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Il problema del cambiamento di regime nella politica americana (dal blog di Krugman, 13 novembre 2015)

 

Nov 13 3:44 pm

The Regime Change Problem in American Politics

This post isn’t about what you think it’s about. I’m not talking about a looming coup; I’m talking about the problems facing political science, which — it recently occurred to me — are a bit like the problems facing macroeconomics after 2008.

First things first: I’m a big admirer of political science, and a fairly heavy consumer of the more quantitative end. Larry Bartels, McCarty/Poole/Rosenthal, Alan Abramowitz, Andrew Gelman, and more have helped shape my understanding of what is going on in this country; I get more out of any one of their papers than out of a whole election cycle’s worth of conventional horse-race punditry. Studying what actually happens in elections, as opposed to spinning tales based on a few up-close-and personal interviews, is definitely the way to go.

Yet I don’t think I’m being unfair in saying that so far this cycle the political scientists aren’t doing too well. In particular, standard models of how the nomination process works seem to be having trouble with the durability of clowns. Things don’t seem to be working the way they used to.

And this makes me think of the way some economic analysis went astray after 2008. In particular, I’m reminded of the way many fairly reasonable analysts underestimated the adverse effects of austerity. They looked at historical episodes, and this led them to expect around a half point of GDP contraction for every point of fiscal tightening. What actually seems to have happened was around three times that much.

Now, as it happens we know why — and some people (e.g., me) predicted this in advance: the conditions under which past austerity took place were different from the recent episode, in which monetary policy was constrained by the zero lower bound and unable to offset fiscal contraction. But the point was that the world had entered a different regime, in which historical relationships could be and were misleading.

And surely it’s not too much of a stretch to say that something equally or more fundamental has happened to US politics. Partisan divisions run deeper; establishment figures are widely distrusted; the GOP base has gone mad; and so on. History is just less of a guide than it used to be.

In the case of macroeconomics, fortunately, we had models that allowed us to make reasonably good predictions about how the regime would shift at the ZLB. If there’s anything comparable in political science, I don’t know about it (but would be happy to be enlightened.)

I’ll still take academic analysis over horserace punditry any day. But we really do know less than ever.

 

Il problema del cambiamento di regime nella politica americana

Questo post non riguarda quello che voi pensate. Non sto parlando di un “golpe” incombente; sto parlando dei problemi dinanzi ai quali si trova la scienza politica, i quali – mi è venuto in mente di recente – sono un po’ come i problemi con cui si è misurata la macroeconomia dopo il 2008.

Voglio dire in premessa: io sono un grande ammiratore della scienza politica ed un consumatore discretamente intenso della sua parte più basata sui dati quantitativi. Larry Bartels, McCarter/Poole/Rosenthal, Alan Abramowitz, Andrew Gelman ed altri hanno contribuito a formare la mia comprensione di quello che sta accadendo in questo paese; ho tratto di più da ognuno dei loro studi che non dal complessivo valore di un ciclo elettorale di commenti convenzionali sulla serrata competizione politica. Studiare quello che succede veramente in una elezione, anziché interpretare racconti basati su poche interviste intimistiche, è di sicuro la strada da seguire.

Eppure non penso di essere ingiusto se dico che sino a questo punto di questo ciclo elettorale, gli scienziati della politica non si sta comportando in modo brillante. In particolare, i modelli consueti su come il processo della scelta dei candidati opera, sembra aver problemi con la capacità di tenuta delle figure pagliaccesche. Non sembra che le cose stiano funzionando nel modo consueto.

E questo mi fa pensare al modo in cui qualche analisi economica è andata fuori strada dopo il 2008. In particolare, mi è tornato alla mente il modo in cui molti analisti abbastanza ragionevoli hanno sottostimato gli effetti negativi dell’austerità. Osservavano gli episodi storici, e questo li ha portati ad aspettarsi una contrazione di circa mezzo punto di PIL, per ogni punto di restrizione della finanza pubblica. Pare che quello che è effettivamente accaduto sia stato circa tre volte tanto.

Ora, si dà il caso che ne conosciamo le ragioni – ed alcune persone (ad esempio, il sottoscritto) l’avevano previsto in anticipo: le condizioni sotto le quali la passata austerità si era manifestata erano diverse dall’episodio recente, nel quale la politica monetaria era condizionata dal limite inferiore dello zero (dei tassi di interesse) ed era incapace di bilanciare la contrazione della finanza pubblica. Ma il punto è stato che il mondo è entrato in un diverso regime, nel quale le relazioni storiche potevano essere e sono state fuorvianti.

E certamente non è una estensione indebita affermare che qualcosa di egualmente, o ancora di più, fondamentale è accaduto con la politica degli Stati Uniti. Le divisioni di parte operano più nel profondo; le personalità dei gruppi dirigenti sono ampiamente oggetto di diffidenza; la base del Partito Repubblicano è uscita di senno, e così via. I precedenti storici non sono proprio più una guida come accadeva in passato.

Nel caso delle macroeconomia, fortunatamente, avevamo modelli che ci consentivano di fare previsioni ragionevolmente buone su come il regime, al livello inferiore dello zero dei tassi di interesse, si sarebbe modificato. Se esiste qualcosa di analogo nella scienza politica, io non lo conosco (ma sarei felice di essere illuminato).

Continuo a sorbirmi quotidianamente analisi accademiche degli esperti sulla competizione elettorale. Ma ne sappiamo davvero meno che mai.

 

 

 

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