Articoli sul NYT

La cupa eredità dell’austerità, di Paul Krugman (New York Times 6 novembre 2015)

 

Austerity’s Grim Legacy

NOV. 6, 2015

Paul Krugman

z 814

When economic crisis struck in 2008, policy makers by and large did the right thing. The Federal Reserve and other central banks realized that supporting the financial system took priority over conventional notions of monetary prudence. The Obama administration and its counterparts realized that in a slumping economy budget deficits were helpful, not harmful. And the money-printing and borrowing worked: A repeat of the Great Depression, which seemed all too possible at the time, was avoided.

Then it all went wrong. And the consequences of the wrong turn we took look worse now than the harshest critics of conventional wisdom ever imagined.

For those who don’t remember (it’s hard to believe how long this has gone on): In 2010, more or less suddenly, the policy elite on both sides of the Atlantic decided to stop worrying about unemployment and start worrying about budget deficits instead.

This shift wasn’t driven by evidence or careful analysis. In fact, it was very much at odds with basic economics. Yet ominous talk about the dangers of deficits became something everyone said because everyone else was saying it, and dissenters were no longer considered respectable — which is why I began describing those parroting the orthodoxy of the moment as Very Serious People.

Some of us tried in vain to point out that deficit fetishism was both wrongheaded and destructive, that there was no good evidence that government debt was a problem for major economies, while there was plenty of evidence that cutting spending in a depressed economy would deepen the depression.

And we were vindicated by events. More than four and a half years have passed since Alan Simpson and Erskine Bowles warned of a fiscal crisis within two years; U.S. borrowing costs remain at historic lows. Meanwhile, the austerity policies that were put into place in 2010 and after had exactly the depressing effects textbook economics predicted; the confidence fairy never did put in an appearance.

Yet there’s growing evidence that we critics actually underestimated just how destructive the turn to austerity would be. Specifically, it now looks as if austerity policies didn’t just impose short-term losses of jobs and output, but they also crippled long-run growth.

The idea that policies that depress the economy in the short run also inflict lasting damage is generally referred to as “hysteresis.” It’s an idea with an impressive pedigree: The case for hysteresis was made in a well-known 1986 paper by Olivier Blanchard, who later became the chief economist at the International Monetary Fund, and Lawrence Summers, who served as a top official in both the Clinton and the Obama administrations. But I think everyone was hesitant to apply the idea to the Great Recession, for fear of seeming excessively alarmist.

At this point, however, the evidence practically screams hysteresis. Even countries that seem to have largely recovered from the crisis, like the United States, are far poorer than precrisis projections suggested they would be at this point. And a new paper by Mr. Summers and Antonio Fatás, in addition to supporting other economists’ conclusion that the crisis seems to have done enormous long-run damage, shows that the downgrading of nations’ long-run prospects is strongly correlated with the amount of austerity they imposed.

What this suggests is that the turn to austerity had truly catastrophic effects, going far beyond the jobs and income lost in the first few years. In fact, the long-run damage suggested by the Fatás-Summers estimates is easily big enough to make austerity a self-defeating policy even in purely fiscal terms: Governments that slashed spending in the face of depression hurt their economies, and hence their future tax receipts, so much that even their debt will end up higher than it would have been without the cuts.

And the bitter irony of the story is that this catastrophic policy was undertaken in the name of long-run responsibility, that those who protested against the wrong turn were dismissed as feckless.

There are a few obvious lessons from this debacle. “All the important people say so” is not, it turns out, a good way to decide on policy; groupthink is no substitute for clear analysis. Also, calling for sacrifice (by other people, of course) doesn’t mean you’re tough-minded.

But will these lessons sink in? Past economic troubles, like the stagflation of the 1970s, led to widespread reconsideration of economic orthodoxy. But one striking aspect of the past few years has been how few people are willing to admit having been wrong about anything. It seems all too possible that the Very Serious People who cheered on disastrous policies will learn nothing from the experience. And that is, in its own way, as scary as the economic outlook.

 

La cupa eredità dell’austerità, di Paul Krugman

New York Times 6 novembre 2015

Quando scoppiò la crisi economica del 2008, le autorità fecero quello che in linea di massima era giusto. La Federal Reserve ed altre banche centrali compresero che sostenere il sistema finanziario aveva la precedenza sui concetti convenzionali della prudenza monetaria. La Amministrazione Obama e gli altri Governi compresero che in una economia in crisi i deficit di bilancio erano un aiuto, non un danno. Lo stampare denaro e il prenderlo a prestito funzionò: una riedizione della Grande Depressione, che a quel tempo pareva del tutto possibile, fu evitata.

Poi andò tutto storto. E le conseguenze della svolta negativa che prendemmo sembrano ora peggiori di quanto i critici più severi dell’orientamento convenzionale avevano mai immaginato.

Per coloro che non lo ricordano (è difficile credere quanto tutto questo sia durato a lungo): nel 2010, più o meno improvvisamente, le classi dirigenti della politica su entrambe le sponde dell’Atlantico decisero di smettere di preoccuparsi della disoccupazione e di cominciare, invece, a preoccuparsi dei deficit di bilancio.

Questa svolta non fu guidata da prove o da analisi scrupolose. Essa, di fatto, era proprio agli antipodi della teoria economica di base. Tuttavia, discorrere sui pericoli del deficit divenne qualcosa che facevano tutti perché non c’era nessuno che non lo facesse, e i dissenzienti non vennero più considerati rispettabili – la qualcosa spiega perché io cominciai a definire coloro ripetevano pappagallescamente l’ortodossia del momento come Persone Molto Serie.

Alcuni di noi cercarono di mettere in evidenza che il feticismo del deficit era sia avventato che distruttivo, che non c’era alcuna solida prova che il debito pubblico fosse un problema per le economie principali, mentre c’erano un sacco di prove che tagliare la spesa in un’economia depressa avrebbe approfondito la depressione.

E gli eventi ci diedero ragione. Sono passati più di quattro anni e mezzo dal momenti in cui Alan Simpson e Erskine Bowles [1] ammonirono su una crisi della finanza pubblica che sarebbe arrivata in due anni; i costi dell’indebitamento degli Stati Uniti restano ai minimi storici. Nel frattempo, le politiche dell’austerità che furono messe in atto nel 2010 e successivamente hanno avuto esattamente gli effetti che i libri di testo prevedevano; la ‘fata della fiducia’ non è mai apparsa.

Tuttavia, c’era una crescente evidenza che noi critici avevamo in effetti sottostimato quanto sarebbe stato distruttivo il passaggio all’austerità. In particolare, adesso sembra che le politiche dell’austerità non abbiano soltanto imposto perdite nel breve periodo di posti di lavoro e di produzione, ma abbiano anche compromesso le crescita nel lungo periodo.

Il concetto secondo il quale le politiche che deprimono l’economia nel breve periodo infliggono anche danni duraturi è generalmente riportato come “isteresi”. É un’idea che ha ascendenti di tutto rispetto: la tesi dell’isteresi venne avanzata in uno studio ben noto nel 1986 da Olivier Blanchard, che successivamente divenne capo economista al Fondo Monetario Internazionale, e da Lawrence Summers, che operò come massimo dirigente nelle amministrazioni Clinton ed Obama. Ma penso che tutti siano stati esitanti ad applicare tale idea alla Grande Recessione [2], nel timore di apparire eccessivamente allarmisti.

A questo punto, tuttavia, in sostanza le prove dell’isteresi sono assordanti. Persino i paesi che sembrano essersi ampiamente ripresi dalla crisi, come gli Stati Uniti, sono assai più poveri di quanto le stime precedenti alla crisi indicavano che sarebbero stati a questo punto. E un nuovo studio da parte di Summers e di Antonio Fatas, oltre a sostenere le conclusioni di altri economisti secondo le quali la crisi sembra aver fatto un enorme danno di lungo periodo, mostra che le prospettive a lungo termine della retrocessione delle nazioni è fortemente correlata con la quantità di austerità che esse hanno imposto.

Quello che questo suggerisce è che la svolta dell’austerità ha avuto veri e propri effetti catastrofici, andando assai oltre la perdita di posti di lavoro e di reddito dei primi anni. Di fatto, il danno di lungo periodo suggerito dalle stime di Fatas-Summers è probabilmente grande a sufficienza da rendere l’austerità auto-distruttiva persino in puri termini di finanza pubblica: i Governi che hanno abbattuto la spesa a fronte della depressione hanno colpito le loro economie, e di conseguenza le loro future entrate fiscali, a tal punto che anche i loro debiti finiranno coll’essere più alti di quello che sarebbero stati senza i tagli.

E l’amara ironia della storia è che questa politica catastrofica è stata assunta nel nome della responsabilità di lungo periodo, e che coloro che protestavano contro la svolta sbagliata vennero liquidati come inetti.

Ci sono, da questa disfatta, alcune evidenti lezioni. Si scopre che l’argomento secondo il quale “lo dicono tutte le persone importanti” non è un buon modo per prendere decisioni politiche; formarsi idee in modo conformista non è la stessa cosa che compiere chiare analisi. Inoltre, chieder sacrifici (da parte degli altri, ovviamente) non significa di per sé che si sta con i piedi per terra.

Ma queste lezioni verranno assimilate? I guai economici del passato, come la stagflazione degli anni ’70, portarono a complessive riconsiderazioni dell’ortodossia economica. Ma un aspetto sconcertante degli ultimi anni è stato il modesto numero di persone disponibili ad ammettere di aver avuto torto su qualcosa. Sembra anche troppo verosimile che le Persone Molto Serie che hanno fatto il tifo per politiche disastrose non impareranno niente dall’esperienza. E questo è allarmante, a suo modo, quanto le prospettive economiche.

 

[1] I due Copresidenti – repubblicano il primo e democratico il secondo – di una Commissione speciale del Congresso, alla quale lo stesso Presidente Obama aveva affidato notevoli speranze, per una politica bipartisan. Nei fatti, i due sostennero in sostanza un prospettiva di forti tagli alla spesa, e questo non fu per nulla sufficiente ad ottenere alcun ammorbidimento della opposizione repubblicana.

[2] Ricordiamo che per Grande Recessione si intende la crisi che scoppiò nel 2008, mentre la crisi degli anni ’30 viene definita Grande Depressione. Ciò dipende dal fatto che la ‘depressione’ ha, in termini tecnici, caratteristiche di gravità e di durata superiori alla ‘recessione’. Che la crisi più recente sia stata meno grave di quella degli anni ’30 è, però, sempre più discutibile, almeno in rapporto alla sua durata. L’impressione di una minore gravità, in effetti, deriva principalmente dal fatto che nel mondo contemporaneo esistono di norma ammortizzatori sociali della crisi che non esistevano 70/80 anni orsono.

 

 

 

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"