AUG. 24, 2015
What caused Friday’s stock plunge? What does it mean for the future? Nobody knows, and not much.
Attempts to explain daily stock movements are usually foolish: a real-time survey of the 1987 stock crash found no evidence for any of the rationalizations economists and journalists offered after the fact, finding instead that people were selling because, you guessed it, prices were falling. And the stock market is a terrible guide to the economic future: Paul Samuelson once quipped that the market had predicted nine of the last five recessions, and nothing has changed on that front.
Still, investors are clearly jittery — with good reason. U.S. economic news has been good though not great lately, but the world as a whole still seems remarkably accident-prone. For seven years and counting we’ve lived in a global economy that lurches from crisis to crisis: Every time one part of the world finally seems to get back on its feet, another part stumbles. And America can’t insulate itself completely from these global woes.
But why does the world economy keep stumbling?
On the surface, we seem to have had a remarkable run of bad luck. First there was the housing bust, and the banking crisis it triggered. Then, just as the worst seemed to be over, Europe went into debt crisis and double-dip recession. Europe eventually achieved a precarious stability and began growing again — but now we’re seeing big problems in China and other emerging markets, which were previously pillars of strength.
But these aren’t just a series of unrelated accidents. Instead, what we’re seeing is what happens when too much money is chasing too few investment opportunities.
More than a decade ago, Ben Bernanke famously argued that a ballooning U.S. trade deficit was the result, not of domestic factors, but of a “global saving glut”: a huge excess of savings over investment in China and other developing nations, driven in part by policy reactions to the Asian crisis of the 1990s, which was flowing to the United States in search of returns. He worried a bit about the fact that the inflow of capital was being channeled, not into business investment, but into housing; obviously he should have worried much more. (Some of us did.) But his suggestion that the U.S. housing boom was in part caused by weakness in foreign economies still looks valid.
Of course, the boom became a bubble, which inflicted immense damage when it burst. Furthermore, that wasn’t the end of the story. There was also a flood of capital from Germany and other northern European countries to Spain, Portugal, and Greece. This too turned out to be a bubble, and the bursting of that bubble in 2009-2010 precipitated the euro crisis.
And still the story wasn’t over. With America and Europe no longer attractive destinations, the global glut went looking for new bubbles to inflate. It found them in emerging markets, sending currencies like Brazil’s real to unsustainable heights. It couldn’t last, and now we’re in the middle of an emerging-market crisis that reminds some observers of Asia in the 1990s — remember, where it all started.
So where does the moving finger of glut go now? Why, back to America, where a fresh inflow of foreign funds has driven the dollar way up, threatening to make our industry uncompetitive again.
What’s causing this global glut? Probably a mix of factors. Population growth is slowing worldwide, and for all the hype about the latest technology, it doesn’t seem to be creating either surging productivity or a lot of demand for business investment. The ideology of austerity, which has led to unprecedented weakness in government spending, has added to the problem. And low inflation around the world, which means low interest rates even when economies are booming, has reduced the room to cut rates when economies slump.
Whatever the precise mix of causes, what’s important now is that policy makers take seriously the possibility, I’d say probability, that excess savings and persistent global weakness is the new normal.
My sense is that there’s a deep-seated unwillingness, even among sophisticated officials, to accept this reality. Partly this is about special interests: Wall Street doesn’t want to hear that an unstable world requires strong financial regulation, and politicians who want to kill the welfare state don’t want to hear that government spending and debt aren’t problems in the current environment.
But there’s also, I believe, a sort of emotional prejudice against the very notion of global glut. Politicians and technocrats alike want to view themselves as serious people making hard choices — choices like cutting popular programs and raising interest rates. They don’t like being told that we’re in a world where seemingly tough-minded policies will actually make things worse. But we are, and they will.
Un eccesso mobile (di risparmi), di Paul Krugman
New York Times 24 agosto 2015
Cosa ha provocato il crollo dei mercati azionari di venerdì? Cosa significa quel crollo per il futuro? Nessuno lo sa e, quanto alle conseguenze, non saranno grandi.
I tentativi di spiegare gli spostamenti giornalieri delle azioni sono di solito privi di senso: un sondaggio in tempo reale sul crollo del mercato azionario del 1987 non scoprì alcuna prova per nessuno dei tentativi di spiegazione che gli economisti ed i giornalisti offrirono successivamente all’evento, scoprì invece che la gente vendeva perché, come ci si poteva immaginare, i prezzi stavano calando. E i mercati azionari sono una guida terribile al futuro dell’economia: una volta Paul Samuelson fece una battuta secondo la quale i mercati avevano previsto nove delle ultime cinque recessioni, e su quel fronte non è cambiato niente.
Eppure, gli investitori sono chiaramente nervosi – con buona ragione. Di recente le notizie economiche degli Stati Uniti sono state positive, sebbene non luminose, ma il mondo nel suo complesso sembra notevolmente propenso a qualche disgrazia. Per sette anni e passa siamo vissuti in un’economia globale che sbanda da una crisi all’altra: ogni volta che una parte del mondo pare finalmente trarsene fuori per suo conto, un’altra parte inciampa. E l’America non può isolarsi del tutto da questi guai globali.
Ma perché l’economia del mondo continua a barcollare?
All’apparenza, sembriamo aver avuto un bel periodo di sfortuna. Prima di tutto ci fu la bolla immobiliare, e la crisi bancaria che essa innescò. Poi, proprio quando il peggio sembrava passato, l’Europa entrò nella crisi del debito e nella sua seconda recessione. Alla fine l’Europa ottenne una precaria stabilità e cominciò di nuovo a crescere – ma adesso vediamo la Cina e gli altri mercati emergenti, che prima erano pilastri di forza, con grandi problemi.
Ma questi non sono soltanto una serie di incidenti senza rapporto l’uno con l’altro. Piuttosto, quello che stiamo osservando è quanto accade quando troppo denaro va a caccia di anche troppo poche opportunità di investimento.
É noto che, più di dieci anni fa, Ben Bernanke sostenne che il deficit commerciale che cresceva a vista d’occhio degli Stati Uniti non era la conseguenza di fattori nazionali, ma di un “eccesso globale di risparmi”: una ampia eccedenza dei risparmi sugli investimenti in Cina e nelle altre nazioni in via di sviluppo, in parte provocata dalle reazioni politiche alla crisi asiatica degli anni ’90, risparmi che stavano affluendo negli Stati Uniti in cerca di rendimenti. Egli era molto preoccupato per il fatto che quel flusso di capitali venisse incanalato non in investimenti di imprese, ma nel settore immobiliare; ovviamente avrebbe dovuto preoccuparsene molto di più, come fecero alcuni di noi. Ma la sua indicazione secondo la quale il boom immobiliare degli Stati Uniti era in parte causato dalla debolezza delle economie straniere sembra ancora valida.
Naturalmente, quel boom divenne una bolla, che al momento di scoppiare provocò un danno immenso. Per di più, le cose non finirono a quel punto. Ci fu anche un flusso di capitali dalla Germania e da altre economie nord europee alla Spagna, al Portogallo ed alla Grecia. Si scoprì che anche quella era una bolla, e lo scoppio di quella bolla nel 2009-2010 precipitò l’euro nella crisi.
Ma anche quella non era la fine della storia. Con l’America e l’Europa che non erano più destinazioni attraenti, l’eccesso globale di risparmi andò in cerca di nuove bolle da gonfiare. Le trovò nei mercati emergenti, spedendo valute come il real brasiliano a vette insostenibili. Non poteva durare, e adesso siamo nel mezzo di una crisi dei mercati emergenti che ad alcuni osservatori ricorda l’Asia degli anni ’90 – ricordate, da dove eravamo partiti.
Dunque: dove punta adesso l’indice in movimento di quell’eccesso? Non è il caso di chiederlo, torna in America, dove un flusso recente di finanziamenti stranieri ha spinto il dollaro molto in alto, minacciando di rendere la nostra industria nuovamente non competitiva.
Quali sono le ragioni di questo eccesso globale? Probabilmente un insieme di fattori. La crescita della popolazione sta rallentando su scala globale, e con tutta la pubblicità sulle ultimissime tecnologie, esse non sembra stiano creando né una crescita della produttività, né grande domanda per gli investimenti di impresa. L’ideologia dell’austerità, che ha condotto ad una debolezza senza precedenti nella spesa pubblica, ha accresciuto il problema. E la bassa inflazione in tutto il mondo, che comporta bassi tassi di interesse persino quando le economie sono in espansione, ha ridotto lo spazio per tagliare i tassi quando le economie sono in calo.
Qualsiasi sia l’esatta combinazione di questa varie cause, quello che adesso è importante è che le autorità [1] prendano sul serio la possibilità, io direi la probabilità, che l’eccesso di risparmi e la persistente debolezza globale sia la nuova condizione di normalità.
La mia sensazione è che ci sia una radicata indisponibilità, persino tra i dirigenti più sofisticati, ad accettare questa realtà. In parte questo dipende da interessi particolari: Wall Street non vuol sentire parlare di un mondo instabile che richiede forti regolamenti finanziari, ed i politici che vogliono liquidare lo stato assistenziale non vogliono sentir dire che la spesa pubblica e il debito non sono i problemi, nel contesto attuale.
Ma c’è anche, credo, una sorta di pregiudizio emotivo contro ogni concetto di ‘eccesso globale’. In modi simili, i politici ed i tecnocrati vogliono considerarsi come persone serie cha fanno scelte difficili – come tagliare i programmi di spesa più popolari ed elevare i tassi di interesse. Non vogliono sentirsi dire che viviamo in un mondo nel quale politiche apparentemente determinate, alla fine renderanno la situazione peggiore. Ma è quello il mondo in cui viviamo, e quelle politiche provocheranno quell’effetto.
[1] Prendo a pretesto questa occasione, per una osservazione sulla difficoltà a tradurre esattamente il termine “policy maker”. Come è noto, la differenza – in quel caso abbastanza chiara – tra “policy” e “politics” è che il primo termine rimanda maggiormente alle ‘strategie politiche’ ed anche ai ‘programmi politici’, mentre il secondo rimanda piuttosto a quelli che noi chiameremmo i ‘rapporti politici’ (ad esempio: “office politics” = ‘giochi di potere’, oppure “partisan politics” = ‘politica di parte’), ma anche ai ‘convincimenti politici’ (orientamenti, opinioni, idee politiche). In conclusione: la “policy” è la politica dei fatti di governo, dei programmi e delle strategie, la “politics” è la politica delle opinioni, delle strategie e delle tattiche del consenso.
Ma la faccenda diventa impercettibilmente più complessa con il termine “policy maker”. Tutti coloro che si occupano di politica sono “policy maker”? E’ evidente che non è così: molti uomini politici di prima grandezza in realtà possono occuparsi sostanzialmente di “politics” e raramente o mai di “policy”. Inoltre, ci sono categorie di operatori di scelte politiche – ad esempio, i banchieri centrali, ma anche grandi personalità del settore privato – che sicuramente sono inclusi tra i “policy makers”.
In conclusione, il termine non mi pare offra, in lingua italiana, una perfetta analogia, un omologo soddisfacente. Se traduciamo letteralmente, come io faccio di solito, con ‘operatori politici’, includiamo in parte chi andrebbe escluso ed escludiamo in parte chi andrebbe incluso.
In questo caso, ad esempio, traduco con “autorità” con l’intenzione di riferirmi maggiormente a chi ha il ruolo per operare sugli orientamenti di fondo dell’economia, rispetto a chi si occupa piuttosto della competizione partitica. Chi legge con regolarità Krugman, si rende conto che è molto improbabile che egli, con la frase nel testo, voglia intendere che i comuni uomini politici – compresi i più importanti – comprendano esattamente cosa stia accadendo con gli “eccessi globali nei risparmi”.
By mm
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