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Prezzi del petrolio e crescita globale, di Kenneth Rogoff (da Project Syndicate, 14 dicembre 2015)

 

DEC 14, 2015 2

Oil Prices and Global Growth

Kenneth Rogoff

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CAMBRIDGE – One of the biggest economic surprises of 2015 is that the stunning drop in global oil prices did not deliver a bigger boost to global growth. Despite the collapse in prices, from over $115 per barrel in June 2014 to $45 at the end of November 2015, most macroeconomic models suggest that the impact on global growth has been less than expected – perhaps 0.5% of global GDP.

The good news is that this welcome but modest effect on growth probably will not die out in 2016. The bad news is that low prices will place even greater strains on the main oil-exporting countries.

The recent decline in oil prices is on par with the supply-driven drop in 1985-1986, when OPEC members (read: Saudi Arabia) decided to reverse supply cuts to regain market share. It is also comparable to the demand-driven collapse in 2008-2009, following the global financial crisis. To the extent that demand factors drive an oil-price drop, one would not expect a major positive impact; the oil price is more of an automatic stabilizer than an exogenous force driving the global economy. Supply shocks, on the other hand, ought to have a significant positive impact.

Although parsing the 2014-2015 oil-price shock is not as straightforward as in the two previous episodes, the driving forces seem to be roughly evenly split between demand and supply factors. Certainly, a slowing China that is rebalancing toward domestic consumption has put a damper on all global commodity prices, with metal indices also falling sharply in 2015. (Gold prices, for example, at $1,050 per ounce at the end of November, are far off their peak of nearly $1,890 in September 2011, and copper prices have fallen almost as much since 2011.)

New sources of oil supply, however, have been at least as important. Thanks to the shale-energy revolution, American oil production has risen from five million barrels per day in 2008 to 9.3 million barrels in 2015, a supply boom that has so far persisted, despite the price collapse. Anticipation of post-sanctions Iranian oil production has also affected markets.

A decline in oil prices is to some extent a zero-sum game, with producers losing and consumers gaining. The usual thinking is that lower prices stimulate global demand, because consumers are likely to spend most of the windfall, whereas producers typically adjust by cutting back savings.

In 2015, though, this behavioral difference has been less pronounced than usual. One reason is that emerging-market energy importers have a much larger global economic footprint than they did in the 1980s, and their approach to oil markets is much more interventionist than in the advanced countries.

Countries such as India and China stabilize retail energy markets through government-financed subsidies to keep price down for consumers. The costs of these subsidies had become quite massive as oil prices peaked, and many countries were already looking hard for ways to cut back. Thus, as oil prices have fallen, emerging-market governments have taken advantage of the opportunity to reduce the fiscal subsidies.

At the same time, many oil exporters are being forced to scale back expenditure plans in the face of sharply falling revenues. Even Saudi Arabia, despite its vast oil and financial reserves, has come under strain, owing to a rapidly rising population and higher military spending associated with conflicts in the Middle East.

The muted effect of oil prices on global growth should not have come as a complete surprise. Academic research has been pointing in this direction for a long time. Oil is now thought to be less of an independent driver of business cycles than was previously believed. Also restraining growth is a sharp decline in energy-related investment. After years of rapid growth, global investment in oil production and exploration has fallen by $150 billion dollars in 2015. Eventually, this will feed back into prices, but only slowly and gradually: Futures markets have oil prices rising to $60 per barrel only by 2020.

The good news for 2016 is that most macroeconomic models suggest that the impact of lower oil prices on growth tends to stretch out for a couple years. Thus, low prices should continue to support growth, even if emerging-market importers continue to use the savings to cut subsidies.

For oil producers, though, the risks are rising. Only a couple – notably governance-challenged Venezuela – are in outright collapse; but many are teetering on the brink of recession. Countries with floating exchange rates, including Colombia, Mexico, and Russia, have managed to adjust so far, despite facing significantly tighter fiscal constraints (though Russia’s situation remains especially vulnerable if low oil prices endure). By contrast, countries with rigid exchange-rate regimes are being tested more severely. Saudi Arabia’s long-standing peg to the dollar, once apparently invulnerable, has come under enormous pressure in recent weeks.

In short, oil prices were not quite as consequential for global growth in 2015 as seemed likely at the beginning of the year. And strong reserve positions and relatively conservative macroeconomic policies have enabled most major producers to weather enormous fiscal stress so far, without falling into crisis. But next year could be different, and not in a good way – especially for producers.

 

 

Prezzi del petrolio e crescita globale,

di Kenneth Rogoff

CAMBRIDGE – Una delle più grandi sorprese economiche del 2015 è che la sbalorditiva caduta dei prezzi globali del petrolio non ha prodotto un maggiore sostegno alla crescita globale. Nonostante il collasso dei prezzi, da più di 115 dollari al barile nel giugno 2014 a 45 dollari alla fine di novembre del 2015, la maggioranza dei modelli macroeconomici indicano che l’impatto sulla crescita globale è stato minore di quello che ci si aspettava – forse lo 0,5% del PIL globale.

La buona notizia è che questo effetto sulla crescita, benvenuto ma modesto, probabilmente non scomparirà nel 2016. La cattiva notizia è che i bassi prezzi provocheranno tensioni persino più grandi sui principali paesi che esportano petrolio.

Il recente declino dei prezzi del petrolio è allo stesso livello della caduta provocata dall’offerta nel 1985-1986, quando i membri dell’OPEC (leggi: Arabia Saudita) decisero di fare marcia indietro sui tagli all’offerta per riguadagnare quote di mercato. É anche paragonabile con il collasso provocato dalla domanda nel 2008-2009, che seguì la crisi finanziaria globale. Nella misura in cui i fattori della domanda guidano una caduta nel prezzo del petrolio, non ci si aspetterebbe un importante impatto positivo; il prezzo del petrolio è più uno stabilizzatore automatico che una forza esogena che guida l’economia globale. D’altra parte, gli shock dal lato dell’offerta dovrebbero avere un significativo impatto positivo.

Sebbene l’analisi dello shock del prezzo del petrolio del 2014-2015 non è così lineare come nei due precedenti episodi, le forze che lo guidano sembrano essere grosso modo equamente suddivise tra fattori della domanda e fattori dell’offerta. Certamente, un riequilibrio della Cina verso i consumi interni ha messo una sordina su tutti i prezzi globali delle materie prime, con gli indici dei prodotti metalliferi anch’essi bruscamente caduti nel 2015 (i prezzi dell’oro, ad esempio, a 1,050 dollari per oncia alla fine di novembre, sono lontani dal loro picco vicino a 1,890 dollari del settembre 2011, e a partire dal 2011 i prezzi del rame sono scesi quasi altrettanto).

Le nuove fonti dell’offerta di petrolio, tuttavia, sono state almeno altrettanto importanti. La produzione americana di petrolio è cresciuta da cinque milioni di barili al giorno nel 2008 a 9,3 milioni di barili nel 2015, nonostante il crollo del prezzo. Anche la anticipazione della produzione del petrolio iraniano dopo le sanzioni ha influenzato i mercati.

Un declino nel prezzo del petrolio è in qualche misura un gioco a somma zero, con i produttori che rimettono e i consumatori che guadagnano. Secondo il pensiero tradizionale prezzi più bassi stimolano la domanda globale, perché i consumatori è probabile che spendano gran parte di quel guadagno inatteso, mentre di solito i produttori fanno correzioni tagliando sui risparmi.

Ciononostante, nel 2015 questa differenza di comportamenti è stata meno pronunciata del solito. Una ragione è che gli importatori di energia dei mercati emergenti hanno una influenza economica globale molto più ampia di quella che avevano negli anni ’80, e il loro approccio ai mercati del petrolio è molto più interventista che non nei paesi avanzati.

Paesi come l’India e la Cina stabilizzano i mercati al dettaglio dell’energia attraverso sussidi pubblici che mantengono i prezzi bassi per i consumatori. I costi di questi sussidi erano diventati abbastanza massicci quando i costi del petrolio erano arrivati ai punti più alti, e molti paesi stavano già esaminando attentamente i modi per fare tagli. Quindi, come i prezzi del petrolio sono caduti, i Governi dei mercati emergenti hanno colto l’occasione per ridurre i sussidi della finanza pubblica.

Allo stesso tempo, molti esportatori di petrolio vengono costretti a ridimensionare i programmi di spesa a fronte di una brusca caduta delle entrate. Persino l’Arabia Saudita, nonostante le sue vaste riserve di petrolio e finanziarie, è finita sotto sforzo a seguito della rapida crescita della popolazione e della maggiore spesa militare connessa con i conflitti nel Medio Oriente.

L’effetto attenuato dei prezzi del petrolio sulla crescita globale non dovrebbe essere arrivato come una completa sorpresa. Ricerche accademiche si erano indirizzate in questa direzione da lungo tempo. Oggi si pensa che il petrolio sia meno di quanto non si ritenesse in passato un elemento indipendente dei cicli economici. Inoltre, la riduzione della crescita consiste in un brusco declino degli investimenti connessi con l’energia. Dopo anni di rapida crescita, gli investimenti globali nella produzione e nell’esplorazione del petrolio, nel 2015, sono caduti di 150 miliardi di dollari. Alla fine, questo si ripercuoterà nei prezzi, ma solo lentamente e gradualmente: i mercati dei futures hanno prezzi del petrolio in crescita soltanto per 60 dollari al barile entro il 2020.

La buona notizia per il 2016 è che la maggioranza dei modelli macroeconomici indicano che l’impatto dei prezzi più bassi del petrolio tendono a distendersi per un periodo di un paio di anni. Di conseguenza, i prezzi più bassi dovrebbero continuare a sostenere la crescita, anche se gli importatori dei mercati emergenti continueranno a usare i risparmi per tagliare i sussidi.

Per i produttori del petrolio, però, i rischi sono crescenti. Soltanto un paio – in particolare la contrastata governance del Venezuela – sono in completo collasso: ma molti stanno vacillando sull’orlo della recessione. Paesi con tassi di cambio fluttuanti, inclusi la Colombia, il Messico e la Russia, sinora si sono impegnati in aggiustamenti, nonostante siano di fronte a limiti nella finanza pubblica significativamente più ristretti (anche se la situazione della Russia resterà particolarmente vulnerabile, se persisteranno i bassi prezzi del petrolio). All’opposto, paesi con rigidi regimi dei tassi di cambio, sono messi alla prova più severamente. L’ancoraggio di lunga durata dell’Arabia Saudita al dollaro, un tempo apparentemente invulnerabile, nelle recenti settimane ha subito enormi pressioni.

In breve, i prezzi del petrolio non si sono rivelati, nell’anno 2015, proprio consequenzialmente favorevoli alla crescita globale, come sembrava probabile agli inizi dell’anno. Sia le forti condizioni delle riserve che politiche macroeconomiche relativamente conservatrici hanno sinora permesso alla maggioranza dei produttori importanti di resistere all’enorme sofferenza delle finanze pubbliche, senza cadere nella crisi. Ma il prossimo anno potrebbe andare diversamente, e non in senso positivo – specialmente per i produttori.

 

 

 

 

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