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L’impronta di Blanchard (dal blog di Krugman, 3 ottobre 2015)

Oct 3 9:59 am

The Blanchard Touch

Steven Pearlstein has a very nice profile of Olivier Blanchard, a world-class macroeconomist who went on to become an even more towering figure as chief economist at the IMF. (Full disclosure: Olivier and I were in grad school together — we worked out the analytics of anticipated shocks on the lunchroom table together — then were colleagues at MIT for many years.) Under Olivier’s leadership the IMF research department became a huge source of important work that was both intellectually bracing and extremely relevant to policy. And I thought I might add a bit to the profile by talking briefly about one line of that work, the IMF’s ground-breaking empirical analysis of fiscal policy.

Back in early 2010 policymakers in Europe, and some politicians in the United States, went all in for the notion of “expansionary austerity”, the belief that slashing spending in a depressed economy would actually increase demand by inspiring confidence. This view was allegedly supported by statistical evidence, although it was fairly obvious that this evidence was weak, that the statistical procedures being used to identify episodes of austerity and stimulus didn’t actually work. But the world badly needed a careful examination of the facts.

The IMF delivered, showing that the measures of austerity used in expansionary austerity papers were indeed badly flawed; the Fund used actual changes in policy, and found that austerity has indeed been contractionary.

How contractionary? Initial estimates suggested a multiplier of around 0.5, and that’s what the Fund went with in much of its policy analysis, even though many of us warned from the beginning that the multiplier was probably much larger with interest rates at the zero lower bound. When the slumps in debtor countries proved much deeper than forecast, Blanchard and colleagues, enormously to their credit, revisited the issue and concluded that they had understated the adverse effects of fiscal contraction. This was a wonderful thing to see, especially in a world where almost nobody ever admits having been wrong about anything. And it came in time to have a useful effect on policy, if policymakers had listened, which they didn’t.

But doesn’t government spending crowd out investment, so that austerity may be bad in the short run but good in the long run? No, said the IMF in yet another crucial analysis, which said that fiscal policy appears to produce crowding in, not crowding out — an economy weakened by austerity will invest less, not more.

And there’s more, like the IMF’s use of interwar data to assess the chances for successful debt reduction via austerity. (Not good.)

I’m sure I’m missing stuff. But the point should be clear: the Blanchard era at the IMF was one of unprecedented data-driven analysis of policy problems, done with consummate skill.

 

L’impronta di Blanchard

Steven Pearlstein ha fornito un profilo molto bello di Olivier Blanchard, un economista di prim’ordine che ha proseguito sino al punto di diventare una personalità ancora più eminente come capo economista al FMI (rivelazione di prima mano: Olivier e il sottoscritto eravamo assieme al corso di laurea specialistico – lavoravamo assieme alla analitica degli shock attesi sul tavolo della mensa – poi fummo colleghi al MIT per molti anni). Sotto la guida di Olivier il dipartimento di ricerca del FMI è diventato una vasta fonte di importanti lavori, che sono stati sia stimolanti intellettualmente che estremamente significativi per la politica. Ho pensato che avrei potuto aggiungere qualcosa a quel profilo parlando brevemente su un aspetto di quel lavoro, l’analisi empirica pionieristica del FMI sulla politica della finanza pubblica.

Nel passato 2010 gli operatori pubblici di rilievo [1] in Europa, ed alcuni uomini politici negli Stati Uniti, si giocarono tutto con il concetto di “austerità espansiva”, la convinzione che abbattere la spesa pubblica in una economia depressa avrebbe effettivamente aumentato la domanda, ispirando fiducia. Si pretendeva che questo punto di vista fosse supportato da prove statistiche, sebbene fosse abbastanza evidente che queste prove erano fragili, che le procedure statistiche che vengono utilizzate per identificare episodi di austerità e politiche di sostegno effettivamente non avevano funzionato. Eppure il mondo aveva bisogno di un esame scrupoloso dei fatti.

Il FMI internazionale lo portò a termine, mostrando che le misure di austerità utilizzate negli studi sulla austerità espansiva erano in effetti seriamente difettose; il Fondo utilizzò i mutamenti effettivi nelle politiche, e scoprì che in effetti l’austerità aveva prodotto contrazione.

Quanta ne aveva prodotta? Le stime iniziali suggerivano un moltiplicatore di circa 0,5, ed è con quello che il Fondo procedette nella sua analisi politica, anche se molti di noi mettevano in guardia che, con i tassi di interesse allo zero, il moltiplicatore fosse probabilmente molto più ampio. Quando le recessioni nei paesi debitori si mostrarono molto più profonde del previsto, Blanchard ed i suoi colleghi, a loro straordinario credito, rivisitarono la tematica e conclusero che avevano sottostimato gli effetti negativi della contrazione della spesa pubblica. Questo fu un episodio magnifico, in particolare in un mondo nel quale quasi nessuno ammette mai di aver avuto torto su nulla. Ed avvenne in tempo per avere effetti utili sulla politica, se gli operatori pubblici avessero inteso, la qual cosa non fecero.

Ma se la spesa pubblica non ‘spiazza’ l’investimento, allora l’austerità può essere negativa nel breve periodo ma positiva in quello lungo? No, disse il FMI in un’altra cruciale analisi, con la quale affermò che la politica della finanza pubblica pare produca un effetto di accumulo, non di esclusione – un’economia indebolita dall’austerità, investirà di meno, non di più.

E c’è di più, come l’uso da parte del FMI dei dati nei periodi tra le due guerre per stimare le possibilità di un successo nella riduzione del debito attraverso l’austerità (risultata negativa).

Di certo sto dimenticando qualcosa. Ma il punto dovrebbe essere chiaro: l’epoca di Blanchard al FMI è stata quella di una analisi senza precedenti, guidata dai dati, dei problemi della azione politica, condotta con consumata competenza.

 

[1] I “policymakers” non sono gli “uomini politici”; alcuni (tutto sommato, pochi) di loro lo sono, molti altri non lo sono. Ma “policymakers” – ovvero coloro che fanno la politica delle cose reali, pensano e realizzano i programmi – sono anche, solo per fare un esempio, i dirigenti delle banche centrali. Per questo, ‘rilevanti operatori pubblici’ mi pare la soluzione più precisa. Si noti che Krugman, in questo caso, parla di “policymakers” in Europa e di “politicians” negli USA. Non è affatto casuale: i sostenitori della ‘austerità espansiva’ negli USA, a suo giudizio, furono più gli uomini politici del centro e della destra, che non gli ‘operatori pubblici’ del Governo e della politica monetaria.

 

 

 

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