AUG 28, 2015
BERKELEY – The US Federal Reserve has embarked on an effort to tighten monetary policy four times in the past four decades. On every one of these occasions, the effort triggered processes that reduced employment and output far more than the Fed’s staff had anticipated. As the Fed prepares to tighten monetary policy once again, an examination of this history – and of the current state of the economy – suggests that the United States is about to enter dangerous territory.
Between 1979 and 1982, then-Fed Chair Paul Volcker changed the authorities’ approach to monetary policy. His expectation was that by controlling the amount of money in circulation, the Fed could bring about larger reductions in inflation with smaller increases in idle capacity and unemployment than what traditional Keynesian models predicted.
Unfortunately for the Fed – and for the American economy – the Keynesian models turned out to be accurate; their forecasts of the costs of disinflation were dead on. Furthermore, this period of monetary tightening had unexpected consequences; financial institutions like Citicorp found that only regulatory forbearance saved them from having to declare bankruptcy, and much of Latin America was plunged into a depression that lasted more than five years.
Then, between 1988 and 1990, another round of monetary tightening under Alan Greenspan ravaged the balance sheets of the country’s savings and loan associations, which were overleveraged, undercapitalized, and already struggling to survive. To prevent the subsequent recession from worsening, the federal government was forced to bail out insolvent institutions. State governments were on the hook, too: Texas spent the equivalent of three months of total state income to rescue its S&Ls and their depositors.
Between 1993 and 1994, Greenspan once again reined in monetary policy, only to be surprised by the impact that small amounts of tightening could have on the prices of long-term assets and companies’ borrowing costs. Fortunately, he was willing to reverse his decision and cut the tightening cycle short (over the protests of many on the policy-setting Federal Open Markets Committee) – a move that prevented the US economy from slipping back into recession.
The most recent episode – between 2004 and 2007 – was the most devastating of the four. Neither Greenspan nor his successor, Ben Bernanke, understood how fragile the housing market and the financial system had become after a long period of under-regulation. These twin mistakes – deregulation, followed by misguided monetary-policy tightening – continue to gnaw at the US economy today.
The tightening cycle upon which the Fed now seems set to embark comes at a delicate time for the economy. The US unemployment rate may seem to hint at the risk of rising inflation, but the employment-to-population ratio continues to signal an economy in deep distress. Indeed, wage patterns suggest that this ratio, not the unemployment rate, is the better indicator of slack in the economy – and nobody ten years ago would have interpreted today’s employment-to-population ratio as a justification for monetary tightening.
Indeed, not even the Fed seems convinced that the economy faces imminent danger of overheating. Inflation in the US is not just lower than the Fed’s long-term target; it is expected to stay that way for at least the next three years. And the Fed’s change in policy comes at a time when its own economists believe that US fiscal policy is inappropriately restrictive.
Meanwhile, given the fragility – and interconnectedness – of the global economy, tightening monetary policy in the US could have negative impacts abroad (with consequent blowback at home), especially given the instability in China and economic malaise in Europe.
It is tempting to conclude that the Fed’s eagerness to tighten monetary policy – despite unfavorable historical precedents and ongoing economic uncertainty – is driven by commercial banks with excessive influence in official policymaking. After all, commercial banks’ business model works only when the banks can earn (via passive and relatively safe long-term investments) at least 3% a year more than they pay depositors. And that is possible only if US Treasury rates are higher than they are now.
If this is true, it would reflect a failure by bankers to understand their industry’s material interests. What would most benefit commercial banks is not an immediate increase in interest rates, but a monetary policy that contributes to ensuring that the economy is capable of supporting higher interest rates in the future. If history is any guide, tightening monetary policy in the near term will only lead to further economic turbulence, followed by a rapid retreat to low interest rates. Embarking on that path should be a cause of concern for everyone.
Una storia istruttiva delle restrizioni monetarie degli Stati Uniti
di Brad DeLong
BERKELEY – Nei quaranta anni passati, la Federal Reserve degli Stati Uniti si è avventurata quattro volte in uno sforzo di restrizione della politica monetaria. In ognuna di queste occasioni, lo sforzo ha innescato processi che hanno ridotto l’occupazione e la produzione molto di più di quello che il gruppo dirigente della Fed aveva previsto. Dato che la Fed si prepara a restringere ancora una volta la politica monetaria, un esame di questa storia – e della condizione attuale dell’economia – indica che gli Stati Uniti stanno per entrare in un territorio pericoloso.
Tra il 1979 ed il 1982, l’allora Presidente della Fed Paul Volcker modificò l’approccio delle autorità alla politica monetaria. La sua aspettativa era che con un controllo della quantità di moneta in circolazione, la Fed avrebbe potuto ottenere riduzioni più ampie nell’inflazione con incrementi minori di potenzialità sprecata e di disoccupazione, rispetto a quelli che prevedevano i modelli keynesiani.
Sfortunatamente per la Fed – e per l’economia americana – i modelli keynesiani si rivelarono accurati; le loro previsioni sui costi della disinflazione erano esatti. Inoltre, quel periodo di restrizione monetaria ebbe conseguenze inattese: istituti finanziari come Citicorp [1] constatarono che soltanto la tolleranza regolamentare li aveva salvati dall’obbligo di dichiarare la bancarotta, e una buona parte dell’America Latina precipitò in una depressione che durò più di cinque anni.
Successivamente, dal 1988 ed il 1990, un altro giro di restrizione monetaria sotto Alan Greenspan devastò gli equilibri patrimoniali delle associazioni di risparmio e prestito del paese, che erano sovraindebitate, sottocapitalizzate e già costrette a combattere per sopravvivere. Per impedire che la conseguente recessione peggiorasse, il Governo federale fu costretto al salvataggio degli istituti insolventi. Anche i governi degli Stati furono gettati allo sbaraglio: il Texas spese l’equivalente di tre mesi del reddito complessivo dello Stato per salvare le sue casse di risparmio ed i loro depositanti.
Tra il 1993 ed il 1994, Greenspan ancora una volta tirò le redini alla politica monetaria, con il solo effetto di rimanere sorpreso dall’impatto che modesti quantitativi di restrizione potevano avere sui prezzi degli asset a lungo termine e sui costi di indebitamento delle società. Fortunatamente, si rese disponibile ad invertire la sua decisione e a interrompere il ciclo restrittivo (tra le proteste di molti di coloro che definivano le politiche della Commissione Federale a Mercati Aperti) – una mossa che evitò un nuovo scivolamento nella recessione dell’economia americana.
L’episodio più recente – tra il 2004 ed il 2007 – fu il più devastante dei quattro. Né Greenspan né il suo successore, Ben Bernanke, compresero quanto era diventato fragile il mercato immobiliare e il sistema finanziario, dopo un lungo periodo di sotto regolamentazione. Questi errori associati – la deregolamentazione seguita da una improvvida restrizione della politica monetaria – continuano ad attanagliare l’economia statunitense odierna.
Il ciclo restrittivo nel quale la Fed sembra oggi disposta ad imbarcarsi viene dopo un periodo delicato per l’economia. Il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti può sembrare che alluda al rischio di una inflazione crescente, ma il rapporto tra occupazione e popolazione continua a segnalare un’economia in profonda difficoltà. In effetti, gli andamenti salariali indicano che questo rapporto, e non il tasso di disoccupazione, è il miglior indicatore della fiacchezza dell’economia [2] – e nessuno dieci anni orsono avrebbe interpretato il rapporto odierno tra occupazione e popolazione come una giustificazione per una restrizione monetaria.
In effetti, neppure la Fed sembra convinta che l’economia sia dinanzi ad un pericolo imminente di surriscaldamento. Non solo l’inflazione è più bassa dell’obbiettivo a lungo termine della Fed; ci si aspetta che essa rimanga in quella situazione almeno per i prossimi tre anni. Ed il mutamento di indirizzo da parte della Fed interviene in un periodo nel quale i suoi stessi economisti credono che la politica della finanza pubblica degli Stati Uniti sia inappropriamente restrittiva.
Nel frattempo, data la fragilità – e l’interdipendenza – dell’economia globale, una politica di restrizione monetaria negli Stati Uniti potrebbe avere impatti negativi all’estero (con conseguenti ripercussioni all’interno), in particolare in considerazione dell’instabilità della Cina e del malessere dell’Europa.
Si sarebbe tentati di concludere che il fervore da parte della Fed per una restrizione della politica monetaria – nonostante gli sfavorevoli precedenti storici e la perdurante incertezza dell’economia – sia spinto da banche commerciali che hanno un eccessiva influenza sulle scelte politiche ufficiali [3]. Dopo tutto, il modello economico delle banche commerciali funziona soltanto quando esse possono realizzare guadagni (attraverso investimenti a lungo termine passivi e relativamente sicuri), per almeno un 3% in più di quanto non paghino i loro depositanti. E ciò è possibile solo se i tassi dei Buoni del Tesoro degli Stati Uniti sono più elevati di quanto non siano adesso.
Se questo fosse vero, esso rifletterebbe una incapacità dei banchieri di comprendere gli interessi materiali del loro settore. Quello che creerebbe i massimi benefici alle banche commerciali non è un aumento immediato nei tassi di interesse, ma una politica monetaria che contribuisca a garantire che l’economia sarà nelle condizioni di sostenere tassi di interesse più alti in futuro. Se la storia è di un qualche insegnamento, una politica monetaria restrittiva nel breve termine condurrà soltanto ad una ulteriore turbolenza economica, seguita da un rapido ripiego verso bassi tassi di interesse. Avventurarsi su quel sentiero dovrebbe essere un motivo di preoccupazione per tutti.
[1] Grande istituto finanziario statunitense che dal 1998 si è fuso con Travelers Group dando vita a Citigroup, la prima società americana che ha combinato servizi bancari ed assicurativi.
[2] Il tasso di disoccupazione, che come è noto è assai disceso nei dati più recenti degli Stati Uniti, si riferisce al numero delle persone che sono senza lavoro e che lo hanno cercato attivamente, almeno in un periodo relativamente recente. Esso dunque non esprime la quantità di lavoratori disoccupati che non cercano più, da tempo e attivamente, un posto di lavoro perché hanno perso la fiducia di trovarlo. Il rapporto tra occupati e popolazione in età di lavoro, chiaramente, è invece un indicatore di quella condizione più generale; ed è noto che quest’ultimo dato non induce affatto ad altrettanto ottimismo sulla condizione di fondo dell’economia americana.
Il che, del resto, non comporta che la situazione non si sia modificata per alcuni aspetti sensibilmente, nel periodo recente. Ad esempio, se si esamina l’evoluzione dell’occupazione nel settore privato e in quello pubblico, si scopre che nel primo caso l’evoluzione è stata assai più positiva.
[3] La definizione di “banca commerciale” indica semplicemente un istituto che offre servizi finanziari come la accettazione di depositi, la concessione di prestiti e l’offerta di prodotti di base di investimento. Ciononostante, a differenza delle “retail banks”, generalmente una “commercial bank” opera in rapporto a grandi società, mentre la prima agisce in rapporto a soggetti singoli della popolazione. In aggiunta, negli Stati Uniti il termine “commercial bank” indica una differenziazione dalla “investment bank”, e tra le due tipologie c’è una lunga storia di diversa regolamentazione. Dopo la Grande Depressione, la Legge Glass-Steagall stabilì che soltanto le banche commerciali potevano occuparsi generalmente delle attività bancarie, mentre le banche di investimento erano limitate al settore della attività sul mercato dei capitali. Nel 1999 questa distinzione venne abrogata, ma venne ripristinata nel 2014 con un emendamento ispirato da Paul Volcker alla legge di riforma del sistema finanziario Dodd-Frank (notizie da Wikipedia in lingua inglese).
By mm
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