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Gravitazione (dal blog di Krugman, 1 settembre 2015)

 

Gravity

September 1, 2015 8:59 am

Now that’s fun: Adam Davidson tells us about trade in the ancient Near East, as documented by archives found in Kanesh — and reports that the volume of trade between Kanesh and various trading partners seems to fit a gravity equation: trade between any two regional economies is roughly proportional to the product of their GDPs and inversely related to distance. Neat.

But what does the seemingly universal applicability of the gravity equation tell us? Davidson suggests that it’s an indication that policy can’t do much to shape trade. That’s not where I would have gone, and it’s not where those who have studied the issue closely have gone.

Here’s my take: Think about two cities with the same per capita GDP — we can relax that assumption in a minute. They will trade if residents of city A find things being sold by residents of city B that they want, and vice versa.

So what’s the probability that an A resident will find a B resident with something he or she wants? Applying what one of my old teachers used to call the principle of insignificant reason, a good first guess would be that this probability is proportional to the number of potential sellers — B’s population.

And how many such desirous buyers will there be? Again applying insignificant reason, a good guess is that it’s proportional to the number of potential buyers — A’s population.

So other things equal we would expect exports from B to A to be proportional to the product of their populations.

What if GDP per capita isn’t the same? You can think of this as increasing the “effective” population, both in terms of producers and in terms of consumers. So the attraction is now the product of the GDPs.

Is there anything surprising about the fact that this relationship works pretty well? A bit. Standard pre-1980 trade theory envisaged countries specializing in accord with their comparative advantage — England does cloth, Portugal wine. And these models suggest that how much countries trade should have a lot to do with whether they are similar or not. Cloth exporters shouldn’t be selling much to each other, but should instead do their trading with wine exporters. In reality, however, there’s basically no sign of any such effect: even seemingly similar countries trade about as much as a gravity equation says they should.

Calibrated models of trade have long dealt with this reality, somewhat awkwardly, with the so-called Armington assumption, which simply assumes that even the apparently same good from different countries is treated by consumers as a differentiated product — a banana isn’t just a banana, it’s an Ecuador banana or a Saint Lucia banana, which are imperfect substitutes. The new trade theory some of us introduced circa 1980 — or as some now call it, the “old new trade theory” — does a bit more, and possibly better, by introducing monopolistic competition and increasing returns to explain why even similar countries produce differentiated products.

And there’s also a puzzle about both the effect of distance and the effect of borders, both of which seem larger than concrete costs can explain. Work continues.

Does any of this suggest the irrelevance of trade policy? Not really. Changes in trade policy do have obvious effects on how much countries trade. Look at what happened when Mexico opened up starting in the late 1980s, as compared with Canada, which was fairly open all along — and which, like Mexico, mainly trades with the US:

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So what does gravity tell us? Simple Ricardian comparative advantage is clearly incomplete; the process of international trade is subtler, with invisible as well as visible costs. Not trivial, but not too unsettling. And gravity models are very useful as a benchmark for assessing other effects.

 

Gravitazione

Questa è divertente: Adam Davidson ci racconta del commercio nell’antico Vicino Oriente [1], come documentato dagli archivi ritrovati a Kanesh [2] – e ci informa che il volume di commerci tra Kanesh e vari partner commerciali sembra essere coerente con una equazione gravitazionale: il commercio tra due qualsiasi economie regionali è grosso modo proporzionale ai loro prodotti interni lordi e inversamente connesso con la distanza. Fantastico.

Ma cosa ci dice questa apparentemente universale applicazione della equazione gravitazionale? Davidson suggerisce che essa è una indicazione secondo la quale la politica può fare molto nel modellare i commerci. Non è questa la conclusione alla quale io sarei pervenuto, né è quella alla quale pervennero coloro che studiarono il tema da vicino.

Ecco la mia posizione: si pensi a due città con lo stesso PIL procapite – tra un attimo potremo attenuare quell’assunto. Tra esse ci saranno commerci se i residenti della città A trovano cose di loro gradimento che vengono vendute dai residenti della città B, e viceversa.

Quale è dunque la probabilità che un residente A trovi un residente B con qualcosa di suo gradimento? Applicando quello che un mio vecchio insegnante era solito definire come il principio della ragione irrilevante, una prima buona ipotesi sarebbe che questa probabilità sia proporzionale al numero dei potenziali venditori – la popolazione di B.

E quanti acquirenti in tal modo interessati ci saranno? Applicando ancora il principio della ragione irrilevante, una buona ipotesi è che essi siano proporzionali al numero dei potenziali acquirenti – la popolazione di A.

Dunque, a parità delle altre condizioni, ci dovremmo aspettare che le esportazioni da B ad A siano proporzionali ai prodotti delle loro popolazioni.

Cosa accadrà se il PIL procapite non è lo stesso? Questo aspetto può essere riflettuto nei termini di un accrescimento della popolazione “effettiva”, in termini sia di produttori che di consumatori. Dunque, adesso l’attrazione è il prodotto dei due PIL.

C’è qualcosa di sorprendente nel fatto che questa relazione funzioni abbastanza bene? Sì, essa è un po’ sorprendente. La teoria standard del commercio precedente al 1980 riteneva che i paesi si specializzassero in coerenza con i loro vantaggi comparativi – l’Inghilterra produce tessuti, il Portogallo vino [3]. E questi modelli indicano che quanto i paesi commerciano dovrebbe avere molto a che fare con il fatto che essi siano più o meno simili. Gli esportatori di tessuti non dovrebbero vendere molto gli uni con gli altri, dovrebbero invece fare i loro commerci con gli esportatori di vino. Tuttavia, nella realtà non c’è alcun segno di un tale effetto: persino paesi apparentemente simili commerciano più o meno quanto l’equazione gravitazionale dice che dovrebbero.

Per lungo tempo modelli calibrati del commercio si sono misurati con questa realtà, talvolta in modo problematico, con il cosiddetto assunto di Armington, che semplicemente considera che persino quello che sembra uno stesso bene proveniente da paesi diversi, è trattato dai consumatori come un prodotto differenziato – una banana non è solo una banana, è una banana dell’Ecuador o una banana di Santa Lucia, che sono tra loro sostituti imperfetti. La nuova teoria commerciale che alcuni di noi introdussero attorno al 1980 – o, come qualcuno la chiama, la “vecchia nuova teoria del commercio” – fa un po’ di più, e forse meglio, introducendo la competizione monopolistica e i rendimenti decrescenti per spiegare perché persino paesi simili producano prodotti differenziati.

E c’è anche un mistero sia sull’effetto della distanza che su quello dei confini, che sembrano entrambi più ampi di quello che i costi concreti possono spiegare. Il lavoro continua.

Tutto questo indica l’irrilevanza della teoria del commercio? Niente affatto. I mutamenti nelle politiche del commercio hanno davvero effetti evidenti su quanto quei paesi commerciano. Si osservi quello che accadde quando il Messico aprì a partire dagli ultimi anni ’80, a confronto con il Canada, che era stato discretamente aperto sin dall’inizio – e che, come il Messico, principalmente commercia con gli Stati Uniti:

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Dunque, cosa ci dice la teoria della gravitazione? Ci dice che il semplice vantaggio comparativo ricardiano è chiaramente insufficiente; il processo del commercio internazionale è più sottile, con costi sia invisibili che visibili. Non è banale, ma neanche troppo preoccupante. E i modelli gravitazionali sono molto utili come punti di riferimento per valutare tali ulteriori effetti.

 

 

 

[1] Vicino Oriente è un’espressione che propriamente andrebbe usata per indicare la regione geografica oggi per lo più arabofona che si estende dalla sponda orientale del Mar Mediterraneo all’Iran e alla Penisola Arabica.

Corrispondentemente, il termine Medio Oriente spetterebbe propriamente ai paesi dell’area ancora più a est: Afghanistan, Pakistan (è ad essa che tuttora fa spesso riferimento l’espressione francese Moyen Orient e quella inglese Middle East).

Il più delle volte, però, per pervasiva influenza giornalistica anglo-americana, l’area tendenzialmente arabofona (allargabile quindi a occidente, fino a includere il Marocco), viene chiamata “Middle East” Medio Oriente ma quest’uso crea inevitabilmente confusione, perché l’uso del termine “medio” o “lontano” Oriente presuppone, per pura logica, che ne esista uno “vicino”. (Wikipedia)

[2] Il sito archeologico di Kültepe – che era la capitale dell’antico regno Assiro di Kanesh e il centro di una rete complessa di colonie commerciali assire nel II millennio prima di Cristo – è situato a 20 chilometri di distanza dalla odierna città di Kayseri. Il luogo, per la sua collocazione geografica, divenne un centro di scambi culturali e commerciali tra Anatolia, Sirua e Mesopotamia.

[3] L’esempio dell’Inghilterra e del Portogallo deriva dalla spiegazione che fornì Ricardo della teoria del vantaggio comparativo.

 

 

 

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