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Un falso allarme sulla Cina, di Shang-Jin Wei (da Project Syndicate, 4 settembre 2015)

 

SEP 4, 2015

A False Alarm About China

Shang-Jin Wei

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MANILA – To hear some pundits tell it, China’s economic miracle – one that lifted 300 million people out of poverty and shifted the world’s geopolitical center of gravity – is coming to a tumultuous end. The volatile stock market and the renminbi’s “surprise” depreciation are signs of imminent economic collapse, according to this view, as risky investments and high levels of government debt put the brakes on decades of turbo-charged output growth.

Fortunately, there is little reason to believe such dire predictions, or that the market gyrations that have been driving recent headlines represent anything more than short-term volatility. After all, equity-price movements are a poor predictor of the real economy’s performance.

Indeed, when Chinese GDP was growing strongly during 2010-2013, stock prices were falling. More recently, when stock prices began soaring during the first half of 2015, the economy’s slowdown had already begun. As the American economist Paul Samuelson famously quipped, “The stock market has called nine of the last five recessions.”

China’s growth has slowed largely as a result of changes in its fundamentals: less favorable demographics, a shift in emphasis from exports and public investment to the service sector and domestic consumption, and lower demand from advanced economies. But China’s past success also contributed to this slowdown, in the form of higher wages, which narrow the scope for rapid growth based on low-cost labor and technological catch-up.

Additional signs of weakness, including soft data on exports and investment, emerged in the first half of 2015. But other important indicators – like retail sales and housing – show upticks. And, perhaps most important, the country’s labor market remains healthy, creating some 7.2 million new urban jobs – many of them in services – in the first half of 2015. Meanwhile, wage growth remains strong and uninterrupted. China’s growth rate may be lower than 7% this year, but I do not believe that it will end up very far from the government’s target of “about 7%.”

The volatility in equity prices in recent months has more to do with the peculiarities of China’s stock markets than with the country’s underlying economic fundamentals. In more developed economies, such as the United States and Europe, many institutional investors – who tend to be focused on long-term fundamentals – help stabilize stock markets. By contrast, the Chinese markets are dominated by retail investors, who are more likely to pursue short-term gains and engage in momentum trading, thereby exacerbating volatility and creating a greater disconnect between equity prices and real economic growth.

Moreover, the firms listed on China’s stock exchanges are not representative of the country’s companies. Majority state-owned firms account for two-thirds of the market value of the country’s exchanges, for example, though they are responsible for no more than one-third of Chinese GDP and an even smaller share of employment.

The rise and fall of the Chinese stock market should also be understood in the context of Chinese households’ limited options for storing savings. The run-up in prices took place at a time when deposit interest rates were officially capped. When the alternatives are few and provide only low returns, the equity market looks more attractive, especially if – as was the case – the country’s major newspapers are running bullish editorials about stock prices.

More recent developments may have contributed to the downward pressure on prices, including discussion about abolishing interest-rate ceilings on deposits (the cap on term deposits of one year or more was removed on August 25). The greater ease with which wealthy households can move savings out of the country, along with an anticipated increase in interest rates in the United States, was likely another contributing factor.

Furthermore, as Harvard’s Jeffrey Frankel has pointed out, regulators increased margin requirements several times this year, making it harder to buy stocks with borrowed money. And, as with all stock markets, shifts in sentiment that are not connected to fundamentals can also drive volatility.

Whether China’s economy can continue to grow rapidly will depend far more on its ability to reform than on how its stock markets perform. If China is to thrive in the long term, raising its aggregate productivity is key. This means that it will need to overhaul its state-owned firms and the financial sector so that resources can flow to the most productive investment projects. Lowering the tax burden on firms – including the payroll tax – would also be useful.

Reforms that increase the flexibility of the labor market are also in order. While China used to have a relatively flexible labor market in the manufacturing sector, firms’ reallocation of workers based on market needs has become more difficult in recent years. Greater flexibility might not stimulate short-term growth, but it would improve resilience to future negative shocks, whether they originate at home or abroad.

As long as China continues to pursue pro-market reforms, it will remain the largest single-country contributor to global GDP growth over the medium term – unperturbed by stock-market volatility. If reforms stall, falling stock prices are likely to be the least of China’s worries.

 

 

 

 

Un falso allarme sulla Cina

di Shang-Jin Wei

MANILA – A sentire alcun commentatori, il miracolo economico della Cina – quello che ha portato fuori dalla povertà 300 milioni di persone ed ha spostato il centro di gravità del mondo – sta giungendo in modo tumultuoso al termine. Secondo questo punto di vista, il volatile mercato azionario e la “sorpresa” della svalutazione del renmimbi sarebbero i segni di un crollo imminente, mentre gli investimenti rischiosi e gli alti livelli del debito pubblico fanno da freno a decenni di crescita della produzione a vele spiegate.

Fortunatamente, ci sono poche ragioni per credere a queste tremende previsioni, o per credere che i giravolta del mercato che hanno provocato i recenti titoli dei giornali rappresentino qualcosa di più di una volatilità a breve termine. Dopo tutto, i movimenti dei prezzi azionari sono un indicatore modesto degli andamenti dell’economia reale.

In effetti, quando il PIL cinese cresceva fortemente negli anni dal 2010 al 2013, i prezzi delle azioni erano in calo. Più di recente, quando i prezzi delle azioni hanno cominciato a impennarsi durante la prima metà del 2015, il rallentamento dell’economia aveva già avuto inizio. Secondo la battuta dell’economista americano Paul Samuelson: “Il mercato azionario ha annunciato nove delle ultime cinque recessioni”.

La crescita della Cina è rallentata in gran parte in conseguenza dei cambiamenti dei suoi fondamentali: una demografia meno favorevole, uno spostamento dell’enfasi dalle esportazioni e dagli investimenti pubblici al settore dei servizi e dei consumi interni e una domanda più bassa da parte delle economie avanzate. Ma anche i passati successi della Cina hanno contribuito al suo rallentamento, nella forma di salari più alti, che restringono gli ambiti per una rapida crescita basata sul basso costo del lavoro e sul raggiungimento dei livelli tecnologici dei paesi avanzati.

Nella prima metà del 2015, sono emersi ulteriori segni di debolezza, compresi dati deboli sulle esportazioni e sugli investimenti. Ma altri importanti indicatori – come le vendite al dettaglio e il settore immobiliare – mostrano tendenze al rialzo. Inoltre, l’aspetto forse più importante, il mercato del lavoro del paese resta in salute, con la creazione nella prima metà del 2015 di 7,2 milioni di nuovi posti di lavoro urbani, molti dei quali nei servizi. Nel frattempo, la crescita dei salari resta forte e ininterrotta. Quest’anno è possibile che il tasso di crescita della Cina resti più basso del 7%, ma non credo che finirà molto distante dall’obbiettivo del Governo di “circa il 7%”.

La volatilità dei prezzi delle azioni nei mesi recenti ha più a che fare con la peculiarità dei mercati azionari cinesi che con i sottostanti fondamentali economici del paese. Nelle economie più sviluppate, come gli Stati Uniti e l’Europa, molti investitori istituzionali – che tendono a concentrarsi sui fondamentali a lungo termine – contribuiscono a stabilizzare i mercati azionari. Al contrario, i mercati cinesi sono dominati da investitori di piccole dimensioni, che è più probabile perseguano guadagni nel breve periodo e si impegnino negli scambi momentanei, di conseguenza esacerbando la volatilità e creando una disconnessione maggiore tra prezzi delle azioni e crescita economica reale.

Inoltre, le imprese rappresentate nelle Borse cinesi non sono indicative della principali società del paese. Ad esempio, la maggioranza delle imprese di proprietà statale rappresenta due terzi del valore di mercato degli scambi del paese, sebbene ad esse si possa attribuire meno di un terzo del PIL cinese ed una quota anche più piccola di occupazione.

La ascesa e la caduta del mercato azionario cinese dovrebbe inoltre essere compresa nel contesto delle opzioni limitate di conservazione di risparmi delle famiglie cinesi. La crescita dei prezzi ha avuto luogo in un periodo nel quale i tassi di interesse sui depositi avevano ufficialmente un tetto stabilito. Quando le alternative sono poche e forniscono soltanto bassi rendimenti, il mercato azionario appare più attraente, specialmente se – come era il caso – importanti giornali del paese diffondono editoriali rialzisti sui valori delle azioni.

Sviluppi più recenti possono aver contribuito alla spinta verso il basso dei prezzi, compreso il dibattito sulla abolizione dei tetti al tasso di interesse sui depositi (il limite di un anno o più sui depositi a termine è stata rimosso il 25 agosto). La maggiore facilità con la quale le famiglie più ricche possono spostare i risparmi fuori dal paese, assieme al previsto incremento dei tassi di interesse negli Stati Uniti, probabilmente sono stati altri fattori che hanno contribuito.

Inoltre, come Jeffrey Frankel di Harvard ha messo in evidenza [1], nel corso di quest’anno i regolatori hanno accresciuto i ‘requisiti al margine’ [2], rendendo più difficile acquistare azioni con denaro preso a prestito. E, come in tutti i mercati azionari, anche gli spostamenti nelle percezioni che non sono connesse con i fattori di fondo dell’economia possono provocare la volatilità.

Se l’economia cinese potrà continuare a crescere rapidamente, dipenderà assai di più dalla sua capacità di fare riforme che dagli andamenti dei mercati azionari. Se nel lungo termine la Cina deve prosperare, la chiave è quella di elevare la produttività aggregata. Questo significa che essa ha bisogno di ristrutturare le sue imprese statali ed il settore finanziario, di modo che le risorse possano indirizzarsi verso i progetti di investimento più produttivi. Sarebbe anche utile abbassare il peso fiscale sulle imprese – inclusa la tassa sugli stipendi.

Anche le riforme che possono accrescere la flessibilità del mercato del lavoro fanno parte dell’elenco. Se la Cina era solita avere un mercato del lavoro relativamente flessibile nel settore manifatturiero, la ricollocazione dei lavoratori di un’impresa sulla base dei bisogni del mercato è diventata più difficile negli anni recenti. Una maggiore flessibilità potrebbe non stimolare la crescita nel breve periodo, ma migliorerebbe l’elasticità rispetto ai futuri shock negativi, sia che siano generati all’interno che all’estero.

Nel mentre la Cina proseguirà a perseguire le riforme favorevoli al mercato, nel medio termine essa resterà il contribuente più grande alla crescita del PIL globale – indisturbata dalla volatilità dei mercati azionari. Se si fermano le riforme, la caduta dei prezzi delle azioni è probabile che sarà l’ultima delle preoccupazioni per la Cina.

 

 

[1] Lo stesso concetto che si trova nella connessione, Frankel lo spiega nell’articolo che abbiamo qua appena tradotto, del 4 settembre.

[2] I “requisiti al margine” sono quanto un investitore deve depositare in un ‘conto al margine’, prima di acquistare azioni, ad esempio nella forma della “vendita allo scoperto”, o in generale ricorrendo al prestito di una banca o di un broker. Ad esempio, la legislazione americana prevede che un valore come minimo pari al 25% del valore totale di mercato dei titoli sia depositato in precedenza nel ‘conto al margine’.

 

 

 

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