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Ripercussioni dalla Cina (dal blog di Krugman, 23 settembre 2015)

 

Chinese Spillovers

September 23, 2015 10:29 am

China is clearly in economic trouble. But how worried should we be about spillovers from China’s woes to the rest of the world economy? I have in general been telling people “not very”, although it’s a bigger issue for Japan and Korea. But Citi’s Willem Buiter suggests that it could be a quite big deal, leading to a global recession. And Willem is a very smart guy; read his “Alice in Euroland“, from 1998 (!), warning of the dangers of EMU’s “lender of last resort vacuum.” So could he be right?

Let me start with the case for not worrying too much, which comes down to the fact that China’s economy, while big, is still a small fraction of the global economy — about 15 percent at market exchange rates, which both Buiter and I consider the relevant number.

Now, we have a very old but still useful way to think about the simple economics of interdependence: the foreign trade multiplier. Imagine a world of two countries, A and B, in which A has a recession. This will cause A’s imports from B to fall, with a contractionary effect on B. B’s contraction leads to a fall in imports from A, leading to a further slump in A’s economy, leading to still lower imports from B, and so on.

This may sound like an explosive process, but given realistic numbers it’s actually convergent, and in fact the later-round effects should be trivial. Chinese imports from the rest of the world are less than 3 percent of the ROW’s GDP. Suppose China experiences a 5 percent slump in its own GDP; given an income elasticity of 2, which is reasonable, this would mean a 10 percent fall in imports — but that’s a shock to the rest of the world of just 0.3 percent of GDP. Not nothing, but not that big a deal.

My sense, however, from episodes like the 1997-98 Asian crisis, is that we often see a lot more contagion of economic crisis than this kind of model can explain. So what else might go on?

One possibility is to focus on prices as well as volumes: it’s possible that a Chinese slump could, via its impact on commodity prices, do a lot more harm to some other emerging markets than the above analysis suggests. I’m still working on this, although so far I don’t seem to be finding much there.

Another possibility is an international version of the financial accelerator. As Buiter points out, many emerging markets seem to be vulnerable thanks to private-sector foreign currency debt (which was so deadly in 1997-98). So you can imagine that a China-driven slump in exports leads to currency depreciation, which leads to financial troubles, which leads to much sharper declines in GDP than a direct export multiplier would have suggested.

Maybe, also, we could see some version of the financial contagion so obvious in the 1990s. Troubles in Brazil might make investors leery of other emerging markets, driving up interest spreads and forcing fiscal austerity that worsens the downturn. Or for matter, to the extent that the same hedge funds have been buying assets in a number of emerging nations, losses in one place could force them to liquidate assets elsewhere, causing a sort of global debt deflation. That was a popular story in the 1990s, and might apply again.

Overall, I’m not convinced of the Buiter thesis; China still seems to me not big enough to bring down the rest of the world. But I’m not rock-solid in that conviction, largely because we’ve seen so much contagion in the past. Stay tuned.

 

 

Ripercussioni dalla Cina

La Cina è chiaramente in una difficoltà economica. Ma quanto dovremmo essere preoccupati sulle ripercussioni dei guai economici cinesi nel resto del mondo? In generale l’opinione che ho espresso in giro è stata: “non molto”, sebbene per il Giappone e la Corea sia un problema più grande. Ma Willem Buiter di Citi suggerisce che sarebbe una affare piuttosto serio, che porterà ad una recessione globale. E Willem è una persona molto acuta; leggete il suo “Alice in Eurolandia”, che nel 1998 (!) sosteneva i pericoli della “mancanza di un prestatore di ultima istanza” nell’Unione Monetaria Europea. Potrebbe dunque aver ragione?

Fatemi prender le mosse dall’argomento per il quale non ci si dovrebbe preoccupare molto, che discende dal fatto che l’economia della Cina, per quanto grande, è ancora una piccola frazione dell’economia globale – circa il 15 per cento ai tassi di cambio di mercato, il dato che sia io che Buiter consideriamo pertinente.

Ora, abbiamo un modo antico ma ancora utile per ragionare della semplice economia dell’interdipendenza: il moltiplicatore del commercio con l’estero. Si immagini un mondo con due paesi, A e B, dei quali A è in recessione. Questo spingerà A a diminuire le importazioni da B, con un effetto di contrazione su B. La contrazione di B porterà ad una caduta delle importazioni da A, portando ad importazioni ancora più basse da B, e così via.

Potrebbe sembrare un processo esplosivo, ma dati i numeri realistici esso è effettivamente convergente, e di fatto gli effetti al giro successivo dovrebbero essere banali. Le importazioni cinesi dal resto del mondo sono meno del 3 per cento del PIL del resto del mondo [1]. Si supponga che la Cina conosca una recessione pari al 5 per cento del suo PIL; data una elasticità del reddito pari a 2, che è ragionevole, questo comporterebbe una caduta del 10 per cento nelle importazioni – ma quello sarebbe uno shock per il resto del mondo di solo lo 0,3 per cento del PIL. Non è pari a niente, ma non è neanche una grande faccenda.

La mia sensazione, tuttavia, a seguito di episodi come quello della crisi asiatica del 1997-98, è che spesso osserviamo un contagio molto maggiore da un crisi economica di quello che un modello di quel genere può spiegare. Dunque, cos’altro può accadere?

Una possibilità sarebbe di concentrarsi sui prezzi oltre che sui volumi: è possibile che una recessione cinese possa, attraverso il suo impatto sui prezzi delle materie prime, fare molto più danno ad altri mercati emergenti di quelli che la mia analisi precedente indica. Sto ancora lavorando su questo, sebbene sinora non sembra che stia trovando molto in quella direzione.

Un’altra possibilità è una versione internazionale dell’acceleratore finanziario. Come Buiter mostra, molti mercati emergenti sembrano essere vulnerabili grazie al debito in valuta estera del settore privato (che fu fatale nel 1997-98). Dunque si può supporre che una crisi provocata dalla Cina nelle esportazioni comporti guai finanziari, che porterebbero a declini molto più bruschi nei PIL di quello che un diretto moltiplicatore dell’export suggerirebbe.

Forse potremmo anche osservare qualche versione del contagio finanziario che fu così evidente negli anni ’90. Le difficoltà in Brasile potrebbero rendere gli investitori diffidenti degli altri mercati emergenti, spingendo in alto i differenziali degli interessi e costringendo ad una austerità delle finanze pubbliche che peggiorerà il declino. O altrimenti, nella misura in cui gli stessi hedge fund hanno acquistato asset in un certo numero di nazioni emergenti, le perdite in un luogo potrebbero costringerli a liquidare gli asset dappertutto, provocando una sorta di deflazione totale da debito. Questa, negli anni ’90, fu una spiegazione popolare, e potrebbe ripetersi.

In generale, io non sono convinto della tesi di Buiter; la Cina non mi sembra ancora grande abbastanza da portare al crollo il resto del mondo. Ma non sono irremovibile in questa convinzione, soprattutto perché abbiamo visto tanti episodi di contagio nel passato. Restate in collegamento.

 

[1] ROW è l’acronimo di “Rest of World”.

 

 

 

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