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Come avvengono i cambiamenti, di Paul Krugman (New York Times 22 gennaio 2016)

 

How Change Happens

Paul KrugmanJAN. 22, 2016

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There are still quite a few pundits determined to pretend that America’s two great parties are symmetric — equally unwilling to face reality, equally pushed into extreme positions by special interests and rabid partisans. It’s nonsense, of course. Planned Parenthood isn’t the same thing as the Koch brothers, nor is Bernie Sanders the moral equivalent of Ted Cruz. And there’s no Democratic counterpart whatsoever to Donald Trump.

Moreover, when self-proclaimed centrist pundits get concrete about the policies they want, they have to tie themselves in knots to avoid admitting that what they’re describing are basically the positions of a guy named Barack Obama.

Still, there are some currents in our political life that do run through both parties. And one of them is the persistent delusion that a hidden majority of American voters either supports or can be persuaded to support radical policies, if only the right person were to make the case with sufficient fervor.

You see this on the right among hard-line conservatives, who insist that only the cowardice of Republican leaders has prevented the rollback of every progressive program instituted in the past couple of generations. Actually, you also see a version of this tendency among genteel, country-club-type Republicans, who continue to imagine that they represent the party’s mainstream even as polls show that almost two-thirds of likely primary voters support Mr. Trump, Mr. Cruz or Ben Carson.

Meanwhile, on the left there is always a contingent of idealistic voters eager to believe that a sufficiently high-minded leader can conjure up the better angels of America’s nature and persuade the broad public to support a radical overhaul of our institutions. In 2008 that contingent rallied behind Mr. Obama; now they’re backing Mr. Sanders, who has adopted such a purist stance that the other day he dismissed Planned Parenthood (which has endorsed Hillary Clinton) as part of the “establishment.”

But as Mr. Obama himself found out as soon as he took office, transformational rhetoric isn’t how change happens. That’s not to say that he’s a failure. On the contrary, he’s been an extremely consequential president, doing more to advance the progressive agenda than anyone since L.B.J.

Yet his achievements have depended at every stage on accepting half loaves as being better than none: health reform that leaves the system largely private, financial reform that seriously restricts Wall Street’s abuses without fully breaking its power, higher taxes on the rich but no full-scale assault on inequality.

There’s a sort of mini-dispute among Democrats over who can claim to be Mr. Obama’s true heir — Mr. Sanders or Mrs. Clinton? But the answer is obvious: Mr. Sanders is the heir to candidate Obama, but Mrs. Clinton is the heir to President Obama. (In fact, the health reform we got was basically her proposal, not his.)

Could Mr. Obama have been more transformational? Maybe he could have done more at the margins. But the truth is that he was elected under the most favorable circumstances possible, a financial crisis that utterly discredited his predecessor — and still faced scorched-earth opposition from Day 1.

And the question Sanders supporters should ask is, When has their theory of change ever worked? Even F.D.R., who rode the depths of the Great Depression to a huge majority, had to be politically pragmatic, working not just with special interest groups but also with Southern racists.

Remember, too, that the institutions F.D.R. created were add-ons, not replacements: Social Security didn’t replace private pensions, unlike the Sanders proposal to replace private health insurance with single-payer. Oh, and Social Security originally covered only half the work force, and as a result largely excluded African-Americans.

Just to be clear: I’m not saying that someone like Mr. Sanders is unelectable, although Republican operatives would evidently rather face him than Mrs. Clinton — they know that his current polling is meaningless, because he has never yet faced their attack machine. But even if he was to become president, he would end up facing the same harsh realities that constrained Mr. Obama.

The point is that while idealism is fine and essential — you have to dream of a better world — it’s not a virtue unless it goes along with hardheaded realism about the means that might achieve your ends. That’s true even when, like F.D.R., you ride a political tidal wave into office. It’s even more true for a modern Democrat, who will be lucky if his or her party controls even one house of Congress at any point this decade.

Sorry, but there’s nothing noble about seeing your values defeated because you preferred happy dreams to hard thinking about means and ends. Don’t let idealism veer into destructive self-indulgence.

 

 

Come avvengono i cambiamenti, di Paul Krugman

New York Times 22 gennaio 2016

Ci sono ancora numerosi commentatori che si ostinano a fingere che in America tra i due grandi Partito ci sia simmetria – che essi siano egualmente indisponibili a misurarsi con la realtà, egualmente spinti a posizioni estreme da interessi particolari e da una rabbiosa faziosità. Non ha senso, naturalmente. Planned Parenthood [1] non è la stessa cosa dei fratelli Koch [2], né Bernie Sanders è l’equivalente morale di Ted Cruz. E non c’è assolutamente un omologo democratico di Donald Trump.

Inoltre, quando i commentatori sedicenti centristi scendono sul concreto delle politiche che vogliono, devono fare i salti mortali [3] per evitare di ammettere che quelle che stanno descrivendo sono fondamentalmente le posizioni di un tizio chiamato Barack Obama [4].

Tuttavia, ci sono alcune correnti nella nostra vita politica che corrono attraverso entrambi i partiti. Ed una di esse è la persistente illusione che una maggioranza nascosta degli elettori americani sostenga o possa essere persuasa a sostenere politiche radicali, se soltanto la persona giusta perorasse quella causa con sufficiente fervore.

Lo si può vedere a destra tra i conservatori che sostengono una linea dura, che sono convinti che soltanto la viltà dei dirigenti repubblicani abbia impedito di ribaltare ogni programma progressista che è stato messo in atto nelle due passate generazioni. Per la verità, si può anche vedere una versione di questa tendenza tra i repubblicani raffinati, del genere di coloro che frequentano i circoli riservati, che continuano ad immaginarsi di rappresentare la componente prevalente del Partito anche quando i sondaggi mostrano che quasi due terzi dei probabili elettori delle primarie sostengono Trump, Cruz o Ben Carson.

Nello stesso tempo, a sinistra c’è sempre un contingente di elettori idealistici desiderosi di credere che un dirigente di adeguati elevati principi possa tirar fuori dal cilindro i migliori angeli della natura degli americani e convincere la vasta opinione pubblica a sostenere una riorganizzazione radicale delle nostre istituzioni. Nel 2008 quel contingente si raccoglieva dietro ad Obama; oggi sostengono Sanders, che ha adottato una posizione talmente purista che giorni addietro ha liquidato Planned Parenthood (che sostiene Hillary Clinton) come parte della “classe dirigente”.

Ma come Obama scoprì appena entrò in carica, la retorica del cambiamento non è il modo in cui il cambiamento avviene. Ciò non significa che egli sia stato un fallimento. Al contrario, egli è stato un Presidente estremamente conseguente, ed ha fatto di più per far avanzare il programma dei progressisti di chiunque altro, dai tempi di Lindon B. Johnson.

Tuttavia le sue realizzazioni in ogni fase sono dipese dall’accettare il principio che mezza pagnotta è meglio di nessuna: la riforma sanitaria che ha lasciato il sistema sanitario ampiamente privatistico, la riforma del sistema finanziario che ha seriamente ridimensionato gli abusi di Wall Street senza interrompere del tutto il suo potere, le tasse più alte sui ricchi ma non un assalto su vasta scala all’ineguaglianza.

C’è una specie di mini-disputa tra i democratici su chi può sostenere di essere il vero erede di Obama – Sanders o la Clinton? Ma la risposta è ovvia: Sanders è l’erede dell’Obama candidato, la Clinton è l’erede dell’Obama Presidente (di fatto, la riforma sanitaria che abbiamo avuto era fondamentalmente una sua proposta, non quella di Obama).

Poteva Obama essere maggiormente capace di cambiamento? Forse egli avrebbe potuto fare di più su aspetti di dettaglio. Ma la verità è che egli venne eletto nelle circostanze più favorevoli, una crisi finanziaria che aveva completamente screditato il suo predecessore – e tuttavia fronteggiò una opposizione da terra bruciata sin dal primo giorno.

E la domanda alla quale i sostenitori di Sanders dovrebbero rispondere è: quando ha ma funzionato la loro teoria del cambiamento? Persino Franklin Delano Roosevelt, che fece misurare con i punti più bassi della Grande Depressione una vasta maggioranza, dovette essere politicamente pragmatico, lavorando non solo con particolari gruppi di interesse ma anche con i razzisti del Sud.

Si ricordi anche che gli istituti che Roosevelt creò erano delle aggiunte, non delle sostituzioni: la Previdenza Sociale non rimpiazzò le pensioni private, diversamente dalla proposta di Sanders di sostituire l’assicurazione sanitaria privata con un sistema di pagamenti centralizzato. Infine, la Previdenza Sociale agli inizi copriva soltanto la metà della forza lavoro, e di conseguenza in larga parte escludeva gli afro-americani.

Per chiarezza: non sto dicendo che il signor Sanders sia ineleggibile, sebbene gli attivisti repubblicani vorrebbero evidentemente misurarsi con lui piuttosto che con la signora Clinton – essi sanno che le sue attuali preferenze nei sondaggi non sono significative, giacché egli non ha mai fatto fronte alla loro macchina propagandistica. Ma anche se egli dovesse diventare Presidente, finirebbe col trovarsi di fronte alle stesse dure realtà che hanno condizionato Obama.

Il punto è che mentre l’idealismo è una cosa buona e fondamentale – si deve pur sognare un mondo migliore – non è una virtù finché non procede di pari passo con un caparbio realismo sui mezzi che possono realizzare le vostre finalità. Questo è vero anche quando, come Roosevelt, vi misurate nel vostro incarico con un maremoto politico. Ed è anche vero per un democratico odierno, che sarà fortunato se, in questo decennio, il suo Partito (di lui o di lei) controllerà in ogni momento persino solo un ramo del Congresso.

Sono spiacente, ma non c’è niente di nobile nel vedere i vostri valori sconfitti perché avete preferito sognare beatamente anziché ragionare con attenzione sui mezzi e sui fini. Non si permetta che l’idealismo divaghi verso una distruttiva auto indulgenza.

 

[1]Genitorialità programmata”; è una associazione che opera per favorire la procreazione consapevole, e dunque si occupa di varie tematiche, incluso l’aborto. Il che la mette sotto mira di vari attacchi, alcuni dei quali – di recente – abbastanza evidentemente pretestuosi.

[2] Una famiglia di mecenati della destra americana.

[3] Traduzione un po’ libera, ma probabilmente la migliore. Letteralmente “To tie themselves in knots” corrisponde a “legarsi in nodi”, nel senso di “ingarbugliarsi, confondersi”, o se si preferisce il quasi identico italiano “annodarsi”. Talora sta anche, con un senso diverso, per “avere le mani legate”. Ma qua è un ‘confondersi per evitare di dire qualcosa’, dunque ‘fare i salti mortali’ mi pare più preciso.

[4] É un argomento frequente nella polemica di Krugman contro i centristi: il fatto che le politiche che quei commentatori si aspetterebbero da repubblicani più ragionevoli, in realtà sono già impersonate da Obama, che in sostanza copre lo spazio politico di centro, anche considerato che i conservatori si sono spostati all’estrema destra.

 

 

 

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