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I paradisi fiscali alla luce del sole, di J. Bradford DeLong and Michael M. DeLong (da Project Syndicate, 28 settembre 2015)

 

SEP 28, 2015

Sunlight on Tax Havens

J. Bradford DeLong and Michael M. DeLong

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BERKELEY – Tax havens are by design secretive and opaque. The entire point of their existence is to conceal the wealth hidden within them. And a new book by Gabriel Zucman, The Hidden Wealth of Nations: The Scourge of Tax Havens, reveals, as never before, the extent of their role in the global economy.

Zucman examines discrepancies in international accounts to provide the most precise and reliable figures we are likely to obtain about the amount of money stored in tax havens. He estimates that 8% of the world’s financial wealth – some $7.6 trillion – is hidden in places like Switzerland, Bermuda, the Cayman Islands, Singapore, and Luxembourg. That is more wealth than is owned by the poorer half of the world’s 7.4 billion people.

This figure has important consequences, as it represents money that should be in the tax base. If rich countries in Europe and North American cannot effectively tax the rich, they have little chance of preserving social democracy and offsetting the surge in inequality that has recently afflicted their economies. Similarly, emerging economies have little hope of putting in place progressive tax systems if they cannot find their plutocrats’ wealth.

To be sure, Zucman’s relies on the unproven assumption that there are important data to be found in what is usually classified as “errors and omissions.” But there is good reason to believe his figures are in the ballpark. Switzerland’s central bank reports that foreigners hold $2.4 trillion in Swiss banks alone. And while Switzerland may be the world’s oldest tax haven, it is not the most advantageous place to park one’s money.

One reason why tax havens are difficult to eliminate is that not everyone in government necessarily views them in the same way. Wherever corruption is endemic – say, Russia, China, and much of the Middle East – many officials may view tax havens not as a revenue problem, but as an attractive part of the job.

Even in the United States, policies have all too often been deliberately designed to enable – rather than to discourage – tax avoidance via tax havens. One former senior official in US President George W. Bush’s administration put it this way, “it is, ultimately, about freedom.” The resulting lax enforcement accounts for a large portion of the one-third decline in the effective reach of the US corporate income tax since the late 1990s.

When it comes to tax havens, it is fashionable to say that nothing can be done. National sovereignty is deemed too important to be subordinated to international tax laws. And the day’s plutocrats are seen as having sway over elected politicians and civil servants. More than a century ago, then-Governor Woodrow Wilson of New Jersey convinced the state legislature to get out of the corporate-tax-haven business. As soon as it did, America’s corporations picked up their legal headquarters and moved next door to Delaware.

But what those who say that coordinated international policy is impossible don’t say is that coordinating international policy always looks impossible, until suddenly the conditions change and everything falls into place. Tax havens can be eliminated; all that is required is to close the loopholes that allow legal tax avoidance and establish enforcement mechanisms that make illegal tax evasion no longer worth the risk.

The first step should be increased transparency. As the saying goes, “sunlight is the best disinfectant.” Zucman, for his part, favors a single global registry – a publicly accessible database detailing the ownership of financial instruments.

The second step would be to shift the corporate tax base from profits reported to have been earned in a country to sales made and wages paid in that country. As Zucman points out, a corporation can move its legal headquarters and use mechanisms like transfer pricing to shift its tax burden, but moving its employees across national borders is more difficult, and it cannot move its customers.

If we are ever to combat inequality effectively, truly progressive taxation will have to be a part of the policy mix. But unless we eliminate tax havens now, we are likely to find that we lack the ability to implement it.

 

 

 

 

 

 

I paradisi fiscali alla luce del sole,

di J. Bradford DeLong and Michael M. DeLong

BERKELEY – I paradisi fiscali sono per definizione segreti e opachi. Il senso stesso della loro esistenza è celare la ricchezza nascosta al loro interno. E un nuovo libro di Gabriel Zucman, La ricchezza nascosta delle nazioni: la piaga dei paradisi fiscali, rivela, come mai prima d’ora, la misura del loro ruolo nell’economia globale.

Zucman esamina le discrepanze nella contabilità internazionale nel fornire i dati più precisi ed affidabili che si possano ottenere, a proposito della quantità di capitali conservati nei paradisi fiscali. Egli stima che l’8% della ricchezza finanziaria del mondo – qualcosa come 7.600 miliardi di dollari – sia nascosta in luoghi come la Svizzera, Bermuda, le Isole Cayman, Singapore e il Lussemburgo. Si tratta di una ricchezza maggiore di quella posseduta dalla metà più povera dei sette miliardi e 400 milioni di persone della popolazione mondiale.

Questo dato ha conseguenze importanti, in quanto rappresenta denaro che dovrebbe stare nella base fiscale. Se i paesi ricchi in Europa e nel Nord America non possono efficacemente tassare i ricchi, hanno poca possibilità di preservare la democrazia sociale e di bilanciare la crescita dell’ineguaglianza che ha recentemente afflitto le loro economie. Parimenti, le economie emergenti hanno poca speranza di mettere in funzione sistemi fiscali progressivi, se non possono raggiungere la ricchezza dei loro plutocrati.

Per la precisione, Zucman si basa sull’assunto non dimostrato che ci siano dati importanti che vanno trovati in quelli che normalmente si classificano come “errori ed omissioni”. Ma c’è una buona ragione per credere che essi siano approssimativamente corretti. La banca centrale della Svizzera riporta che gli stranieri da soli posseggono 2.400 miliardi di dollari nelle banche svizzere. E se la Svizzera è il più vecchio paradiso fiscale del mondo, essa non è il luogo più vantaggioso nel quale collocare i propri soldi.

Una ragione per la quale è difficile eliminare i paradisi fiscali è che non tutti, nelle amministrazioni, necessariamente li considerano nello stesso modo. Dovunque la corruzione è endemica – ad esempio, in Russia, in Cina e in gran parte del Medio Oriente – molti funzionari possono considerare i paradisi fiscali non come un problema per le entrate, ma come un aspetto attraente del loro lavoro.

Persino negli Stati Uniti, le politiche hanno troppo spesso deliberatamente concepito di permettere – anziché di scoraggiare – l’elusione delle tasse attraverso i paradisi fiscali. Un passato dirigente di primo piano della Amministrazione del Presidente George W. Bush si espresse in questo modo: “In ultima analisi, è una questione di libertà”. La conseguente permissiva applicazione (della legge) costituisce buona parte del declino di un terzo della effettiva potenzialità della tassa sui redditi delle società negli Stati Uniti, a partire dagli ultimi anni ’90.

Quando si arriva ai paradisi fiscali, è di moda dire che non si può far niente. La sovranità nazionale è ritenuta troppo importante per essere subordinata alle leggi fiscali internazionali. E i plutocrati del momento si ritiene che abbiano influenza sui politici eletti e sui funzionari pubblici. Più di un secolo fa, l’allora Governatore del New Jersey Woodrow Wilson convinse i legislatori dello Stato ad abbandonare le attività di paradiso fiscale per le società. Appena lo fece, le corporazioni americane raccolsero i loro quartieri generali legali e si spostarono alla porta accanto del Delaware.

Ma quello che non dicono coloro che affermano che una politica internazionale coordinata è impossibile, è che il coordinamento della politica internazionale appare sempre impossibile, finché all’improvviso le condizioni mutano e ogni cosa va al suo posto. I paradisi fiscali possono essere eliminati; tutto quello che è necessario è chiudere le scappatoie che consentono l’elusione legale delle tasse e fissare meccanismi di adempimento che rendano l’evasione illegale delle tasse troppo rischiosa.

Il primo passo dovrebbe essere un aumento della trasparenza. Come dice il proverbio “la luce del sole è il miglior disinfettante”. Per suo conto, Zucman è a favore di un unico registro globale – un archivio informatico pubblicamente accessibile che mostri in dettaglio la proprietà degli strumenti finanziari.

Il secondo passo sarebbe spostare la base fiscale dai profitti che si riconosce di aver guadagnato in un paese, alle vendite realizzate ed ai salari pagati in quel paese. Come Zucman mette in evidenza, una società può spostare i suoi quartieri generali legali ed usare meccanismi come il ‘transfer pricing’ [1] per spostare i suoi pesi fiscali, ma muovere oltre i confini nazionali i suoi occupati è più difficile, e non si possono trasferire i suoi clienti.

Se volessimo mai combattere l’ineguaglianza efficacemente, una tassazione realmente progressiva dovrebbe esser parte del complesso delle misure politiche. Ma se non si eliminano ora i paradisi fiscali, è probabile che si scopra che non abbiamo la capacità di metterlo in pratica.

 

 

 

[1] Una definizione di ‘transfer pricing’ è: “il prezzo che viene caricato da un membro di una organizzazione multinazionale ad un altro membro dello stesso gruppo per la fornitura di beni e servizi o per l’uso della proprietà, inclusa la proprietà intangibile”. Dunque, il ‘transfer pricing’ si applica ai prezzi applicati alle transazioni interne ad una società. É evidente che quei trasferimenti seguono la logica della massima convenienza fiscale, ovvero sottopongono la ricchezza prodotta al regime fiscale più conveniente.

 

 

 

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