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L’economia che cambia la mentalità (dal blog di Krugman, 13 gennaio 2016)

 

Mind-Altering Economics

January 13, 2016 1:12 pm

Adam Ozimek has a nice article arguing against the view that economics is just ideology, that

economists and those who read economics are locked into ideologically motivated beliefs—liberals versus conservatives, for example—and just pick whatever empirical evidence supports those pre-conceived positions.

He argues instead that

solid empirical evidence, even of the complicated econometric sort, changes plenty of minds.

I have a few quibbles. Surely some — perhaps all too many — economists are indeed locked into ideologically motivated beliefs. Consider the response of fresh-water macroeconomists to the utter failure of their predictions about inflation; who other than Narayana Kocherlakota has made the slightest concession to the people who got it right? I’m also skeptical about the persuasive power of complicated econometrics; my sense is that mind-changing empirical work almost always involves not much more than simple correlations, usually from natural experiments — that is, even multiple regression turns out, in practice, to be too complicated to persuade.

On the other hand, I would argue that empirical work isn’t the only thing that can change minds: really clear analytical arguments can do it too, by letting economists see things that were in front of their noses but overlooked because they didn’t have a framework.

Personal experiences: my mind was strongly changed by the empirical work on minimum wages that started with Card and Krueger; a summary and further evidence is here. I used to be a very conventional, Econ 101 person on this subject, figuring that the labor market would work like any market with a price floor. But the accumulation of evidence when some states raised minimum wages while neighbors didn’t — a classic natural experiment — made it clear that at least for the US, at current minimums, there is little or not negative effect on employment.

On analytics: I have personally had several experiences of entering a subject with a clear preconception, knowing what had to be true, working up a model that was supposed to confirm my intuition, and finding both that the model said no such thing and that I ended up persuaded that my original intuition was wrong.

This happened in my work on increasing returns and trade, way back when. There was at the time a sort of trade “counter-culture”, rejecting comparative advantage as the sole story and asserting things like the “home market effect”, where countries tended to export things for which they had strong domestic demand. While I took non-comparative advantage trade seriously, I was sure that the home market effect would boil away in my models; instead, it came in clearly, and I ended up asserting that the effect was real and made a lot of sense.

Years later, thinking about Japan in the 1990s, I was quite sure that arguments about the ineffectiveness of monetary policy were all wrong — even at zero interest rates, printing money simply had to be effective. But when I tried to model it I ended up finding that this intuition was wrong; that analysis has stood me in very good stead now that we’re all Japan.

So where’s the ideology here? The minimum wage issue is politically charged, of course, but my conversion reflected evidence, not a move to the left (I’d been writing about inequality long before I changed views on minimum wages.) The trade stuff has no ideological bent I can see. And when I changed views about monetary policy, it was about Japan and had nothing to do with a desire for fiscal expansion in the US.

Again, the point is that the discipline of economics is, or at least can be, real — it can lead you, via evidence and/or analysis, to a different place from where you started. And if you’re an economist and that has never happened to you, you should take a long hard look in the mirror.

 

L’economia che cambia la mentalità

Adam Ozimek ha un bell’articolo nel quale si pronuncia contro il punto di vista secondo il quale l’economia sarebbe solo un’ideologia, per il quale:

“gli economisti e coloro che leggono l’economia sono rinchiusi entro convinzioni motivate ideologicamente – progressisti contro conservatori, ad esempio – e semplicemente scelgono qualsiasi prova empirica che supporti le loro presupposte posizioni”.

Egli invece sostiene che:

“solide prove empiriche, persino del genere della complicata econometria, cambiano una gran quantità di opinioni”.

Ho alcune minime obiezioni. Certamente alcuni economisti – forse anche troppi – sono in effetti rinchiusi entro convinzioni motivate ideologicamente. Si consideri la risposta dei macroeconomisti “dell’acqua dolce” [1] al completo fallimento delle loro previsioni sull’inflazione; chi altri, oltre a Narayana Kocherlakota, hanno fatto la minima concessione alle persone che avevano compreso giustamente? Io sono anche scettico sul potere di persuasione della complicata econometria; la mia sensazione è che i lavori empirici che cambiano le mentalità quasi sempre non riguardano molto di più che semplici correlazioni, di solito derivanti da esperimenti naturali – ovvero, risulta che persino una regressione multipla, in pratica, è troppo complicata per persuadere.

D’altra parte, direi che il lavoro empirico non è l’unica cosa che può cambiare le mentalità: anche argomenti analitici realmente chiari possono farlo, consentendo agli economisti di vedere cose che avevano dinanzi al naso ma erano trascurate perché erano privi di un modello.

Alcune mie esperienze: la mia opinione venne modificata grandemente dal lavoro empirico sui salari minimi che si avviò con Card e Krueger; in questa connessione trovate una sintesi ed ulteriori testimonianze [2]. Su questo tema ero abituato ad essere in individuo molto convenzionale, da libro di testo di economia, immaginando che il mercato del lavoro funzionasse come ogni mercato con un prezzo di base. Ma l’accumularsi di prove quando alcuni Stati elevarono i salari minimi mentre gli altri vicini non lo facevano – un classico esperimento naturale – rese chiaro che almeno per gli Stati Uniti, ai minimi attuali, c’è poco o nessun effetto sull’occupazione.

Sugli aspetti analitici: ho avuto personalmente varie esperienze di affacciarmi ad un tema con un chiaro presentimento, sapendo che doveva esser vero, lavorando su un modello che pensavo confermasse la mia intuizione, per poi scoprire sia che il modello non diceva una cosa del genere che finire col persuadermi che la mia intuizione originaria era sbagliata.

Questo è successo nel mio lavoro sui rendimenti crescenti e sul commercio, quando accadde tempo addietro. A quel tempo c’era una sorta di “contro-cultura” del commercio, che respingeva il vantaggio comparativo come spiegazione esclusiva e sosteneva cose come “l’effetto del mercato interno”, secondo le quali i paesi tendevano ad esportare oggetti per i quali avevano una forte domanda interna. Nel mentre io considerai seriamente il commercio non nelle condizioni del vantaggio comparativo, ero certo che l’effetto del mercato interno sarebbe evaporato nei miei modelli; invece chiaramente c’entrava, ed io finii col sostenere che l’effetto era reale ed aveva molto senso.

Anni dopo, pensando al Giappone degli anni ’90, ero quasi certo che gli argomenti sull’inefficacia della politica monetaria erano tutti sbagliati – anche con i tassi di interesse allo zero, semplicemente lo stampare moneta doveva essere efficace. Ma quando provai a restituirlo in un modello finii con lo scoprire che questa intuizione era sbagliata; quell’analisi mi è stata molto utile adesso che siamo finiti tutti come il Giappone.

Dov’è dunque, in questo caso, l’ideologia? Il tema del salario minimo è politicamente sensibile, come è ovvio, ma la mia conversione rifletteva le prove, non uno spostamento a sinistra (avevo scritto sull’ineguaglianza molto tempo prima che cambiassi opinione sui salari minimi). La faccenda del commercio non ha alcun connotato ideologico che mi riesca di vedere. E quando cambiai opinione sulla politica monetaria, ciò riguardava il Giappone e non aveva niente a che fare con il desiderio di una espansione della finanza pubblica negli Stati Uniti.

Di nuovo, il punto è che l’esercizio dell’economia è, o almeno può essere, una cosa reale – può condurvi, attraverso le prove o l’analisi, ad un punto diverso da quello da cui eravate partiti. E se siete un economista e non vi è mai accaduta una cosa del genere, dovreste guardarvi molto attentamente allo specchio.

 

[1] É il nome della scuola economica conservatrice americana, vedi alle note sulla traduzione.

[2] La connessione è con un studio di Arindrajit Dube, T. William Lester, and Michael Reich del 2010.

 

 

 

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