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L’Europa che non è pronta, di Paul Krugman (New York Times 27 novembre 2015)

 

Europe the Unready

NOV. 27, 2015

Paul Krugman

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Thanksgiving as we know it dates not to colonial days but to the middle of the Civil War, when Abraham Lincoln made it a federal holiday. It is, in other words, a celebration of national unity. And our national unity is indeed something to be thankful for.

To see why, consider the slow-motion disaster now overtaking the European project on multiple fronts.

For those not familiar with the term, the “European project” has a very specific meaning. It refers to the long-term effort to foster a peaceful, prosperous Europe through ever-closer economic and social integration, an effort that began more than 60 years ago with the formation of the Coal and Steel Community.

The effort continued with the creation of the Common Market in 1959; the expansion of that market to include newly democratic nations in southern Europe; the Single European Act, assuring free movement of people as well as goods; further extension of the European Union to former Communist nations; the Schengen agreement, which removed many border controls within the continent; and, of course, the creation of a common European currency.

One way to think about all these moves is that they were attempts to give Europe many of the attributes of a single nation without formal political union — at least not yet. The more or less explicit hope of many in the European elite was that technical and economic integration would gradually foster psychological unification, and eventually pave the way for a United States of Europe.

And for a long time the project worked very well, as Europe grew steadily more prosperous, peaceful, and free. But how would the process deal with setbacks? After all, the European project was creating ever-growing interdependence without creating either the institutions or, despite elite hopes, the sense of political legitimacy that would be needed to manage that interdependence if things went wrong.

Which brings me to the disasters.

At first sight, the financial crisis, the refugee crisis, and the terrorist attacks might not seem to have anything in common. But in each case Europe’s ability to protect itself turns out to have been undermined by its imperfect union.

On the financial crisis: There’s widespread consensus among economists (though not, alas, among politicians) that Europe’s woes were mainly caused by mood swings among private investors, who recklessly poured money into southern Europe after the creation of the euro, then abruptly reversed course a decade later. Yet something similar happened in America, too, where money first poured into mortgage lending in the “sand states” — Florida, Arizona, Nevada, California — then took flight. In the U.S., however, the pain of that reversal was limited by federal institutions, ranging from Social Security to deposit insurance. In Europe, unfortunately, the cost of bank bailouts and much more fell on national governments, so that private-sector overreach soon spilled over into fiscal crisis.

On refugees: the politics of immigration in general, and refugees in particular, are nasty everywhere — just listen to Donald Trump or Ted Cruz. But Europe is also trying to maintain open internal borders while leaving the management of external borders to national governments like that of impoverished, austerity-ravaged Greece. No wonder, then, that border controls are making a comeback.

And on terrorism: No free society can ever be perfectly secure from attack. But think about how much harder it gets when antiterrorism is pretty much left up to national governments, whose capacity for policing varies greatly. Imagine how New Yorkers would feel if political paralysis in New Jersey were getting in the way of any effective antiterrorist policy there, and you have a good idea of the problems Belgium has created for France.

Ideally, Europe would respond to these setbacks by strengthening its union, creating more of the institutions it needs to manage interdependence. But the political will for that kind of move forward seems lacking, even for the most obvious steps. For example, on Tuesday the European Commission proposed the gradual phase-in of a Europe-wide system of deposit insurance, which is the bare minimum needed to maintain stable banks within a currency union. Yet the plan faces furious opposition within Germany, which sees it as a giveaway to its spendthrift neighbors.

The alternative is to take a step back, which is already happening on border controls. European leaders are, rightly, concerned that each such move damages the whole European project. But what is the realistic alternative?

The truth is that I don’t know the answer. I’m just thankful that America has the kind of unity Europe can only dream of — at least for now. I guess we’ll see what’s left after President Trump gets done with it.

 

 

 

L’Europa che non è pronta, di Paul Krugman

New York Times 27 novembre 2015

La “Festa del Ringraziamento”, come sappiamo, non risale al periodo coloniale ma alla metà della Guerra Civile, quando Abraham Lincoln ne fece una festività federale. In altre parole, essa è una celebrazione dell’unità nazionale. E la nostra unità nazionale è, in effetti, qualcosa di cui essere grati.

Per capire perché, si consideri il disastro al rallentatore che adesso colpisce su molti fronti il progetto europeo.

Per coloro per i quali il termine non è familiare, il “progetto europeo” ha un significato molto particolare. Si riferisce allo sforzo a lungo termine per promuovere un’Europa pacifica e prospera attraverso una integrazione economica e sociale sempre più stretta, uno sforzo che cominciò 60 anni fa con la formazione della Comunità del Carbone e dell’Acciaio.

Lo sforzo continuò con la creazione del Mercato Comune nel 1959; con l’espansione di quel mercato sino a includere le nazioni di nuova democrazia nell’Europa meridionale; con l’Atto Unico Europeo, che assicurò la libertà di movimento delle persone come dei beni; con l’ulteriore estensione dell’Unione Europea ai passati paesi comunisti; con l’accordo di Schengen, che eliminò molti controlli ai confini all’interno del continente e, naturalmente, con la creazione di una moneta comune europea.

Si possono considerare tutte queste iniziative come dei tentativi di dare all’Europa molti degli attributi di una nazione singola, senza una formale unione politica – almeno non ancora. La speranza più o meno esplicita di molti, all’interno dei gruppi dirigenti europei, fu che una integrazione tecnica ed economica gradualmente promuovesse una unificazione psicologica, e alla fine preparasse la strada per gli Stati Uniti d’Europa.

E per molto tempo il progetto funzionò egregiamente, dato che l’Europa crebbe prospera, pacifica e libera. Ma come si sarebbe misurato quel progetto con le battute d’arresto? Dopo tutto, il progetto europeo stava creando un’interdipendenza sempre crescente senza creare né le istituzioni, né, a dispetto delle speranze delle classi dirigenti, il senso di legittimazione politica che sarebbe necessario per gestire l’interdipendenza quando le cose non funzionano.

Ed è questo che mi conduce ai disastri del presente.

A prima vista, la crisi finanziaria, la crisi dei rifugiati e gli attacchi terroristi non sembrano avere niente in comune. Ma in tutti quei casi si scopre che l’incapacità dell’Europa di proteggere se stessa è stata indebolita dalla sua unione imperfetta.

Sulla crisi finanziaria: c’è un ampio consenso tra gli economisti (sebbene, ahimè, non tra gli uomini politici) che i guai dell’Europa sono stati principalmente provocati dalle oscillazioni degli umori tra gli investitori privati, che riversarono incoscientemente capitali nell’Europa meridionale dopo la creazione dell’euro, e poi all’improvviso cambiarono indirizzo un decennio dopo. Tuttavia una cosa del genere accadde anche in America, dove il denaro venne all’inizio riversato nei mutui dati in prestito negli “Stati delle regioni sabbiose” [1] – Florida, Arizona, Nevada, California – e poi presero il volo. Negli Stati Uniti, tuttavia, le sofferenza di quel capovolgimento furono limitate dalle istituzioni federali, che spaziano dalla Previdenza Sociale alla assicurazione sui depositi bancari. In Europa, sfortunatamente, il costo dei salvataggi delle banche e di molto altro ricadde sui Governi nazionali, cosicché gli eccessi del settore privato presto strariparono in una crisi delle finanze pubbliche.

Sui rifugiati: la politica dell’immigrazione in generale, e dei rifugiati in particolare, è difficile dappertutto – basta ascoltare Donald Trump o Ted Cruz. Ma l’Europa sta anche cercando di mantenere aperti i confini interni mentre lascia la gestione dei confini esterni ai Governi nazionali, come quello impoverito e devastato dall’austerità della Grecia. Non c’è da stupirsi, dunque, se i controlli ai confini stanno tornando in auge.

Infine sul terrorismo: nessuna società libera potrà mai essere completamente sicura da un attacco. Ma si pensi a come ciò diventi più difficile quando il contrasto del terrorismo viene un buona parte lasciato ai governi nazionali, la cui capacità di vigilanza varia grandemente. Si pensi a come i newyorkesi si sentirebbero se la paralisi politica nel New Jersey ostacolasse in quello Stato ogni efficace politica antiterrorista e si avrà una buona idea dei problemi che il Belgio ha creato alla Francia.

In teoria, l’Europa risponderebbe a questi impedimenti, se realizzasse un numero maggiori degli istituti di cui ha bisogno per gestire l’interdipendenza. Ma la volontà politica per quel genere di progresso sembra mancare, anche nel caso delle iniziative più ovvie. Ad esempio, martedì la Commissione Europea ha proposto il graduale utilizzo di un sistema di assicurazione sui depositi sull’intera Europa, che è il minimo necessario richiesto per mantenere le banche stabili all’interno di un’unione valutaria. Tuttavia il programma deve fare i conti con un’opposizione furiosa all’interno della Germania, che lo vede come un regalo ai suoi vicini spendaccioni.

L’alternativa è fare un passo indietro, che è quanto sta già avvenendo sui controlli alle frontiere. I dirigenti europei sono giustamente preoccupati che ogni iniziativa del genere danneggi l’intero progetto europeo. Ma qual è l’alternativa realistica?

La verità è che io non conosco la risposta. Sono solo grato che l’America abbia quel genere di unità che l’Europa, almeno per adesso, può solo sognarsi. Suppongo che vedremo cosa resterà di tutto ciò, dopo che il Presidente Trump l’avrà fatta finita una volta per tutte.

 

[1] Arizona, California, Florida e Nevada sono caratterizzate dalla presenza di spiagge e di aree desertiche. Sono gli Stati che sono stati interessati prima del 2008 dalla bolla immobiliare.

 

 

 

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