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I dollari degli altri e il loro posto nell’economia globale, di Paul Krugman (New York Times 4 settembre 2015)

 

Other People’s Dollars, and Their Place in Global Economics

SEPT. 4, 2015

Paul Krugman

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Sydney, Australia — Soon after arriving here, I stopped at an A.T.M.; I needed some dollars, and all I had were dollars.

O.K., weak joke. What I needed were Australian dollars — Aussies — not U.S. greenbacks. There are actually four English-speaking countries with dollars of their own; the others are the Canadian loonie and the New Zealand kiwi. And you can learn a lot about the global economy, busting some popular monetary myths, by comparing those currencies and how they serve their economies.

All four dollar nations are, if you take the long view, highly successful economies. True, America is still recovering from its worst slump since the Great Depression, Canada is being hit hard by plunging oil prices and Australia is feeling nervous as its markets in China wobble. But we’re all wealthy nations that have weathered economic storms better than most of the rest of the world.

While the dollar nations have all done well, however, they occupy very different positions in the world economy. In part, I mean that quite literally: Australia and New Zealand are a long way from everyplace, while Canada, most of whose people live near its southern border, is effectively closer to the United States than it is to itself. And the U.S. is, of course, an economic giant around whose gravity smaller economies revolve.

These differences in geographic position go along with big differences in the nature and role of international trade. Australia is basically an exporter of raw materials and agricultural products; Canada sells a lot of these goods, but it’s also a major exporter of manufactured goods to its giant neighbor.

So what can we learn from these dollar success stories? What myths can we bust?

First, we learn that even relatively small countries closely linked to big neighbors can maintain monetary independence.

In Europe, you often hear the claim that opting out of the euro, choosing either to retain or to restore one’s national currency, would be disastrous. A dozen years ago, when Swedish voters rejected the euro, they did so despite overwhelming insistence by the elite that doing so would be a terrible mistake. But the elite were wrong, and that should have been made obvious by the example of Canada, which has done fine, and retained a lot of monetary autonomy, despite its close ties to the superpower next door.

Second, we learn that what right-wingers call currency “debasement” — a decline in a currency’s value in terms of other currencies — can be a very good thing. Canada was able to combine spending cuts with strong growth in the 1990s because exports were raised by the depreciation of the loonie. Australia rode through the Asian financial crisis of 1997-98 with little damage thanks largely to a falling Aussie. In both cases times would have been much tougher if the countries had been using U.S. dollars, or worse yet been on the gold standard.

Third, we learn that people pay far too much attention to the role national currencies play in the international monetary system.

It’s true that the U.S. dollar is special: It’s a reserve currency that other countries accumulate; it’s the currency in which many international contracts are priced. And you often hear assertions that the widespread use of U.S. dollars outside our national jurisdiction has big implications, for better or worse.

Sometimes these assertions involve the claim that the dollar’s special role is an important source of American power; recently both John Kerry and President Obama warned that failure to ratify the Iran nuclear deal (which I strongly support) would threaten the dollar’s pre-eminence. Sometimes, by contrast, the dollar’s special role is presented as a burden: I’ve seen a number of analysts argue that global demand for dollars helps keep the U.S. trade deficit high.

But a glance at Australia shows that both positive and negative claims about the international role of the dollar are wildly exaggerated. The Aussie dollar plays no special role in the world monetary system, yet Australia has consistently attracted bigger inflows of capital relative to the size of its economy — and run proportionately bigger trade deficits — than the United States.

What’s important for both capital and trade, it turns out, is whether your economy offers good investment opportunities under an umbrella of legal and political stability. Whether you control an international currency is a trivial concern by comparison.

So we can learn a lot by following the dollars — all the dollars, not just those bearing portraits of dead presidents. And what we learn in particular is that monetary economics should be approached pragmatically, not in terms of mystical notions of value.

Take it from those who share our language, but not our currency: There are many ways to make money work.

 

 

 

 

I dollari degli altri e il loro posto nell’economia globale, di Paul Krugman

New York Times 4 settembre 2015

SIDNEY, AUSTRALIA – Subito dopo essere arrivato qua, mi sono fermato ad uno sportello del Bancomat; avevo bisogno di qualche dollaro ed ho ricevuto, precisamente, dei dollari.

Va bene, è un giochino. Ciò di cui avevo bisogno erano dollari australiani – gli “aussie” – non le banconote statunitensi. Effettivamente ci sono quattro paesi di lingua inglese con i propri dollari; gli altri sono i “loonie” canadesi ed i “kiwi” della Nuova Zelanda. E si può imparare molto sull’economia globale, mandando in crisi alcuni popolari miti monetari, confrontando quelle valute e il modo in cui servono le loro economie.

Tutte e quattro le nazioni del dollaro, se considerate la lunga prospettiva, sono economie di gran successo. É vero, l’America si sta ancora riprendendo dalla sua peggiore crisi dall’epoca della Grande Depressione, il Canada è stato colpito duramente dal crollo dei prezzi del petrolio e l’Australia è innervosita per le oscillazioni dei suoi mercati in Cina. Ma siamo tutte nazioni ricche che hanno resistito alle tempeste economiche meglio della maggioranza degli altri paesi.

Se le nazioni del dollaro si sono tutte comportate bene, tuttavia, esse occupano posizioni assai diverse nell’economia del mondo. In parte lo affermo quasi alla lettera; l’Australia e la Nuova Zelanda sono lontane da tutto, mentre il Canada, la gran parte dei cui abitanti vive vicina al suo confine meridionale, è di fatto più prossimo agli Stati Uniti che a se stesso. E gli Stati Uniti, ovviamente, sono un gigante economico attorno alla cui gravità ruotano le economie più piccole.

Queste differenze nella posizione geografica vanno di pari passo con differenze nella natura e nel ruolo del commercio internazionale. L’Australia è fondamentalmente un esportatore di materie prime e di prodotti agricoli; il Canada vende molti di questi beni, ma è anche un esportatore importante di beni manifatturieri verso il suo gigantesco vicino.

Cosa si può dunque apprendere da queste storie di successo del dollaro? Quali miti possiamo mettere in crisi?

Prima di tutto, impariamo che persino paesi relativamente piccoli collegati con grandi vicini, possono mantenere l’indipendenza monetaria.

In Europa, si sente spesso l’argomento che tirarsi fuori dall’euro, scegliendo sia di conservare che di ripristinare la propria valuta nazionale, sarebbe disastroso. Una dozzina di anni fa, quando gli elettori svedesi rigettarono l’euro, lo fecero nonostante la soverchiante insistenza delle classi dirigenti secondo la quale quella decisione sarebbe stata uno sbaglio terribile. Ma quelle classi dirigenti avevano torto, ed avrebbe dovuto essere reso evidente dall’esempio del Canada, il cui andamento è stato positivo pur mantenendo una grande autonomia monetaria, nonostante i suoi stretti legami con la superpotenza della porta accanto.

In secondo luogo apprendiamo che quello che la destra definisce una ‘perdita di valore’ della valuta – un declino nel valore di una moneta nei termini delle altre valute – può essere un’ottima cosa. Negli anni ’90 il Canada fu capace di combinare tagli alla spesa pubblica con una forte crescita perché le esportazioni salirono a seguito della svalutazione del loonie. L’Australia passò con poco danno attraverso la crisi finanziaria asiatica del 1997 – 1998 in gran parte grazie ad un aussie che si svalutava. In entrambi i casi i tempi sarebbero stati molto più duri se i paesi avessero usati dollari statunitensi, o peggio ancora se fossero convissuti con il gold standard.

In terzo luogo, impariamo che si deve fare davvero molta attenzione al ruolo che le valute nazionali giocano nel sistema monetario internazionale.

É vero che il dollaro statunitense è speciale: è una valuta di riserva che viene accumulata dagli altri paesi; è una valuta nella quale vengono stipulati molti contratti internazionali. E spesso sentite giudizi secondo i quali, nel bene o nel male, l’uso dei dollari statunitensi fuori dalla giurisdizione nazionale ha grandi implicazioni.

Talvolta questi giudizi riguardano l’argomento secondo il quale il ruolo speciale del dollaro è una fonte importante del potere americano; di recente sia John Kerry che il Presidente Obama hanno messo in guardia che la mancata ratifica dell’accordo nucleare con l’Iran (che io approvo incondizionatamente) avrebbe minacciato la preminenza del dollaro. All’opposto, talora il ruolo speciale del dollaro è presentato come un peso: ho visto che un certo numero di analisti sostiene che la domanda globale di dollari mantiene il deficit commerciale degli Stati Uniti elevato.

Ma uno sguardo all’Australia dimostra che le pretese sia positive che negative sul ruolo internazionale del dollaro sono completamente esagerate. Il dollaro australiano non gioca alcun ruolo speciale nel sistema monetario mondiale, eppure l’Australia, rispetto agli Stati Uniti, ha stabilmente attratto grandi flussi di capitali in relazione alle dimensioni della sua economia – e in proporzione ha realizzato deficit commerciali più grandi.

Si scopre che quello che è importante, sia per i capitali che per il commercio, è se la vostra economia offre buone opportunità di investimenti sotto l’ombrello di una stabilità del sistema normativo e politico. Al confronto, il fatto che si abbia autorità su una valuta internazionale ha un interesse secondario.

Possiamo dunque imparare molto dall’osservare i dollari – tutti i dollari, non solo quelli con l’effige di Presidenti deceduti. E quello che in particolare si impara è che l’economia monetaria dovrebbe essere affrontata in modi pragmatici, non nei termini di mistici concetti di valore.

Ce lo insegnano coloro che condividono la nostra lingua, ma non la nostra valuta: ci sono molti modi nei quali far funzionare la moneta.

 

 

 

 

 

 

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