La tesi di Robert Skidelsky – “Una politica europea dal volto islamico?”, 22 dicembre 2015, qua tradotto – può essere così sintetizzata: l’islamismo è una religione con tratti secolari non eliminabili, o almeno sinora connaturati alla sua storia (mentre il cristianesimo che è alla base della cultura dell’Occidente ne è privo, o se ne è emendato da tempo); gli indici di fertilità delle popolazioni islamiche emigrate in Occidente sono tali che, prima di diventare omogenei con quelli dei paesi che le ospitano, la loro quota sui residenti totali crescerà di molto, inevitabilmente; dunque, a parte Trump, dovremmo prepararci a considerare il problema della loro integrazione – diciamo pure, della convivenza con loro – come cruciale, ben oltre i rischi delle infiltrazioni terroristiche. Un libro che ho letto di recente – “Violenza ed Islam”, conversazione tra Adonis e Houria Abdelouhed – analizza in modo più approfondito il tema della violenza, ed anche della negazione della libertà alla donna, come elemento costituivo dell’Islam, per giungere a conclusioni ancora più sconfortanti. Peraltro, una tesi del libro – francamente non espressa in modo chiaro – è che lo stesso fenomeno delle ‘primavere arabe’ sarebbe stato condizionato dal fondamentalismo.
In entrambi i casi, si tratta di intellettuali che non possono certo essere sospettati di ‘suprematismo bianco’; i due autori del libro sono libanesi di evidente orientamento democratico da tempo residenti in Francia; Skidelsky – a parte i suoi interventi di questi anni a favore di una diversa politica economica, vari dei quali sono stati tradotti su questo blog – è autore di una monumentale e molto bella biografia di Keynes (purtroppo tradotta in italiano solo nei primi due tomi). Ma è evidente che i loro argomenti non costituiscono una negazione della tesi di un inevitabile ‘scontro delle civiltà’; come minimo possono essere considerati come un ammonimento sui pesanti fattori che possono far fallire l’evoluzione della cultura e della politica globale nella direzione di un incontro delle civiltà. Il grande assente in entrambi i ragionamenti, mi pare che alla fine sia il ruolo passato, recente e futuro dell’Occidente.
Ma andiamo con ordine, anche perché da questo spunto vorrei trarre l’occasione per indicare alcune altre letture: “Storia dei popoli arabi”, di Albert Hourani; “Storia degli Arabi”, di Philip K. Hitti, ed anche la vecchia introduzione al “Corano” nella edizione Sansoni di Alessandro Bausani (che ne è anche il traduttore). Naturalmente, una premessa: particolarmente in questa occasione non ho alcun titolo per ragionare delle cose che sono implicite nella presentazione di queste letture. Vale la scusante che ormai dovreste aver compreso: parlo solo perché spesso mi annoio a continuare a leggere in silenzio.
Se ci si avvicina ad un testo di storia dell’Islam e dei popoli arabi, la prima cosa che colpisce è, in effetti, una strano fenomeno temporale: direi una dilatazione, ma anche una contrazione del tempo. Oggi ci viene spiegato che lo scontro tra sciiti e sunniti, che è al fondo delle tragedie odierne di quella parte del mondo, si basa su eventi che sono in massima parte espressi nella grande divisione che ebbe luogo sul tema del legittimo titolo ad ereditare una parte del ruolo storico di Maometto, non quello unico di Profeta, ma quello di capo della nascente nazione araba. Gli sciiti furono allora – oltre 1.300 anni orsono – i sostenitori della tesi per la quale tale funzione poteva solo spettare alla cerchia ristretta dei ‘Compagni del Profeta’, e l’ultimo esponente che riconoscevano era al-Ḥusayn b. ʿAlī, che era stato assassinato a Karbalāʾ nel 680 dalle forze del califfato ommayyade; i sunniti, come si chiamarono in seguito, sostenevano che tale diritto si estendeva a chiunque possedesse un adeguata caratteristica di credente (la loro denominazione, per esteso, significa “Gente che si rifà alla tradizione [di Maometto] e non origina secessioni”). Non si può non notare come sarebbe molto arduo immaginare che una disputa del genere continuasse a provocare, in altre tradizioni religiose e culturali, scontri sanguinosi dopo quasi un millennio e mezzo. Lo sfondo di un fenomeno del genere pare non possa essere altro che una sorta di sospensione del tempo e della storia, quasi un ‘difetto’ di storia. Ma in realtà, nei primi decenni dell’islamismo si assisté al più impressionante fenomeno di ‘contrazione dei tempi’, di ‘accelerazione’ della storia, che forse è mai capitato al genere umano. Maometto vivente, il suo problema fu quello di trovare una base sufficiente di consenso fuori dal deludente seguito che aveva trovato con la predicazione alla Mecca; da lì il suo trasferimento a Medina, che a occhio mi pare abbia da Mecca la stessa distanza che c’è tra Roma e Napoli. In parte durante la sua vita e dopo alcuni decenni dalla sua morte l’impero islamico si estendeva dai confini con l’India all’Andalusia. Non, dunque, la sola religiosità islamica, ma lo Stato islamico, che si basava su regole civili ed anche fiscali unitarie, pur articolandosi in centri regionali di potere.
In altri termini, non c’è niente nella storia dell’Islam che si possa opporre alla obiezione del ‘secolarismo’, ovvero della frammistione tra storia religiosa e storia politico-statuale: quella storia è la storia di una religione che diventa rapidamente il fattore di connessione e di regolamentazione di una nazione araba e subito dopo di un impero arabo intercontinentale. Al punto che, quando altre etnie assunsero il ruolo guida di quell’Impero – in Egitto e in Siria i mamelucchi ed i turchi ottomani dappertutto, tra il 1299 sino addirittura al 1922 – il loro subentro ebbe il carattere di una certa naturalezza. Si trattò, naturalmente, di conquiste militari, ma per popoli che continuavano a dibattere aspramente sui diritti dinastici di Ali, può sembrare un po’ strano che nel frattempo la guida fosse stabilmente passata a popolazioni provenienti dal Caucaso (che del resto, anch’esse, si impadronirono di quella storie e di quelle dispute). Si potrebbe dire: una storia politica di Stati che trova e rinnova la sua radice religiosa nel messaggio evidentemente potente di un fulcro che si era originato in quello che, in fondo, era diventato un minuscolo territorio, politicamente del tutto marginale, ma religiosamente indistruttibile (peraltro destinato a recuperare un ruolo materiale molto maggiore a seguito di un fattore imprevisto, il petrolio).
Ma non è difficile intuire che il ragionamento sul carattere secolare dell’islamismo possa anche essere capovolto. Nella misura in cui una complessa e lunghissima vicenda politico statuale di vastità intercontinentale cresce alla luce di una ispirazione religiosa, si può ben immaginare che quella stessa ispirazione possa conservarsi, aggiornarsi e rivivere in contesti globali diversi.
E qua ci si imbatte in quello che appare davvero deludente nell’articolo di Skidelsky e nel libro di Adonis-Abdelouhed. Nell’ultimo secolo quell’Impero che era durato oltre un millennio incontra l’Occidente; non per la prima volta, ma per la prima volta legando le sue sorti ad un potere economico militare incomparabilmente superiore: l’Impero Ottomano scomparve travolto dalla sconfitta degli Imperi Centrali nella Prima Guerra Mondiale e iniziò un secolo profondamente segnato dal potere coloniale dell’Occidente e sempre più dalla logica materiale ed immateriale (ovvero, non necessariamente di dominio statale diretto) dell’accesso alle risorse energetiche. Non casualmente, molti episodi connessi con tentativi di laicizzazione prima e con la nascita di nuovi Stati nazionali dopo, appartengono a questo secolo (l’uscita di scena dell’Impero Ottomano avvenne dopo battaglie molto grandi – il fronte orientale non fu tanto meno sanguinoso dei fronti europei – che furono combattute anche dalle popolazioni arabe che rifiutarono l’alleanza con gli Imperi Centrali. Essa, al tempo stesso, segnò l’inizio di un nuovo predominio anglo-francese e di un nuovo nazionalismo arabo. Nacque, in sostanza, una nuova epoca della cultura politica araba, che l’Occidente registrò semplicemente in una logica di rapina e di ipocrisia, come è ben spiegato nel libro ancora utile di Guido Valabrega “La rivoluzione araba”). E’ alla fine di quel secolo che una parte sempre meno indifferente del potenziale umano di quei popoli si trasferisce con l’emigrazione nell’Occidente, al punto da rappresentare un nuovo capitolo tutto da immaginare della presenza islamica nel mondo.
Non mi pare di aver più alcuna simpatia con la pretesa eterna di alcuni di spiegare tutto con le colpe dell’Occidente; ma è davvero enorme l’altra pretesa di considerare che l’influenza occidentale sia per definizione una manifestazione immacolata di civilizzazione. Quello che oggi appare in quei paesi è un contesto politico nel quale l’esistenza di forze politiche assimilabili ad una cultura conservatrice ed anche ad una cultura di sinistra – che pure esistevano, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale – è stata soppiantata dal dominio sugli Stati degli interessi di famiglie e da un fanatismo religioso che per tutto un secolo non era mai apparso così crudamente. Una storia possibile, nella quale un ruolo era anche stato esercitato dalle masse popolari e da un pur debole movimento operaio, quella che in fondo aveva portato alla crisi delle monarchie che erano uscite dal primo conflitto mondiale, pare sia stata cancellata da una radicalizzazione che ha lasciato campo libero soprattutto ad una fanatizzazione che si fonda su un culto micidiale della violenza, più che su un idea religiosa. Se, non l’Islam, ma la storia concreta di quegli Stati è diventata questo, si dovrebbe pur riflettere sui modi nei quali si è esercitata l’influenza dell’Occidente. Si pensi, cercando di calarsi nella coscienza di generazioni di arabi, al modo in cui quella storia – dai vari colpi di Stato a Suez, dall’Algeria all’Iraq, dall’incancrenirsi dello scenario tra Israele e Palestina sino agli ultimi bombardamenti in Libia, per dirne solo alcune e riferirci solo all’ultimo mezzo secolo – ha influito sui loro orientamenti, ed anche semplicemente sulla possibilità di vivere le loro tradizioni religiose in una chiave diversa dal fondamentalismo. Probabilmente, l’Occidente alla fine si è stampato nelle loro teste in un duplice modo: per alcuni una alternativa di laicità e di libera modernità, per molti una tirannide di interessi e di ipocrisia: una concreta corresponsabilità che ha contribuito a legittimare scenari di interminabile violenza.
Non si tratta, a questo punto, di prospettare un bilancio di queste responsabilità; il punto è capire se i presunti impedimenti ad un processo di integrazione delle civiltà derivino per davvero dai fondamenti della religiosità islamica, che si pretende irretita dal condizionamento del potere secolare, e addirittura dai miti della violenza e della mortificazione del ruolo femminile. E il punto vero è capire quali possano essere le ambizioni della civiltà occidentale nel nuovo millennio, sia nei nostri paesi che nello scenario globale. In fondo, la nostra capacità di accogliere popolazioni in fuga non è un test sulla laicità possibile dell’Islam, è prima di tutto un test sulla nostra responsabilità, dopo un secolo esatto di disastrosa irresponsabilità. Per questo, una scelta di accoglienza come quella annunciata dalla signora Merkel, che oggi spacca le politiche europee, continuo a pensare abbia un significato profondamente innovativo. E’ come se ci tornasse addosso una versione della globalità che non ci eravamo immaginati: constatiamo che non esiste un’economia globale che non faccia esplodere la sfida di un mondo unico.
Quanto ai miti della violenza ed alla discriminazione femminile, devo aggiungere che gli argomenti nel libro di Adonis, nonostante la mia incompetenza, appaiono spesso un bel po’ bizzarri. Il mito della violenza viene in gran parte ricostruito con riferimenti coranici, in genere desunti da rappresentazioni di scenari infernali: l’Inferno, la pena di carni che bruciano e si riformano in continuazione per rendere eterna la sofferenza, sarebbe la testimonianza di questa necessità di violenza verso chi non crede. Basterebbe pensare alla straordinaria fantasia delle pene dantesche, o alla rappresentazione della sorte dei peccatori negli affreschi di Santa Maria del Fiore a Firenze, per obiettare che non si vede la differenza. Così come si potrebbe riflettere sulla chiave diversa che offriva Bausani nella sua introduzione al testo islamico sui temi della morale e della morale sessuale in particolare (pagine LX e LXI), secondo la quale, in fondo, la caratteristica principalmente distintiva del messaggio di Maometto è l’idea della debolezza umana, che non sopporterebbe morali eroiche ed ascetiche, e del conseguente sottomettersi alla “relativa indulgenza di Dio”. Anche avere più mogli, che non era certo una prerogativa islamica, era sconsigliato se si temeva “di non essere giusti con tutte alla pari”, e si aggiungeva che “Anche se lo desiderate non potrete agire con equità con le vostre mogli” (sura IV, versetto 129), implicitamente consigliando la monogamia, il che per la morale dell’epoca, e per quella biblica precedente, era discretamente innovativo. In generale, sembrerebbero forme di indulgente realismo che non impediscono affatto una religiosità declinata in un mondo distante un millennio e mezzo, che in fondo è alla ricerca di soluzioni basate sul riconoscimento della debolezza umana e su una rivalutazione del tema, cruciale per Papa Francesco, della “Misericordia”. Si aggiunga che, dinanzi al fanatismo odierno, alcune delle cose più belle che si leggono nel Corano sono le manifestazioni di critica ma al tempo stesso di fratellanza nei confronti delle altre religioni delle Sacre Scritture; religioni di popoli che spesso sono criticati – le prime Sure del Corano – per aver ricevuto il dono della Rivelazione ed averlo poi impoverito nell’incredulità o in dispute faziose (dando quasi l’impressione che per Maometto la forza della nazione islamica avrebbe dovuto contare sull’aver appreso tali lezioni ed sull’essersi incamminata su un strada di diversa tolleranza).
Molto più interessante, mi pare, il ragionamento su quanto la tradizione araba (anche qua, si ragiona nei millenni) di pensiero filosofico e scientifico ed anche di lingua e di poesia, risulti “falsata” dalla storia che le è stata attaccata addosso, da varie forme di fanatismo religioso. Scrive Adonis: “ … quelli che hanno creato la civiltà araba e la sua grandezza sono stati banditi, rifiutati, imprigionati, oppure crocifissi. Bisogna rileggere questa civiltà e considerarla in modo diverso: con un nuovo sguardo e una nuova umanità”. Appunto. E del resto si tratta di un problema con il quale l’Occidente si è misurato “solo” da due o tre secoli, con risultati non sempre definitivi, se si pensa al negazionismo dell’evoluzionismo darwiniano da parte di molti conservatori americani.
Ma qua mi fermo, nella consapevolezza di essermi avventurato anche troppo.
Il punto è che non si vede in che senso l’integrazione delle civiltà sarebbe impossibile. Ad una condizione: che la posta in gioco per l’Occidente non sia quella di preservare il suo (declinante) primato e la sua separazione da un resto del mondo, dal quale pur ci si aspetta forza lavoro e materie prime. Alla condizione, cioè, che l’idea di globalità ormai così incontestabile sulle faccende dell’economia, produca alla fine ambizioni globali anche sul terreno della comune civiltà, della cultura e della convivenza delle religioni. La qualcosa appare ancora oggi quasi utopistica, se possiamo immaginare di condizionare o di sgretolare con la nostra potenza economica le storie altrui, ma ci spaventiamo dinanzi ai rischi di vivere assieme anche solo con coloro che fuggono da quelle crisi.
Francamente, però, i testi ai quali mi sono riferito mi hanno provocato un interesse vivo. Evocare paure esagerate – da un punto di vista analitico – può essere utile e persino liberatorio, se aiuta a farci intravedere quanto potremmo essere noi per primi diversi.
(Le parti in rosso sono aggiunte e lievi correzioni del 23 gennaio)
By mm
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