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Fare il bis di George Bush, di Paul Krugman (New York Times 28 dicembre 2015)

 

Doubling Down on W

Paul KrugmanDEC. 28, 2015

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2015 was, of course, the year of Donald Trump, whose rise has inspired horror among establishment Republicans and, let’s face it, glee — call it Trumpenfreude — among many Democrats. But Trumpism has in one way worked to the G.O.P. establishment’s advantage: it has distracted pundits and the press from the hard right turn even conventional Republican candidates have taken, a turn whose radicalism would have seemed implausible not long ago.

After all, you might have expected the debacle of George W. Bush’s presidency — a debacle not just for the nation, but for the Republican Party, which saw Democrats both take the White House and achieve some major parts of their agenda — to inspire some reconsideration of W-type policies. What we’ve seen instead is a doubling down, a determination to take whatever didn’t work from 2001 to 2008 and do it again, in a more extreme form.

Start with the example that’s easiest to quantify, tax cuts.

Big tax cuts tilted toward the wealthy were the Bush administration’s signature domestic policy. They were sold at the time as fiscally responsible, a matter of giving back part of the budget surplus America was running when W took office. (Alan Greenspan infamously argued that tax cuts were needed to avoid paying off federal debt too fast.) Since then, however, over-the-top warnings about the evils of debt and deficits have become a routine part of Republican rhetoric; and even conservatives occasionally admit that soaring inequality is a problem.

Moreover, it’s harder than ever to claim that tax cuts are the key to prosperity. At this point the private sector has added more than twice as many jobs under President Obama as it did over the corresponding period under W, a period that doesn’t include the Great Recession.

You might think, then, that Bush-style tax cuts would be out of favor. In fact, however, establishment candidates like Marco Rubio and Jeb Bush are proposing much bigger tax cuts than W ever did. And independent analysis of Jeb’s proposal shows that it’s even more tilted toward the wealthy than anything his brother did.

What about other economic policies? The Bush administration’s determination to dismantle any restraints on banks — at one staged event, a top official used a chain saw on stacks of regulations — looks remarkably bad in retrospect. But conservatives have bought into the thoroughly debunked narrative that government somehow caused the Great Recession, and all of the Republican candidates have declared their determination to repeal Dodd-Frank, the fairly modest set of regulations imposed after the financial crisis.

The only real move away from W-era economic ideology has been on monetary policy, and it has been a move toward right-wing fantasyland. True, Ted Cruz is alone among the top contenders in calling explicitly for a return to the gold standard — you could say that he wants to Cruzify mankind upon a cross of gold. (Sorry.) But where the Bush administration once endorsed “aggressive monetary policy” to fight recessions, these days hostility toward the Fed’s efforts to help the economy is G.O.P. orthodoxy, even though the right’s warnings about imminent inflation have been wrong again and again.

Last but not least, there’s foreign policy. You might have imagined that the story of the Iraq war, where we were not, in fact, welcomed as liberators, where a vast expenditure of blood and treasure left the Middle East less stable than before, would inspire some caution about military force as the policy of first resort. Yet swagger-and-bomb posturing is more or less universal among the leading candidates. And let’s not forget that back when Jeb Bush was considered the front-runner, he assembled a foreign-policy team literally dominated by the architects of debacle in Iraq.

The point is that while the mainstream contenders may have better manners than Mr. Trump or the widely loathed Mr. Cruz, when you get to substance it becomes clear that all of them are frighteningly radical, and that none of them seem to have learned anything from past disasters.

Why does this matter? Right now conventional wisdom, as captured by the bookies and the betting markets, suggests even or better-than-even odds that Mr. Trump or Mr. Cruz will be the nominee, in which case everyone will be aware of the candidate’s extremism. But there’s still a substantial chance that the outsiders will falter and someone less obviously out there — probably Mr. Rubio — will end up on top.

And if this happens, it will be important to realize that not being Donald Trump doesn’t make someone a moderate, or even halfway reasonable. The truth is that there are no moderates in the Republican primary, and being reasonable appears to be a disqualifying characteristic for anyone seeking the party’s nod.

 

 

Fare il bis di George Bush [1], di Paul Krugman

New York Times 28 dicembre 2015

Il 2015 è stato, naturalmente, l’anno di Donald Trump, la cui ascesa ha inorridito il gruppo dirigente repubblicano e, ammettiamolo, rallegrato molti democratici (chiamatela Trumpenfreude [2]). Ma il trumpismo in un certo senso ha avvantaggiato il gruppo dirigente repubblicano; ha distratto i commentatori e la stampa dalla svolta a destra che persino i candidati convenzionali repubblicani hanno operato, una svolta il cui radicalismo, non molto tempo fa, sarebbe apparso inconcepibile.

Dopo tutto, vi sareste aspettati che la debacle della Presidenza di George W. Bush – una debacle non solo per la nazione, ma per il Partito Repubblicano, che si ritrovò con i democratici che non solo conquistarono la Casa Bianca, ma realizzarono alcune parti importanti del loro programma – provocasse qualche riconsiderazione sulle politiche di George Bush. Quello che abbiamo visto è stato invece un raddoppio, una determinazione a far proprie tutte le cose che andarono storte dal 2001 al 2008 ed a rifarle, in una forma più estrema.

Cominciamo con l’esempio che è più semplice esprimere materialmente, gli sgravi fiscali.

I grandi sgravi fiscali a vantaggio dei ricchi furono la politica distintiva interna della Amministrazione Bush. A quel tempo venne rivenduta come una politica finanziariamente responsabile, un modo per restituire una parte dell’avanzo di amministrazione che l’America amministrava quando Bush entrò in carica (Alan Greenspan sostenne in modo scellerato che gli sgravi fiscali erano necessari per evitare di ripagare il debito federale troppo velocemente). Da allora, tuttavia, gli ammonimenti fuori luogo sui mali del debito e dei deficit sono diventati un aspetto consueto delle retorica repubblicana; e persino i conservatori di tanto in tanto ammettono che la crescente ineguaglianza è un problema.

Inoltre, è quanto mai difficile sostenere che gli sgravi fiscali sono la chiave per la prosperità. A questo punto il settore privato ha aumentato, sotto il Presidente Obama, più del doppio i posti di lavoro che aveva realizzato durante il periodo di Bush, un periodo che non include la Grande Recessione.

Potreste allora pensare che gli sgravi fiscali sarebbero una disgrazia. Di fatto, tuttavia, i candidati del gruppo dirigente come Marco Rubio e Jeb Bush stanno proponendo sgravi fiscali molto più grandi di quelli che furono mai attuati da Bush. Ed una analisi indipendente delle proposte di Jeb mostra che essi sarebbero persino più orientati verso i ricchi, di tutto quello che fece suo fratello.

Che dire delle altre politiche economiche? La determinazione con la quale l’Amministrazione Bush smantellò ogni limitazione sulle banche – in occasione di un evento che venne allestito, un alto dirigente utilizzò una motosega su una catasta di regolamenti – retrospettivamente appare considerevolmente negativa. Ma i conservatori hanno fatto proprio il racconto assolutamente ridicolo secondo il quale fu il Governo in qualche modo a provocare la Grande Recessione, e tutti i candidati repubblicani hanno dichiarato la loro ferma volontà di abrogare la legge Dodd-Frank, il complesso abbastanza modesto di regolamenti che venne imposto dopo la crisi finanziaria.

L’unico reale spostamento dall’ideologia economia dell’epoca di Bush è stato sulla politica monetaria, ed è stato uno spostamento verso la Fantasilandia della destra estrema. É vero, Ted Cruz è il solo, tra i principali contendenti, a pronunciarsi esplicitamente per un ritorno al gold standard – si direbbe che voglia “crocifiggere” l’umanità ad un croce d’oro (perdonate l’espressione) [3]. Ma mentre a suo tempo l’Amministrazione Bush appoggiava una “politica monetaria aggressiva” per combattere le recessioni, di questi tempi l’ortodossia del Partito Repubblicano si esprime nell’ostilità verso gli sforzi della Fed per aiutare l’economia, anche se gli ammonimenti della destra su una inflazione imminente sono risultati in continuazione sbagliati.

Da ultimo ma non per ultimo, c’è la politica estera. Vi sareste immaginati che la storia della guerra dell’Iraq, dove di fatto non venimmo accolti come liberatori, dove un enorme esborso di sangue e di ricchezza lasciò il Medio Oriente più instabile che in precedenza, avesse consigliato qualche cautela sulla politica della forza militare come prima risorsa. Tuttavia le pose da spacconi facili ai bombardamenti sono più o meno incontrastate tra i principali candidati. E non si dimentichi che, quando tempo fa Jeb Bush veniva considerato favorito, egli mise assieme una squadra di politica estera letteralmente dominata dagli architetti delle debacle in Iraq.

Il punto è che mentre i contendenti convenzionali possono avere migliori maniere del signor Trump o dell’ampiamente detestato Cruz, quando si va alla sostanza diviene chiaro che tutti loro sono spaventosamente estremisti, e nessuno di loro sembra aver imparato niente dai disastri del passato.

Perché questo è importante? In questo momento l’opinione prevalente, come viene rappresentata dai mercati degli allibratori e delle scommesse, arriva persino ad indicare la probabilità, mai così forte, che la nomina vada a Trump o a Cruz, nel qual caso tutti saranno consapevoli dell’estremismo del candidato. Ma c’è ancora una possibilità sostanziale che coloro che sono fuori dal gruppo dirigente vacillino e che qualcuno che è meno evidentemente estraneo – probabilmente Rubio – finisca in cima.

E se questo accadrà, sarà importante comprendere che il fatto di non essere Donald Trump non rende qualcuno un moderato, o persino minimamente ragionevole. La verità è che non c’è alcun moderato nelle primarie repubblicane, e la ragionevolezza è una caratteristica compromettente per chiunque cerchi il consenso del Partito.

 

 

[1] “W” sta per George William Bush. Dunque, raddoppiare, ripetere la sua politica.

[2] “Freude” dal tedesco: gioia, allegrezza, piacere. Ovvero, la gioia un po’ cinica per il fenomeno Trump, che potrebbe rendere più semplice la partita per i Democratici.

[3] L’espressione “crocifiggere l’umanità su una croce d’oro’ venne utilizzata dal candidato democratico William Jennings Bryan nel 1896, nell’epoca in cui infuocava un acceso dibattito politico sull’uso del solo oro od anche e soprattutto dell’argento nella politica monetaria. Bryan era il portavoce di uno schieramento populista-agrario che chiedeva la seconda soluzione, ed ebbe successo negli Stati del Sud e dell’Ovest, ma fu sconfitto negli Stati più popolosi del Nord e dell’Est, che permisero la vittoria del candidato repubblicano William McKinley.

Adesso la frase famosa viene messa in bocca a Ted Cruz, con un inelegante gioco di parole sul cognome dell’attuale candidato repubblicano, che Krugman non sa trattenere ma per il quale chiede venia.

 

 

 

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