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‘Il Donald’ e il Decisionista, di Paul Krugman (New York Times 21 dicembre 2015)

 

The Donald and the Decider

Paul KrugmanDEC. 21, 2015

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Almost six months have passed since Donald Trump overtook Jeb Bush in polls of Republican voters. At the time, most pundits dismissed the Trump phenomenon as a blip, predicting that voters would soon return to more conventional candidates. Instead, however, his lead just kept widening. Even more striking, the triumvirate of trash-talk — Mr. Trump, Ben Carson, and Ted Cruz — now commands the support of roughly 60 percent of the primary electorate.

But how can this be happening? After all, the antiestablishment candidates now dominating the field, aside from being deeply ignorant about policy, have a habit of making false claims, then refusing to acknowledge error. Why don’t Republican voters seem to care?

Well, part of the answer has to be that the party taught them not to care. Bluster and belligerence as substitutes for analysis, disdain for any kind of measured response, dismissal of inconvenient facts reported by the “liberal media” didn’t suddenly arrive on the Republican scene last summer. On the contrary, they have long been key elements of the party brand. So how are voters supposed to know where to draw the line?

Let’s talk first about the legacy of He Who Must Not Be Named.

I don’t know how many readers remember the 2000 election, but during the campaign Republicans tried — largely successfully — to make the election about likability, not policy. George W. Bush was supposed to get your vote because he was someone you’d enjoy having a beer with, unlike that stiff, boring guy Al Gore with all his facts and figures.

And when Mr. Gore tried to talk about policy differences, Mr. Bush responded not on the substance but by mocking his opponent’s “fuzzy math” — a phrase gleefully picked up by his supporters. The press corps played right along with this deliberate dumbing-down: Mr. Gore was deemed to have lost debates, not because he was wrong, but because he was, reporters declared, snooty and superior, unlike the affably dishonest W.

Then came 9/11, and the affable guy was repackaged as a war leader. But the repackaging was never framed in terms of substantive arguments over foreign policy. Instead, Mr. Bush and his handlers sold swagger. He was the man you could trust to keep us safe because he talked tough and dressed up as a fighter pilot. He proudly declared that he was the “decider” — and that he made his decisions based on his “gut.”

The subtext was that real leaders don’t waste time on hard thinking, that listening to experts is a sign of weakness, that attitude is all you need. And while Mr. Bush’s debacles in Iraq and New Orleans eventually ended America’s faith in his personal gut, the elevation of attitude over analysis only tightened its grip on his party, an evolution highlighted when John McCain, who once upon a time had a reputation for policy independence, chose the eminently unqualified Sarah Palin as his running mate.

So Donald Trump as a political phenomenon is very much in a line of succession that runs from W. through Mrs. Palin, and in many ways he’s entirely representative of the Republican mainstream. For example, were you shocked when Mr. Trump revealed his admiration for Vladimir Putin? He was only articulating a feeling that was already widespread in his party.

Meanwhile, what do the establishment candidates have to offer as an alternative? On policy substance, not much. Remember, back when he was the presumed front-runner, Jeb Bush assembled a team of foreign-policy “experts,” people who had academic credentials and chairs at right-wing think tanks. But the team was dominated by neoconservative hard-liners, people committed, despite past failures, to the belief that shock and awe solve all problems.

In other words, Mr. Bush wasn’t articulating a notably different policy than what we’re now hearing from Trump et al; all he offered was belligerence with a thin veneer of respectability. Marco Rubio, who has succeeded him as the establishment favorite, is much the same, with a few added evasions. Why should anyone be surprised to see this posturing, er, trumped by the unapologetic belligerence offered by nonestablishment candidates?

In case you’re wondering, nothing like this process has happened on the Democratic side. When Hillary Clinton and Bernie Sanders debate, say, financial regulation, it’s a real discussion, with both candidates evidently well informed about the issues. American political discourse as a whole hasn’t been dumbed down, just its conservative wing.

Going back to Republicans, does this mean that Mr. Trump will actually be the nominee? I have no idea. But it’s important to realize that he isn’t someone who suddenly intruded into Republican politics from an alternative universe. He, or someone like him, is where the party has been headed for a long time.

 

 

‘Il Donald’ e il Decisionista [1], di Paul Krugman

New York Times 21 dicembre 2015

Sono passati quasi sei mesi da quando Donald Trump superò Jeb Bush nei sondaggi tra gli elettori repubblicani. A quel tempo, la maggioranza dei commentatori liquidarono il fenomeno Trump come un contrattempo, prevedendo che gli elettori sarebbero presto tornati a candidati più convenzionali. Ma invece il suo vantaggio si sta proprio allargando. Ancora più impressionante, il triumvirato degli ‘sproloqui’ – il signor Trump, Ben Carson e Ted Cruz – ora dispone del sostegno di circa il 60 per cento dell’elettorato delle primarie.

Ma come è possibile che stia succedendo? In fin dei conti, i candidati contro il gruppo dirigente che adesso dominano il campo, a parte l’essere profondamente ignoranti di politica, hanno l’abitudine di sostenere argomenti falsi, rifiutandosi poi di riconoscere i loro sbagli. Perché gli elettori repubblicani non sembrano curarsene?

Ebbene, in parte la risposta consiste nel fatto che il Partito gli ha insegnato a non curarsene. Smargiassate ed aggressività come sostituti della analisi, disprezzo per ogni genere di risposta misurata, rigetto dei fatti imbarazzanti pubblicati nei resoconti dei “media progressisti” non sono comparsi all’improvviso, l’estate scorsa, sulla scena repubblicana. Al contrario, sono stati da lungo tempo elementi chiave del marchio repubblicano. Come si pensa, dunque, che gli elettori repubblicani traccino una linea di demarcazione?

Partiamo anzitutto dall’eredità di “Colui Che Non Deve Essere Chiamato per Cognome” [2].

Io non so quanti lettori ricordino le elezioni del 2000, ma durante quella campagna i repubblicani provarono – in gran parte con successo – di puntare sulla affabilità, non sulla politica. Si pensava che George W. Bush ottenesse la vostra preferenza perché era un tizio con il quale vi sareste bevuti una birra assieme, anziché quell’individuo rigido e noioso di Al Gore, con tutti i suoi fatti ed i suoi numeri.

E quando il signor Gore cercava di parlare sulle differenze politiche, Bush non rispondeva sul merito ma prendeva in giro la “matematica sconclusionata” del suo avversario – una frase che venne raccolta con entusiasmo dai suoi sostenitori. Gli organi di stampa sfruttarono in ogni modo questa deliberata banalizzazione; Gore era destinato ad uscire sconfitto da ogni confronto, non perché avesse torto, ma perché, dichiaravano i giornalisti, era altezzoso e borioso, diversamente dall’affabilmente disonesto W.

Poi venne l’11 settembre, e l’affabile individuo venne riconfezionato come un leader di guerra. Ma il riconfezionamento non venne mai impostato nei termini di argomenti sostanziali di politica estera. Piuttosto, il signor Bush ed i suoi addetti si facevano passare come spacconi. Egli era l’uomo che si poteva credere ci avrebbe tenuti in sicurezza, dato che parlava con durezza e vestiva come un pilota da combattimento. Dichiarava orgogliosamente di essere un ‘decisionista’ e di aver preso le sue decisioni basandosi sul suo ‘istinto’.

Il sottotitolo era che gli uomini veri non sprecano il loro tempo con pensieri complicati, che ascoltare gli esperti è un segno di debolezza, tutto quello che vi serve è una mentalità. E se le debacle di Bush in Iraq e a New Orleans alla fine esaurirono la fiducia dell’America sul suo personale istinto, il collocare la mentalità sopra l’analisi semplicemente rese più stretta la sua presa sul Partito, una evoluzione che venne messa in evidenza allorché John McCain, che nel passato aveva avuto una reputazione di indipendenza politica, scelse come sua vice alle elezioni presidenziali la assolutamente incompetente Sarah Palin.

Dunque, il fenomeno Trump è del tutto in linea con la successione di fatti che corre da W. [3] passando per la signora Palin, e in svariati sensi egli è interamente rappresentativo dell’orientamento prevalente repubblicano. Per esempio, siete rimasti sorpresi quando Trump ha rivelato la sua ammirazione per Vladimir Putin? Egli stava soltanto rendendo esplicito un sentimento che era già generalizzato nel suo partito.

Nel frattempo, cosa fanno i candidati del gruppo dirigente per presentarsi come alternativa? Nella sostanza politica, non molto. Si ricordi, quando era il presunto candidato favorito, che Jeb Bush aveva messo assieme come squadra di ‘esperti’ di politica estera, gente che aveva credenziali accademiche e poltrone nelle fondazioni di ricerca della destra. Sennonché la squadra era dominata da integralisti neoconservatori, individui dediti, nonostante i fallimenti passati, alla fede che la tecnica del “colpire e terrorizzare” sia la soluzione di tutti i problemi.

In altre parole, il signor Bush non stava rendendo esplicita una politica considerevolmente diversa da quella che oggi viene affermata da Trump e compagni: tutto quello che egli offriva era una aggressività con una sottile patina di rispettabilità. Marco Rubio, che gli ha fatto seguito come il favorito del gruppo dirigente, è in gran parte la stessa cosa, con in più poche variazioni sul tema. Perché si dovrebbe essere sorpresi nel constatare che queste posizioni sono surclassate dalla belligeranza impenitente offerta dai candidati che non godono dell’appoggio del gruppo dirigente?

Nel caso ve lo stiate chiedendo, niente di simile è successo sul versante dei democratici. Quando Hillary Clinton e Bernie Sanders discutono, diciamo, di regolamentazione del sistema finanziario, si tratta di un dibattito vero, con entrambi i candidati evidentemente ben preparati sulle questioni. Non è l’intero dibattito politico americano che si è banalizzato, soltanto la sua ala conservatrice.

Tornando ai repubblicani, tutto questo comporta che il signor Trump sarà effettivamente prescelto? Non ne ho idea. Ma è importante capire che egli non è qualcuno che all’improvviso si è intrufolato nella politica americana come provenisse da un altro mondo. Lui, o qualcuno come lui, è dove il Partito era diretto da lungo tempo.

 

[1] “The Donald” pare il modo in cui ci si rivolge a Trump, soprattutto da parte della base repubblicana (penso come a dire ‘uno di noi’). Il Decisionista, dal testo dell’articolo, dovrebbe essere George Bush, che si definiva come ‘quello che decide’.

[2] Ovvero, di Jeb Bush. Il quale, dovendo sopportare l’inconveniente dello stesso cognome del fratello, nel complesso non più molto amato dagli americani, si è presentato con la sigla elettorale “JEB !”, a significare che solo il suo nome contava, e del cognome si poteva benissimo farne a meno.

[3] Ovvero, George W. Bush.

 

 

 

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