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La politica monetaria degli Stati Uniti si decide in Cina? di Barry Eichengreen (da Project Syndicate 9 novembre 2015)

 

NOV 9, 2015

Is US Monetary Policy Made in China?

Barry Eichengreen

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AMSTERDAM – For much of the year, investors have been fixated on when the Fed will achieve “liftoff” – that is, when it will raise interest rates by 25 basis points, or 0.25%, as a first step toward normalizing monetary conditions. Markets have soared and plummeted in response to small changes in Fed statements perceived as affecting the likelihood that liftoff is imminent.

But, in seeking to gauge changes in US monetary conditions, investors have been looking in the wrong place. Since mid-August, when Chinese policymakers startled the markets by devaluing the renminbi by 2%, China’s official intervention in foreign-exchange markets has continued, in order to prevent the currency from falling further. The Chinese authorities have been selling foreign securities, mainly United States Treasury bonds, and buying up renminbi.

This is the opposite of what China did when the renminbi was strong. Back then, China bought US Treasury bonds to keep the currency from rising and eroding the competitiveness of Chinese exporters. As a result, it accumulated an astounding $4 trillion of foreign reserves.

And what was true of China was also true of other emerging-market countries receiving capital inflows. These countries’ foreign reserves, mainly held in US securities, topped $8 trillion at their peak last year.

The effects of these purchases attracted considerable attention. In 2005, US Federal Reserve Chair Alan Greenspan pointed to the phenomenon as an explanation for his famous “conundrum”: interest rates on Treasury bonds were lower than market conditions appeared to warrant. His successor, Ben Bernanke, similarly pointed to purchases of US debt by foreign central banks and governments as a reason why American interest rates were so low.

Now this process has gone into reverse. Although no one outside official Chinese circles knows the exact magnitude of China’s foreign-exchange intervention, informed guesses suggest that it has been running at roughly $100 billion a month since mid-August. Observers believe that roughly 60% of China’s liquid reserves are in US Treasury bills. Given that reserve managers prefer to avoid unbalancing their carefully composed portfolios, they probably have been selling Treasuries at a rate of roughly $60 billion a month.

The effects are analogous – but opposite – to those of quantitative easing. Recall that the Fed began its third round of quantitative easing (QE3) by purchasing $40 billion of securities a month, before boosting the volume to $85 billion. Monthly sales of $60 billion by China’s government would lie squarely in the middle. Estimates of the effects of QE3 differ. But the weight of the evidence is that QE3 had a modest but significant downward impact on Treasury yields and a positive effect on demand for riskier assets.

Menzie Chinn of the University of Wisconsin has examined the impact of foreign purchases and sales of US government securities on ten-year Treasury yields. His estimates imply that foreign sales at a rate of $60 billion per month raise yields by ten basis points. Given that China has been at it for 2.5 months, this implies that the equivalent of a 25-basis-point increase in interest rates has already been injected into the market.

Some would object that the renminbi is weak because China is experiencing capital outflows by private investors, and that some of this private money also flows into US financial markets. This is technically correct, but it is already factored into the changes in interest rates described above. Recall that capital also flowed out of the US when the Fed was engaged in QE, without vitiating the effects. That was what the earlier debate over “currency wars” – when emerging markets complained about being inundated by financial inflows from the US – was all about.

Another objection is that QE operates not just through the so-called portfolio channel – by changing the mix of securities in the market – but also through the expectations channel. It signals that the authorities are seriously committed to making the future different from the past. But if Chinese intervention is just a one-off event, and there are no expectations of it continuing, then this second channel shouldn’t be operative, and the impact will be smaller than that of QE.

The problem is that no one knows how long capital outflows from China will persist or how long the Chinese authorities will continue to intervene. From this standpoint, the Fed’s decision to wait to begin liftoff is eminently sensible. And, given that China holds (and is therefore now selling) euros as well, the European Central Bank also should bear this in mind when it decides in December whether to ramp up its own program of quantitative easing.

 

 

La politica monetaria degli Stati Uniti si decide in Cina?

di Barry Eichengreen

AMSTERDAM – Per buona parte dell’anno, gli investitori si sono fissati su quando la Fed avrebbe realizzato il “decollo” – vale a dire, quando avrebbe elevato i tassi di interesse di 25 punti base, o dello 0,25 per cento, come primo passo verso la normalizzazione delle condizioni monetarie. I mercati sono schizzati in alto e caduti in basso in risposta a piccoli cambiamenti nelle dichiarazioni della Fed che venivano percepite attinenti alla probabilità che il decollo fosse imminente.

Ma, nel cercare di valutare i mutamenti nelle condizioni monetarie degli Stati Uniti, gli investitori guardavano nella direzione sbagliata. Dalla metà di agosto, quando le autorità cinesi hanno colto di sorpresa i mercati svalutando il renmimbi del 2%, l’intervento ufficiale della Cina nei mercati dei cambi esteri sono continuati, allo scopo di impedire che la valuta cadesse ulteriormente. Le autorità cinesi hanno venduto titoli stranieri, principalmente obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti, ed hanno fatto incetta di renmimbi.

Questo è l’opposto di quello che la Cina fece quando il renmimbi era forte. Allora la Cina acquistò obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti per impedire che la valuta si apprezzasse ed erodesse la competitività degli esportatori cinesi. Come risultato, essa accumulò la cifra strabiliante di 4 mila miliardi di dollari di riserve estere.

E quello che accadde in Cina fu vero anche per gli altri paesi dei mercati emergenti che sono destinatari di flussi di capitali. Le riserve estere di questi paesi, detenute principalmente in titoli statunitensi, l’anno passato hanno superato il livello più alto degli 8 mila miliardi di dollari.

Gli effetti di questi acquisti provocarono considerevole attenzione. Nel 2005, il Presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti Alan Greenspan indicò il fenomeno come una spiegazione per il suo famoso “rompicapo”: i tassi di interesse sui bond del Tesoro erano più bassi di quello che le condizioni del mercato sembravano giustificare. In modo simile, il suo successore Ben Bernanke indicò gli acquisti delle obbligazioni sul debito statunitense da parte delle banche centrali e dei Governi stranieri come una spiegazione dei bassi tassi di interesse americani.

Adesso questo processo è andato nel senso opposto. Sebbene nessuno fuori dagli ambienti ufficiali cinesi conosca l’esatta dimensione dell’intervento cinese sui cambi esteri, valutazioni informate indicano che esso sta procedendo, dalla metà di agosto, al ritmo di circa 100 miliardi di dollari al mese. Gli osservatori credono che grosso modo il 60% delle riserve liquide della Cina siano in buoni del Tesoro americano. Dato che gli operatori della riserve preferiscono evitare squilibri nei loro portafogli accuratamente bilanciati, essi probabilmente stanno vendendo buoni del Tesoro ad un ritmo di circa 60 miliardi di dollari al mese.

Gli effetti sono analoghi – ma opposti – a quelli della facilitazione quantitativa. Si ricordi che la Fed cominciò il suo terzo ciclo di facilitazione quantitativa (QE3) acquistando 40 miliardi di titoli al mese, prima di spingere il volume a 85 miliardi di dollari. Vendite mensili di 60 miliardi di dollari da parte del Governo cinese si collocherebbero esattamente nel mezzo. Le stime degli effetti della QE3 sono diverse. Ma alcune prove tangibili dicono che la QE3 ha avuto un impatto al ribasso, modesto ma significativo, sui rendimenti del Tesoro e un effetto positivo sulla domanda degli asset più rischiosi.

Menzie Chinn dell’Università del Wisconsin ha esaminato l’impatto degli acquisti e delle vendite dei titoli pubblici statunitensi sui rendimenti decennali dei buoni del Tesoro. Le sue stime comportano che le vendite straniere ad un ritmo di 60 miliardi di dollari al mese aumentano i rendimenti di dieci punti base. Dato che la Cina lo sta facendo da due mesi e mezzo, questo comporta che l’equivalente di una crescita di 25 punti base nei tassi di interesse è già stato iniettato nel mercato.

Alcuni obietteranno che il renmimbi è debole perché la Cina sta conoscendo flussi in uscita di capitali di investitori privati, e che alcuni di questi soldi di privati effettivamente fluiscono dentro i mercati finanziari degli Stati Uniti. Questo è tecnicamente corretto, ma è già ricompreso nei cambiamenti dei tassi di interesse descritti sopra. Si ricordi che il capitale fuoriuscì anche dagli Stati Uniti quando la Fed era impegnata nella facilitazione quantitativa, senza invalidarne gli effetti. Era a questo che si riferiva l’iniziale dibattito sulle “guerre valutarie”, quando i mercati emergenti si lamentavano per l’essere inondati dai flussi finanziari provenienti dagli Stati Uniti.

Un’altra obiezione è che la facilitazione quantitativa opera non solo attraverso il cosiddetto canale del portafoglio – modificando la combinazione dei titoli sul mercato – ma anche attraverso il canale delle aspettative. Essa segnala che le autorità sono seriamente impegnate a rendere il futuro diverso dal passato. Ma se l’intervento cinese è solo un evento unico e non ci sono aspettative di una sua continuazione, allora questo secondo canale non dovrebbe essere operativo, e l’impatto sarà più piccolo di quello della facilitazione quantitativa.

Il problema è che nessuno sa quanto a lungo i flussi di capitali in uscita dalla Cina proseguiranno, o per quanto le autorità cinesi continueranno ad intervenire. Da questo punto di vista, la decisione della Fed di aspettare ad avviare il ‘decollo’ è assolutamente ragionevole. E, dato che la Cina detiene (e sta di conseguenza adesso vendendo) anche euro, la Banca Centrale Europea dovrebbe tenerlo a mente quando, a dicembre, deciderà se incrementare il suo stesso programma di facilitazione quantitativa.

 

 

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