Libri antichi e sensazioni recenti
Quest’estate la scelta delle mie letture è stata come guidata da una sensazione un po’ misteriosa, che non saprei spiegare in altro modo se non come la perplessità per l’abbondanza di fatti che assomigliano al “ritorno” di qualcosa di antico; anzi, di talmente antico che la mia stessa generazione, più che viverlo, l’aveva soltanto letto sui libri. Da anni percepivamo il mondo come uno scenario che tende ad essere dominato in continuazione da cose nuove (le tecnologie anzitutto) e, prima del 2008, lo percepivamo anche come incamminato su strade relativamente sicure. Poi lo abbiamo scoperto tutt’altro che al riparo dal ripetersi di problemi antichi, e tra essi in modo particolare il tema della differenza tra le nazioni, dei possibili conflitti delle vocazioni e degli interessi nazionali.
Nell’ultimo mio intervento su questo blog, scrivevo che alla Grecia stava toccando, in virtù delle sue maggiori disgrazie, di andare a votare su un tema che incombe su tutti, ma che altrove non si riesce bene ancora ad esprimere. Come se i problemi della politica, che sono ragioni naturali di chiari conflitti, subissero un taglio, una sorta di censura, nella loro rappresentazione sui normali scenari delle democrazie. Onestamente, mi chiedevo anche – senza dirlo – cosa guidasse, oltre gli interessi, la politica tedesca; non c’è qualcosa di profondo che ‘agisce’ quel paese, anche a dispetto della sua stessa consapevolezza? Una specie di dannazione che proviene dalla sua speciale forza economica e magari dalle sue peculiarità sociali e storiche? E’ normale il fatto che la interpretazione dei problemi delle economie che è prevalente tra gli economisti, sia quasi al bando nel dibattito di quel paese? Il bell’articolo di Joschka Fischer del 23 luglio, qua tradotto, dal titolo “Il ritorno di una Germania minacciosa”, mi ha molto colpito per la chiarezza con la quale ragiona in fondo della legittimità di una sensazione simile. Ci tornerò tra poco.
Non saprei dire se, agli inizi, la mia sensazione riguardasse effettivamente il tema delle storie nazionali. Forse riguardava più semplicemente il tema di fenomeni imprevisti, di fenomeni vecchi che all’improvviso tornano ad essere attuali. E, come si sa, l’estate è terminata con un fenomeno quanto mai antico: la migrazione di centinaia di migliaia di persone, migrazione “biblica”, come dicono i telegiornali. Niente, in fondo, era più logico che immaginarsi fughe generalizzate dalle guerre e dalla fame; ma non ci avevamo pensato. Avevamo pensato che la forza delle tecnologie informative odierne da sé provocasse in Africa e nel Medio Oriente tante belle “primavere democratiche”, da accelerare magari con qualche sicuro bombardamento. Nessuno aveva previsto che la ‘primavera’ si materializzasse in una fuga di massa; che la globalizzazione, alla fine, prendesse la forma della nascita di un nuovo diritto: il diritto alla “paura globale” (o alla “speranza globale”, che è la stessa cosa).
Può capitare, a partire da uno stato d’animo, di riscoprire vecchi libri che pare quasi ti prendano per mano e, se non danno risposte, almeno ti aiutano a porre domande in modo più sensato. Questo è dunque il pretesto per il quale adesso racconto queste letture estive.
Penso che il Thomas Mann che agli inizi della Prima Guerra Mondiale scrisse (ma la pubblicazione avvenne nel 1918) quel suo formidabile, denso e ossessivo, straordinariamente intuitivo e talora sconfortantemente fazioso e prevedibile, “Considerazioni di un impolitico” – quel Thomas Mann allora quarantenne – avrebbe gioito in questi giorni ad ascoltare i discorsi di Angela Merkel sull’obbligo morale di dare assistenza ad alcuni milioni di rifugiati. Tanto più che le posizioni coraggiose della Cancelliera tedesca intervengono dopo mesi nei quali era sembrato che la Germania non trovasse altro senso nella vicenda greca, se non quello di rafforzare la sua indiscutibile posizione di comando.
Non mi voglio adesso addentrare in quelle contraddizioni, e neanche soffermare sul fatto che la apertura della signora Merkel potrebbe ben contenere un ragionamento sulle prospettive demografiche della Germania (Krugman pubblicò mesi orsono – spiacente ma non lo ritrovo – una diagramma che mostrava come tra una cinquantina d’anni il rapporto demografico tra Germania e Francia potrebbe risultare del tutto invertito). Se anche si trattasse solo di questo, e non mi pare, saremmo comunque in presenza di un ragionamento singolarmente lungimirante.
Ma è Mann che qua mi interessa. Perché dico che sarebbe stato felice della annunciata tolleranza del suo paese? Perché il suo patriottico schierarsi all’epoca della Prima Guerra Mondiale, era all’insegna della contrapposizione tra una Europa (ideologicamente a guida francese) che usava il suo radicalismo politico di presunta ispirazione democratica come un bastone da battere su una Germania chiusa in se stessa, estranea alle esaltazioni della politica democratica, in un certo senso “impolitica”. Secondo lui la differenza era – mi scuso per il pressapochismo – tra un paese, la Germania, diffidente della politica quale si era annunciata agli inizi del Novecento, al tempo stesso chiuso e libero in una missione di “cultura”, e paesi ansiosi di una missione ‘civilizzatrice’, ovvero ansiosi della redenzione altrui. E il suo contributo patriottico era nel senso di difendere quella tradizione “impolitica”, di difendere la profondità e l’ingenuità di quella vocazione “di cultura”, contro la ambiguità di quell’imperialismo ideologico. Non si sarebbe stupito, se quella “impoliticità” tedesca fosse stata capace di produrre gesti e scelte politiche di umanità.
É noto che Mann ebbe tutto il tempo, spese il resto della sua vita, per combattere contro la sua stessa colossale ingenuità (una bella ricostruzione della sua storia intellettuale si trova nel saggio “Una custodia per i Buddenbrook. La saggistica di Mann” di Claudio Magris, nella raccolta “Utopia e disincanto”). Proprio perché è noto che Mann riconobbe ben per tempo la mostruosità del nazismo (fu allontanato dall’Università e continuò la sua battaglia emigrando in Svizzera e negli Stati Uniti), molte delle sue idee “impolitiche” restano interessanti. Ad esempio, che la vocazione “civilizzatrice” dei paesi che vinsero la prima guerra mondiale lasciasse una traccia disastrosa nelle condizioni feroci che furono imposte agli sconfitti con il Trattato di Versailles, sembra indubbio.
Ma forse la sua stessa intuizione – in fondo anche dolorosa – sulla “impoliticità” della tradizione nazionale tedesca, getta una qualche luce sulla storia successiva.
Vorrei aggiungere un pensiero forse banale che mi è venuto in mente rileggendo il libro “Storia della Germania, 1866-1945”, di Gordon Craig. Si legge spesso che una caratteristica della Germania è stata, come per l’Italia, il ritardo nel suo costituirsi come Stato nazionale. Ma certo, dopo quel ritardo, avvenne ben altro. Intanto, in fondo, l’unificazione nazionale dell’Italia avvenne nel 1860, perché Garibaldi prevalse su Cavour (lo ha ricordato di recente Scalfari, come l’esempio più importante di un fatto concreto provocato dalla ‘sinistra’ nella nostra storia nazionale e una ricostruzione molto chiara è il “Cavour e Garibaldi nel 1860”, di Denis Mack Smith), ovvero per ragioni intrinseche alla cultura politica nazionale che si stava formando. In Germania, nella guerra austro prussiana che si concluse sul campo di battaglia di Königgratz nel 1866, la Baviera e Francoforte erano ancora convintamente alleate dell’Austria e ci volle la incauta arroganza di Napoleone III per unire la Germania del nord e del sud, che divenne poi ineluttabile dopo la vittoria tedesca contro la Francia del 1871. Dopodiché (non si dimentichi che la guerra del 1871 produsse una ferita molto grave e di effetto sicuramente duraturo per i francesi, con la perdita della Alsazia Lorena) la storia tedesca sembra come avviata su un sentiero quasi obbligato: la Prima Guerra mondiale, la pace dissanguante imposta alla Germania nel 1918 (Keynes la giudicò degna dei più oscuri concetti medioevali di punizione nel suo “Le conseguenze economiche della pace“, un libro che scrisse dopo aver dato le dimissioni dalla delegazione britannica alla conferenza di pace parigina), il nazismo e tutto il seguito. Non è naturale chiedersi, quando mai il popolo tedesco abbia avuto il tempo per ‘scegliere’ e fondare con relativa calma una propria cultura politica?
Probabilmente la risposta è: solo negli ultimi decenni, o meglio ancora, in modo completo, solo dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione tedesca del 3 ottobre 1990. Non so se sono riuscito a spiegare la mia sensazione, secondo la quale il gesto recente della Merkel avrebbe fatto piacere al Mann di cento anni orsono, ma almeno penso sia chiaro in che senso la cultura politica tedesca sia, in fondo, una creatura relativamente recente e non del tutto facilmente prevedibile dagli altri. Se adesso si legge l’articolo di Joschka Fischer che ho sopra ricordato, si scopre che il mio vaniloquio su Thomas Mann non è così peregrino.
Scrive infatti Fischer: “L’unificazione della Germania da parte di Bismark nel diciannovesimo secolo intervenne nel momento del massimo sviluppo dei nazionalismi europei. Nel pensiero tedesco, il potere divenne inestricabilmente associato col nazionalismo e il militarismo. Il risultato fu che, diversamente dalla Francia, dalla Gran Bretagna o dagli Stati Uniti, che legittimarono la loro politica estera nei termini di una “missione civilizzatrice”, la Germania intese il suo potere in termini di cruda forza militare. La fondazione del secondo Stato nazionale tedesco unificato nel 1989 fu basata su un irrevocabile orientamento occidentale e sull’integrazione europea. E la europeizzazione della politica della Germania riempì – ed ancora riempie – il difetto di “civilizzazione” incarnato nella statualità tedesca. Consentire una erosione di questo pilastro – o peggio ancora abbatterlo – è una follia senza pari. ”
Suppongo che Fischer non adoperi quel concetto di “missione civilizzatrice” a caso; è anzi quasi certo che lo desuma proprio dal libro di Mann di un secolo fa, che del resto fu all’origine di un dibattito intellettuale molto ampio. Mann combatteva contro quell’idea, ed ebbe modo di ricredersi constatando come la presunzione di una cultura “impolitica” avesse in fondo prodotto anche mostri; ciononostante la sua idea aveva un suo valore polemico e storico importante. Fischer, in modo interessante, ritiene che la forza della Germania richiede che essa abbia un suo progetto di “civilizzazione” e non possa che averlo in un ruolo primario nella costruzione di un’Europa capace di essere fattore di pace.
Come si è compreso, il ragionamento di Fischer era relativo alla vicenda greca della prima parte di questa estate; in questi giorni egli si è detto “piacevolmente sorpreso” dalle posizioni assunte sul tema dei rifugiati. Sarà anche il caso di seguire con attenzione lo scontro che si è aperto tra la Merkel e il partito cristiano sociale bavarese suo alleato, che per la prima volta incrina la sua compagine su un tema di sostanza.
Ma quello che la Germania non ha saputo fare nella vicenda greca, che non sa assolutamente fare nella comprensione dei temi dell’economia (almeno delle economie altrui), pare invece intenda farlo sul dramma degli emigranti.
PS – Leggo adesso l’articolo di Etienne Balibar su “Il Manifesto” del 18 settembre, dal titolo “Un conflitto oltre le frontiere”. La sua riflessione su come il fenomeno degli emigranti apra un nuovo capitolo della storia europea e la sua apertura a comprendere la posizione tedesca sono davvero una lezione importante.
By mm
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