagire grandi guai, non solo per la Cina ma per il mondo nel suo complesso.
[1] I “requisiti al margine” sono quanto un investitore deve depositare in un ‘conto al margine’, prima di acquistare azioni, ad esempio nella forma spiegata nella nota successiva della “vendita allo scoperto”, o in generale ricorrendo al prestito di una banca o di un broker. Ad esempio, la legislazione americana prevede che un valore come minimo pari al 25% del valore totale di mercato dei titoli sia depositato in precedenza nel ‘conto al margine’.
[2] “Vendita allo scoperto” (“short-selling”) significa: “La vendita allo scoperto (o short selling) è un operazione finanziaria che consiste nella vendita di strumenti finanziari non posseduti con successivo riacquisto. Questa operazione si effettua se si ritiene che il prezzo al quale gli strumenti finanziari si riacquisteranno sarà inferiore al prezzo inizialmente incassato attraverso la vendita. Nel caso in cui si verificasse quanto detto, il rendimento complessivo dell’operazione sarà positivo; al contrario risulterà negativo se il prezzo dello strumento è aumentato. Colui che decide di vendere strumenti finanziari allo scoperto, non essendo in possesso degli stessi, deve richiederli in prestito ad un broker e, entro una certa scadenza, riacquistare gli strumenti per riconsegnarli al cedente. Solitamente, per il prestito suddetto, viene pagato un interesse annuale al broker in relazione alla durata in giorni dell’operazione di vendita allo scoperto. Oltre a pretendere l’interesse annuale stabilito (che può variare anche in base al singolo titolo), il broker richiede un margine di garanzia per l’operazione (ad esempio il 50% del controvalore scambiato)”. (da Borsa Italiana)
[3] Le “A-shares” sono azioni relative a imprese che hanno sede in Cina e quotate sulle Borse di Shanghai e Shenzen, che generalmente sono acquistabili soltanto da cittadini cinesi. Le imprese quotate in Borsa, o almeno la maggioranza di esse, offrono azioni di tipo A e di tipo B. Le seconde sono quotate in valuta straniera e sono disponibili sia all’investimento nazionale che estero, mentre le prime, riservate ai cittadini cinesi, sono solo quotate in valuta cinese, ovvero in renminbi.
Quanto allo slogan, non so se l’espressione ‘andare incontro al popolo’ sia ancora in voga, ma mi è parso verosimile.
[4] Per l’origine di questa espressione – che si deve allo storico dell’economia Charles Kindleberger – si veda il post del 12 agosto “La Cina morde la ciliegia”, tradotta in questo blog.
By mm
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