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Follie cinesi sulle attività di cambio, di Barry Eichengreen (da Project Syndicate 11 settembre 2015)

 

SEP 11, 2015

China’s Forex Follies

Barry Eichengreen

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BERKELEY – On August 11, China devalued its currency by 2% and modestly reformed its exchange-rate system. This was no earth-shattering event, but financial markets responded as if a meteorite had struck them. The negative reaction is no mystery: China’s devaluation was a textbook example of how not to conduct exchange-rate policy.

One of the government’s motivations was presumably to give a boost to China’s slowing economy. Although the service sector, which accounts for the majority of employment, is holding up relatively well, the country’s output of tradable goods, many of which are produced for export, is weakening sharply. Chinese exporters are caught between the pincers of weak foreign demand and rapidly rising domestic wages.

Devaluation is the tried and true remedy for such ills. But a 2% change in currency values is too little to make much of a difference, given that wages in Chinese manufacturing are rising at an annual rate of 10%.

It could be that Chinese policymakers regard the 2% devaluation as a down payment – the first in a succession of downward adjustments. But, in that case, they violated the first rule of exchange-rate management: Don’t cut off a cat’s tail in slices.

The rationale for this rule is straightforward: If foreign investors expect that more currency depreciation will follow, they will rush out of Chinese markets to avoid further losses. Capital outflows will accelerate, financial conditions will tighten, and investment will suffer. In fact, this is precisely what China is experiencing.

A single large devaluation that gets the entire adjustment out of the way minimizes this risk. Indeed, if investors expect the sharp improvement in competitiveness to lead to stronger economic performance, the currency will recover some of its lost value. Capital will flow in rather than out. Spending will rise rather than fall, which is precisely what China needs in the current circumstances.

Instead, by resorting to their traditional incremental approach, Chinese policymakers undermined confidence that they know what they are doing. Because they adjusted the exchange rate without describing their motives, they merely encouraged the belief that China’s economic performance is even worse than official data suggest.

Another interpretation of the August 11 move is that it paved the way for the renminbi’s inclusion in the basket of currencies that comprise the International Monetary Fund’s unit of account, Special Drawing Rights. In order to be included in the SDR basket, a currency must be widely used in international transactions. The renminbi is already widely used to invoice and settle international merchandise trade, notably other countries’ trade with China itself.

But it is less freely traded in global currency markets, ranking only 9th overall, according to the Bank for International Settlements. This relatively low standing partly reflects China’s maintenance of controls on capital flows, which make it hard for financial-market participants to get their hands on renminbi. But it is also a result of heavy-handed manipulation of the foreign-exchange market by the People’s Bank of China (PBOC), which makes changes in the price and availability of the renminbi opaque and uncertain.

The August 11 initiative may have been designed to alleviate this concern. In addition to devaluing, China announced that the opening “fix” – the price at which trading of the renminbi would commence each day – would be largely based on the previous day’s closing market price. Because the PBOC had been setting the opening fix pretty much wherever it wanted, this change could be seen as moving the renminbi toward a more market-determined exchange rate.

If so, it is at most a very modest move in that direction. The PBOC continues to intervene heavily once the market is open, thereby limiting fluctuations in the dollar-renminbi exchange rate to less than 2% a day.

In any case, gaining admission to the SDR club is a poor excuse for wrong-footing the markets. Given that the SDR, which the IMF uses to keep track of its own financial transactions, is of little practical importance, the Chinese authorities’ effort to add the renminbi to it amounts to little more than a vanity project. Inclusion would make no difference in terms of progress toward China’s goal of developing its currency into a first-class international and reserve currency widely used by private and official foreign investors.

If Chinese officials are serious about pursuing this goal, they should stop focusing on the SDR and start developing stable and liquid financial markets that are not subject to official manipulation. Only then will the international community embrace the renminbi as a proper international and reserve currency. The events of the last month suggest that China still has a long way to go.

 

 

 

Follie cinesi sulle attività di cambio

di Barry Eichengreen

BERKELEY – L’11 agosto la Cina ha svalutato la sua moneta del 2% ed ha modestamente riformato il suo sistema di tassi di cambio. Non è stato un evento stupefacente, ma i mercati finanziari hanno reagito come se fosse stati colpiti da un meteorite. La reazione negativa non è un mistero: la svalutazione cinese è stato un esempio da libri di testo su come non condurre la politica dei tassi di cambio.

Una delle motivazioni del Governo presumibilmente è stata quella di dare un sostegno al rallentamento dell’economia. Sebbene il settore dei servizi, nel quale si concentra la maggioranza dell’occupazione, stia tenendo relativamente bene, la produzione di beni commerciabili del paese, molti dei quali sono prodotti per l’export, sta drasticamente rallentando. Gli esportatori cinesi sono costretti nella morsa tra la debole domanda estera e i salari interni rapidamente crescenti.

Per mali del genere, la svalutazione è il rimedio reale al quale si ricorre. Ma un cambiamento del 2% nei valori valutari è troppo poco per fare la differenza, dato che i salari nel settore manifatturiero cinese stanno crescendo ad un ritmo annuo del 10%.

Potrebbe darsi che gli operatori pubblici cinesi considerino la svalutazione del 2% come un anticipo – il primo in una successione di correzioni verso il basso. Ma, in quel caso, essi hanno violato la prima regola nella gestione del tasso di cambio: “non tagliare a fette la coda del gatto”.

La logica di questa regola è evidente: se gli investitori stranieri si aspettano che seguirà un deprezzamento della moneta ulteriore, scapperanno dai mercati cinesi per evitare altre perdite. I flussi dei capitali si accelereranno, le condizioni finanziarie si restringeranno e gli investimenti ne soffriranno. Di fatto, questo è precisamente quello che la Cina sta sperimentando.

Una unica ampia svalutazione che tolga di mezzo l’intera correzione, minimizza questo rischio. In effetti, se gli investitori si aspettano che il brusco miglioramento nella competitività porti ad una prestazione economica più forte, la valuta recupererà una parte del suo valore perduto. I capitali affluiranno, anziché fuggire. La spesa anziché calare salirà, che è quello di cui la Cina ha precisamente bisogno in queste circostanze.

Invece, ricorrendo al loro tradizionale approccio gradualistico, gli operatori pubblici cinesi hanno messo a repentaglio la fiducia nella chiarezza del loro operare. Dato che hanno corretto il loro tasso di cambio senza spiegarne i motivi, hanno semplicemente incoraggiato la convinzione che l’andamento economico della Cina sia anche peggiore di quello che indicano i dati ufficiali.

Un’altra interpretazione della mossa dell’11 agosto è che essa avrebbe aperto la strada all’inclusione del renmimbi [1] nel paniere delle valute che costituiscono le unità di conto del Fondo Monetario Internazionale, i Diritti Speciali di Prelievo. Al fine di essere inclusa nel paniere dei SDR, una valuta deve essere ampiamente utilizzata nelle transazioni internazionali. Il renmimbi è già ampiamente utilizzato per fatturare e definire gli scambi di merci a livello internazionale, in particolare del commercio degli altri paesi con la Cina stessa.

Ma il renmimbi è scambiato meno liberamente sui mercati valutari globali, classificandosi complessivamente soltanto al nono posto, secondo la Banca Internazionale dei Regolamenti. Questa posizione relativamente bassa in parte riflette il mantenimento da parte della Cina di controlli sui flussi dei capitali, che rende difficile per i partecipanti ai mercati finanziari di mettere le loro mani sul renmimbi. Ma è anche il risultato di una pesante manipolazione del mercato dei cambi esteri da parte della Banca del Popolo della Cina (PBOC), la qualcosa rende i mutamenti nei prezzi e la disponibilità di renmimbi opachi ed incerti.

L’iniziativa dell’11 agosto era forse rivolta a ridurre questa preoccupazione. In aggiunta alla svalutazione, la Cina aveva annunciato che la apertura del “fix” – il prezzo al quale ogni giorno prendono le mosse gli scambi di renmimbi – sarebbe stata basata ampiamente sul prezzo di mercato di chiusura del giorno precedente. Poiché la Banca del Popolo della Cina era solita fissare il “fix” di apertura grosso modo dove voleva, questo mutamento poteva essere considerato come lo spostamento del renmimbi verso un tasso di cambio determinato dal mercato.

Se questa era l’intenzione, lo spostamento è stato nel migliore dei casi del tutto modesto. La Banca del Popolo continua ad intervenire pesantemente a mercato aperto, di conseguenza limitando le fluttuazioni nel tasso di cambio dollaro-renmimbi a meno del 2% giornaliero.

In ogni caso, guadagnare l’ammissione al club dei Diritti Speciali di Prelievo, è una scusa modesta per giocare con i mercati in modo maldestro. Dato che i Diritti Speciali di Prelievo, che il FMI utilizza per tener traccia delle proprie transazioni finanziarie, sono di poca importanza pratica, lo sforzo delle autorità cinesi di aggiungere ad essi il renmimbi è poco di più di un progetto vanaglorioso. L’inclusione non farebbe alcuna differenza in termini di avanzamento verso l’obbiettivo cinese di fare evolvere la propria moneta nella prima categoria internazionale e verso una valuta di riserva ampiamente utilizzata dagli investitori stranieri privati e pubblici.

Se i dirigenti cinesi intendono perseguire seriamente quell’obbiettivo, essi dovrebbero smettere di concentrarsi sui Diritti Speciali di Prelievo e cominciare a sviluppare mercati finanziari stabili e liquidi che non siano soggetti alla manipolazione ufficiale. Soltanto allora la comunità internazionale abbraccerà il renmimbi come idonea valuta internazionale e di riserva. Gli eventi del mese scorso indicano che la Cina ha ancora una lunga strada da fare.

 

[1] Cogliamo l’occasione per una nota sul duplice nome della moneta cinese: “Renmimbi” e “Yuan”. Sono entrambi denominazioni corrette, ma in sensi leggermente diversi. “Renmimbi” – che significa “la valuta del popolo” – è il nome ufficiale della valuta, che venne introdotto nel 1949 dalla Repubblica Popolare cinese. “Yuan” è il nome di una unità della valuta renmimbi; un oggetto può costare uno yuan o 10 yuan, ma non sarebbe corretto dire che esso costa 10 renmimbi. La cosa, del resto, è analoga per la valuta britannica, che ufficialmente si denomina “pound sterling”. Si può dire che qualcosa costa 10 pound, ma non sarebbe corretto dire che costa 10 sterling.

 

 

 

 

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